Lo “stupore” di Mattarella: Palazzo Chigi non poteva non sapere

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Ugo Magri
Fonte: La Stampa

Lo “stupore” di Mattarella: Palazzo Chigi non poteva non sapere

Dell’attacco di Galeazzo Bignami al Quirinale hanno subito individuato il mandante. O meglio: si sono chiesti se fosse davvero possibile che il capogruppo dei Fratelli d’Italia, devotissimo a Giorgia Meloni, avesse preso l’iniziativa di testa sua senza averne preventivamente informato la premier. La risposta è stata no, l’ipotesi di insubordinazione non esiste in natura. Fedeltà a parte, nel partito meloniano la comunicazione è totalmente centralizzata, i vertici non potevano non sapere. La domanda successiva è stata: perché mai il partito di maggioranza relativa dà corda a un quotidiano, La Verità, che presenta il Colle come luogo di malaffare e ogni due per tre accusa Sergio Mattarella di ordire trame contro Giorgia Meloni secondo un costume ereditato dai predecessori? Non sarà che pure la premier condivide questo malanimo? Letto e riletto l’affondo di Bignami, il presidente e i collaboratori più stretti si sono convinti che sì, purtroppo viene dato credito al giornale diretto da Maurizio Belpietro. Palazzo Chigi e dintorni veramente sospettano che il presidente abbia in animo di far cadere il governo. Di qui lo «stupore» espresso dall’ufficio stampa presidenziale in una nota dove si parla, con asprezza abbastanza inusuale, di sconfinamento nel «ridicolo» (riferito non a Bignami ma alle teorie del complotto cui Bignami ha abboccato).

 

Dopodiché al Quirinale hanno atteso eventuali ripensamenti dei Fratelli d’Italia che, tuttavia, sono stati soltanto limitati e parziali, della serie «non ce l’avevamo con Mattarella, per carità, semmai con il suo consigliere» colpevole, secondo La Verità, di sparlare alle spalle di Meloni. Come se se davvero nel mirino non ci fosse il presidente della Repubblica. Ancora a sera si negava che fossero intervenute spiegazioni, tantomeno contatti diretti ai piani altissimi del Palazzo. Di sicuro Mattarella non si aspettava di venire vissuto come un nemico, sleale per giunta. Attribuirgli le stimmate del mestatore, del burattinaio, dell’inciucione è un qualcosa che lo lascia senza parole. I legami con il suo mondo di provenienza, il Pd, sono stati recisi undici anni fa; figurarsi quale rapporto può esserci adesso specie dopo il ricambio generazionale incarnato da Elly Schlein. Nella nostra politica Mattarella è un monolite solitario che si fa vanto della propria imparzialità. Ultimamente ha deluso certe aspettative a sinistra chiedendo (su suggestione, pare, della stessa premier) di deviare verso porti più sicuri la Flottilla pro-Pal. Non più tardi di lunedì sera il Colle, con mano felpata, aveva aiutato il governo a dipanare la matassa degli acquisti di armi americane chieste da Kiev e osteggiati dalla Lega. Seduto allo stesso tavolo di Mattarella e di Meloni, con i principali ministri e i con i vertici delle Forze Armate, c’era Francesco Saverio Garofani, il consigliere presidenziale ritrovatosi ieri mattina sotto il cannoneggiamento di Belpietro. Già, perché Garofani non è una figura qualunque. Assolve l’incarico di segretario del Consiglio supremo di Difesa. Ed è a suo modo straordinario, quasi un ossimoro, che il coordinatore operativo di questo organismo delegato a sovrintendere la sicurezza nazionale venga, proprio lui, accusato dal partito della premier di destabilizzare gli equilibri politici. Come osserva Osvaldo Napoli, vecchio navigatore, la portavoce russa Maria Zakharova ne sarà piuttosto soddisfatta. Quanto a Garofani, si sente come è facile intuire: dentro un tritacarne. A tavola, in privato e con amici, aveva convenuto che se la sinistra non si darà una mossa Meloni rivincerà le elezioni, concetto perfino ovvio. Mai si era lasciato andare su presunti piani per sbarazzarsi della premier. E considerata la prudenza fuori scala di Garofani, per tre legislature parlamentare Dem ma proprio per questo tutt’altro che sprovveduto, Mattarella non ha faticato a credergli. Escluso che voglia chiederne le dimissioni,  contrariamente a certe voci.

Ma allora, se così è andata, perché Garofani non smentisce il presunto scoop? Mattarella, viene obiettato, da tempo ha smesso di reagire agli attacchi de La Verità, che peraltro fa il suo lavoro. Non c’era motivo di cambiare metro per un suo consigliere. E comunque, si fa ancora notare, da oltre un secolo hanno inventato il telefono: se c’era da chiarirsi o avanzare rimostranze, bastava comporre il numero del Quirinale. Funziona così, tra istituzioni al servizio della Repubblica e non impegnate a farsi la guerra. Invece Bignami ha messo in piazza tutto lo sdegno del mondo meloniano. Ha dato fiato alle trombe proprio lui che, nella sua veste di capogruppo alla Camera, è la figura politicamente più esposta del partito (dopo Meloni si capisce). Impossibile far finta di niente. Infine Bignami ha preteso da Garofani la smentita indirettamente strattonando l’inquilino del Colle, con il tono di chi lancia un altolà, quasi un avvertimento. Però il rischio è che i modi spicci ottengano l’effetto contrario. Dietro l’immagine sorridente del nonno d’Italia, Mattarella è uomo dalla scorza dura. La mafia gli ha ammazzato un fratello, rammenta chi gli sta vicino. Quando si sente ingiustamente aggredito il presidente non arretra. Nemmeno stavolta si lascerà intimidire.

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