Fonte: La Stampa
Cacciari: “Pietas per il Pd alla deriva. Di fondare si tratta, non di rifondare”
È doveroso affrontare con qualche pietas la drammatica situazione del Pd, caso italiano di una complessiva debacle culturale delle sinistre europee. Pietas che si deve non solo ai loro gruppi dirigenti, ma a milioni e milioni di persone orfane di ogni struttura politica organizzata in grado di difendere i loro interessi e di lottare con continuità ed efficacia per il miglioramento delle proprie condizioni di vita. Anche la dimensione puramente sindacale dell’azione delle sinistre è venuta spegnendosi nel corso dell’ultima generazione. Lo mostra con assoluta evidenza questo semplice dato: grosso modo in tutti i Paesi europei all’aumento della produttività (per quanto modesto) è corrisposta una diminuzione dei salari e in genere del reddito del lavoro dipendente.
La tendenza fondamentale degli anni ’50-’70 si è invertita, e la crisi che attraversiamo rende tale inversione drammatica. Aumento della povertà e proletarizzazione di ampi settori di ceto medio modificano la composizione sociale e determinano mutamenti forse irreversibili negli orientamenti politici.
Ciò che è accaduto in Italia con la vittoria della Meloni non ha nulla di contingente o occasionale. Invece di baloccarsi alla ricerca della faccia più idonea per interpretare il ruolo del segretario e di pensare che la sconfitta derivi da qualche errore di percorso, il Pd dovrebbe interrogarsi sulla causa fondamentale che ne spiega la deriva e comprendere se a questa sia possibile porre rimedio. Elencare confusamente miriadi di ragioni serve a poco, ancora meno ricorrere a volontaristici appelli.
La ragione fondamentale è una, storica, materiale, ben piantata nella forma contemporanea dei rapporti sociali e di produzione. La rivoluzione tecnologica dell’ultimo trentennio, la più intensa e accelerata che l’umanità abbia conosciuto, ha comportato un radicale mutamento negli equilibri di potere. Automazione, robotica, intelligenza artificiale rendono pateticamente obsoleto ogni discorso sulla “centralità del lavoro”. Il 50% dell’occupazione attuale potrebbe già venire sostituita dai nuovi sistemi. Le nostre società hanno cessato di essere “repubbliche fondate sul lavoro”? No, ma il lavoro che le fonda è quello tecnico-scientifico, innovativo, il lavoro dell’intelletto generale, organizzato a rete sull’intero pianeta, al di là di ogni confine statuale, di cui Marx aveva profeticamente parlato.
Un tale sistema può svilupparsi per sua natura soltanto in un senso: moltiplicando le disuguaglianze tra gli attori, i proprietari del processo innovativo, coloro che sono in grado di promuoverlo e gestirlo, da una parte, e le masse che sono costrette a subirne le conseguenze, come si trattasse di eventi naturali, dall’altra. Si è iniziato, con la rivoluzione tecnologica e il decentramento delle piattaforme manifatturiere, a eliminare il peso politico della classe operaia tradizionale, e si continua con la precarizzazione di tutte o quasi le funzioni amministrative e di controllo nei servizi e nel terziario.
Questo è l’orizzonte sul quale le sinistre avrebbero dovuto parametrare tutta la loro azione. Come si è invece caratterizzata? Un mix horrendum tra subalternità ai processi di globalizzazione, dettati da capitale finanziario e le multinazionali dei settori strategici, e difesa conservatrice dei vecchi assetti politici e istituzionali. L’incapacità di cercare nuove forme di democrazia, all’altezza della rivoluzione in atto nei processi produttivi e negli equilibri di potenza, ha fatto tutt’uno con l’accettazione e a volte addirittura l’apologia, mascherate da disincanto, delle nuove forme di dominio. Nella storia vi sono sempre state forze di mediazione e di contenimento tese a rendere meno traumatici i momenti di svolta epocale. Le loro intenzioni possono anche apparire misericordiose, ma il loro destino è quello di tutti i conservatori. L’orizzonte al cui interno operano è già stato oltrepassato.
Le sinistre erano chiamate a disegnare un orizzonte né ideologicamente al di qua o contro quello dei processi di globalizzazione e di rivoluzione del sistema tecnico-economico, né coincidente con essi, ma al di là di questo. Il cervello sociale è il fondamento della potenza economica e della produzione di ricchezza. L’azione politica deve partire dal suo riconoscimento e svolgerne tutte le conseguenze nel fissare le priorità della propria agenda. Scienza e tecnica debbono liberare dal lavoro, non creare disoccupazione.
Occorre un’azione di grande politica perché la ricchezza che esse producono liberi dalla costrizione del lavoro dipendente e permetta a ciascuno di realizzarsi secondo la propria natura. Esistono oggi le condizioni per pensare e agire verso un tale orizzonte. Un’alleanza strategica tra i soggetti che creano l’innovazione e le masse che oggi la vivono come una minaccia, mentre invece essa costituisce la condizione imprescindibile del nostro riscatto dal lavoro come fatica, come pena, come prezzo necessario non solo per ottenere un reddito, ma anche stima sociale e auto-stima – la costruzione di questa alleanza doveva essere il perno e il fine delle politiche di una nuova sinistra.
Da tale obbiettivo tutto il resto discende: dalle politiche fiscali che vanno costruite, almeno sul piano continentale, nei confronti dei grandi gruppi multinazionali, alla fissazione delle priorità interne di bilancio, fino a quelle riforme istituzionali necessarie per garantire trasparenza e rapidità nelle decisioni e selezione di una classe politica capace di confrontarsi con la “rivoluzione permanente” dell’epoca che viviamo. Forse ancora esistono i margini per riprendere il filo di queste idee. Lo stesso acuirsi di intollerabili disuguaglianze invoca la nascita di forze politiche in grado di contrastarle davvero – contrasto del tutto inefficace se condotto da posizioni conservatrici. Parlare dell’attuale PD e del suo cosidetto congresso in questo contesto è del tutto irrilevante: parce sepultis. È una storia finita o forse mai iniziata. Di fondare si tratta, non di rifondare.