Massimo Cacciari: “E’ urgente superare questo stato di guerra, mai come oggi il popolo che ami il suolo della patria è in pericolo di morte”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Massimo Cacciari
Fonte: La stampa

Com’era largamente prevedibile tutte le contraddizioni della nostra compagine governativa emergono con i conti di fine d’anno. Dalle promesse ai sacrifici. Scricchiola pure l’antico collante del potere: troppo vistose le differenze in materia di pseudo-presidenzialismo e di pseudo-federalismo. Ma ciò che segna forse il punto di massima miseria cultural-politica della maggioranza che, per così dire, ci guida, è stato toccato, io penso, con la discussione sullo ius scholae. In un mondo in cui una donna di colore diventerà presidente di quella che ancora è la massima potenza mondiale, da noi si discute dopo quanti anni di scuola un ragazzo sia degno di cantare l’inno di Mameli. Qualcuno ha mai dato un’occhiata all’andamento demografico del pianeta nel corso dell’ultimo secolo?

Quanto durerà ancora in questo Bel Paese l’ignoranza nei confronti dei formidabili processi di meticciamento che interessano in forme più o meno prepotenti tutto il mondo? È bene, è male che ciò avvenga? Anzitutto, occorre sapere che il fenomeno è inarrestabile. Il problema consiste nel governarlo, non nel rimuoverlo. Politiche di aiuto reale, di integrazione. Credete che con le guerre i processi di sradicamento di interi popoli possano interrompersi? Si moltiplicheranno, invece, nelle forme più anarchiche, come è accaduto dopo l’invasione dell’Iraq, la guerra in Afghanistan, e via piangendo. Una delle ragioni fondamentali per cui è urgente superare questo stato di guerra è proprio questa: solo in condizioni di pace, o almeno in presenza di accordi relativamente stabili tra i grandi spazi culturali-politici sarà possibile tentare di conferire un ordine agli esodi che interessano interi popoli, e che sono – sarebbe onesto riconoscerlo – il prodotto della nostra civiltà, della mobilitazione universale di uomini e mezzi che essa esige, della generalità senza luogo né patria della sua Tecnica e delle sue «leggi» economiche. Mai come oggi il popolo che ami il suolo della patria più della vita è in pericolo di morte: citazione del più grande filosofo ebreo del’900. E amare la vita oggi significa saper affrontare non solo l’incontro, ma il vero e proprio incrocio tra nazioni, culture, etnie. Nella storia è avvenuto e continuerà ad avvenire. È destino che lo possa soltanto attraverso catastrofi e tragedie?

Questo discorso riguarda anzitutto l’Europa. L’Europa è vecchia e l’Italia è leader in questo processo di senescenza. Il suo sviluppo nel secondo dopoguerra, fino agli anni’90, è avvenuto in condizioni globali irripetibili, all’ombra dell’indiscusso primato, non solo tecnico-economico, americano e sulla base di uno «scambio» perfettamente ineguale con i Paesi produttori di materie prime. Alla leadership europea più lungimirante già durante la guerra fredda appariva chiaro che queste condizioni sarebbero venute meno. L’Europa doveva costruire un proprio, autonomo grande spazio culturale, politico, economico. Non certo in alternativa a quello atlantico, ma, anzi, proprio per sostenerlo all’interno di un Globo che sempre meno avrebbe potuto essere retto dall’alto di un solo Campidoglio. Così si spiega l’Ostpolitik della Socialdemocrazia tedesca, pur in presenza di una Germania divisa! Così si spiegano i tentativi di dar vita a un’autonoma politica medio-orientale e nei paesi del Maghreb da parte sia italiana che francese. Europa dell’est e Mediterraneo sono i poli irrinunciabili di una politica europea degna di questo nome. I suoi clamorosi fallimenti negli ultimi trent’anni hanno ucciso definitivamente questa prospettiva? Occorre realismo e disincanto anche qui: a prescindere dalle evidenti e immense differenze programmatiche e ideologiche, l’avanzata delle attuali destre europee assume un significato storico opposto a quello che aveva caratterizzato l’affermazione delle destre storiche.

Quest’ultime si muovevano ancora nella prospettiva di un’Europa «all’assalto». Un tragico delirio, certo, nelle condizioni geo-politiche successive alla prima Grande Guerra – ma erede, piaccia o no, di una secolare, reale egemonia. La politica delle attuali destre è invece tutta difensiva, idolatria della propria terra, mura al confine. Politica di sopravvivenza. È la grande ondata dell’Occidente tutto che ormai è destinata a rifluire? Se così fosse dobbiamo saperne le conseguenze. La prima è la fine, non semplicemente la crisi della democrazia, in qualsiasi forma la si concepisca.

Non c’è democrazia dietro alle barricate, con soltanto nemici e minacce all’intorno. Non c’è democrazia nel clima ossessivo di leggi di sicurezza e inasprimento di pene. Tutto è oscuro pericolo per organismi deboli, incapaci di rinnovarsi difronte alle trasformazioni del proprio ambiente, anche una manifestazione lo diviene. E allora si annaspa tra ordini contraddittori, inflazione di norme, vuote grida di riforme che non giungono mai. Tutte le politiche europee oggi sono politiche di conservazione, e quelle di destre non ne costituiscono che l’espressione estrema. Vogliamo batterle? E allora occorre ripensare al grande spazio politico europeo, dal Mediterraneo all’Est, pensare a costruire accordi e patti tra gli Imperi in conflitto, reagendo all’affossamento degli organismi internazionali di mediazione, pensare a un nuovo Diritto della Terra. Meditare alla vergogna per noi che la voce del noto democratico presidente della Turchia appaia oggi ben più autorevole della nostra nel trattare per la fine della guerra civile europea tra Ucraina e Russia.

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