Mattarella, la vera storia del bis

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fabio Martini
Fonte: La Stampa

Mattarella, la vera storia del bis

Quel pomeriggio il Presidente si ritrovò circondato da un pathos senza precedenti nella storia della Repubblica. È il 3 febbraio 2022, nell’aula di Montecitorio i “grandi elettori” accolgono con un’ovazione fiammeggiante l’arrivo di Sergio Mattarella, rieletto Capo dello Stato cinque giorni prima, il 29 gennaio. Un anno fa. Ma l’emozione di quei momenti fa parte del rito: si è sempre fatto così.

La sorpresa arriva quando Mattarella prende la parola: da quel momento quasi ogni applauso al Presidente si trasforma in standing ovation. Anche dopo passaggi privi di significato politico, tutti scattano in piedi, si risiedono e, poco dopo, sono di nuovo tutti in piedi. Se non proprio una agitazione psicomotoria collettiva, qualcosa di simile. Certo, il carisma di Mattarella. Certo, un bel discorso. Ma anche un messaggio privo di quegli effetti speciali che di solito servono a catturare consenso e invece alla fine si contano 53 battimani: mai così tanti per i predecessori. Per dire: Sandro Pertini, il 9 luglio 1978, con un messaggio ricco di emotività, era stato salutato da sei applausi.

Tantissimo pathos. In qualche modo risarcitorio? Sintomo di un senso di colpa per la paralisi delle settimane precedenti? Una cosa è certa: nei giorni che precedono lo sblocco, nessuno tra i leader aveva immaginato, o voluto, puntare su Sergio Mattarella. Nei giorni delle votazioni i leader si consumano nell’ansia di apparire kingmaker, quasi a prescindere dai candidati, e questo “imperativo” li porta a spostarsi da un candidato all’altro con scarti tanto improvvisi quanto effimeri. In quei giorni furono determinanti alcuni passaggi, allora non tutti illuminabili: un anno dopo la rielezione di Mattarella, alcuni momenti inediti, ricostruiti da La Stampa e altri affiorati successivamente, consentono di ricucire la trama di quella vicenda.

Il primo tempo della partita Quirinale risale a diversi mesi prima. Passaggio inedito che dietro le quinte ha pesato assai nella successiva corsa. È il 12 maggio 2021, Draghi nomina alla guida dei Servizi l’ambasciatrice Elisabetta Belloni, che prende il posto del generale Gennaro Vecchione, vicino all’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ed è proprio lui, davvero a sorpresa, a farsi vivo, per la prima volta dopo tre mesi di silenzio. Con iniziativa irrituale, Conte chiama Draghi e gli dice: «Mi sembra un atto di ostilità». Conte legge l’avvicendamento come un fatto personale, di certo in quel passaggio si cementa l’ostilità verso Draghi, che influirà assai nella trattativa per il Quirinale.

Metà gennaio 2022: Mario Draghi è alla guida del governo, ma in cuor suo punta alla presidenza della Repubblica. Settanta giorni prima se lo era lasciato sfuggire sua moglie, l’invisibile signora Serenella. Il titolare del caffè sotto casa Draghi, Antonio Proietti, aveva raccontato a Un giorno da pecora: «La signora ha detto: sicuramente farà il Presidente». Una battuta spensierata, che in quel momento sfugge al circo politico-mediatico, anche se in tanti ne conoscono la verità psicologica. Il 24 gennaio, primo giorno di votazioni, Matteo Salvini fa un discorso chiaro a Draghi: «Presidente, io ti appoggio per il Quirinale. Ma ci devi aiutare a fare un nuovo governo, nel quale io intendo entrare».

Ecco la bussola di Salvini: evitare elezioni anticipate destinate a premiare Meloni ed entrare nel governo. Ma la risposta di Draghi è altrettanto chiara: «Preparare da qui il prossimo governo non sarebbe corretto costituzionalmente: non posso farlo». In quel momento di fatto finisce la corsa di Mario Draghi al Quirinale. E tuttavia con quel no a Salvini il Presidente del Consiglio mette in cassaforte un bene immateriale: se Draghi si fosse impegnato per sé in un’operazione dietro le quinte, avrebbe potuto farcela, ma anche perdere (assieme al Quirinale) anche la propria credibilità.

A quel punto ha inizio il tragitto erratico dei leader. Il primo giorno danno tutti la stessa indicazione: «Si vota bianco». Quasi nessuno fa caso ai 16 voti per Mattarella. Tutti tranne Emanuele Fiano che, per il Pd, cronometra il tempo trascorso dai suoi dentro il catafalco. A fine scrutinio i ritardatari sono redarguiti: bisogna attenersi di volta in volta alle decisioni di Letta. Senza informare il Quirinale, alcuni parlamentari Pd (Stefano Ceccanti, Matteo Orfini, Walter Verini) e l’unico che si dichiara, Bruno Tabacci, avevano fatto partire l’operazione-talpa. Per una settimana non se ne accorgerà nessuno.

Seguono 8 giorni di tatticismi esasperati. Salvini si immagina player e nel giro di poche ore riesce a bussare alla “porta” delle personalità più diverse (da Sabino Cassese a Franco Frattini); venerdì 28 Elisabetta Casellati viene affondata dai franchi tiratori di Forza Italia; Conte è tentatissimo di entrare in partita, ma il venerdì mattina Enrico Letta, a conferma di essere leader che concentra le sue virtù più dentro il Palazzo che fuori, riesce a tener bloccato nel suo ufficio il capo dei Cinque stelle, evitando che possa fisicamente saldarsi con il centrodestra.

A sera Conte e Salvini si ritrovano d’accordo nel tentare l’operazione più hard: trasferire Elisabetta Belloni al Quirinale. Il presidente dei Cinque stelle, per metterci il cappello, davanti ai microfoni anticipa una soluzione ancora tutta da costruire. E proprio in quei minuti esce un’agenzia che annuncia: Belloni attesa a Montecitorio. L’ambasciatrice è in Toscana e Luigi Di Maio, che conosce i suoi, insorge. Belloni non decolla. Prende quota il bis di Mattarella.

Giorgia Meloni fa sapere a Draghi: «Siamo pronti a sostenerla». Rilancio “silenzioso” e silenziato, ma a tempo scaduto. Meloni, come tutto il centrodestra, è stata contraria al bis di Mattarella. Poi, il sabato mattina, nel decisivo summit di maggioranza, Letta si spende per Mattarella, mentre Salvini – chiamato a decidere tra Casini e il Capo dello Stato uscente – si arrende: «I miei elettori non capirebbero Casini».

Nella serata del 29 si vota: Sergio Mattarella è confermato con largo suffragio. Ma nell’eccitazione del momento nessuno si accorge di un dato eclatante: al plenum potenziale (886 elettori), ne mancheranno all’appello addirittura 127. Anche Mattarella ha avuto i suoi “101”.

Ma la sua conferma era stata la scelta che garantiva ai leader di maggioranza il maggior consenso, o comunque il minor dissenso, tra i “propri” elettori. Era popolare rieleggere Mattarella, perché il capo dello Stato, a sua volta era diventato popolare. Per aver consolidato il Quirinale come luogo simbolico di valori dispersi: imparzialità, resistenza alle sirene dell’auto-elogio, capacità di assegnare disciplina alle istituzioni. Ecco perché, il 3 febbraio, i grandi elettori applaudirono a lungo il Presidente: pensavano – e in gran parte si illudevano – di applaudire anche sé stessi.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.