D’Alema prima delle elezioni francesi. Lungimirante!

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Daniele Morritti
Fonte: Forexinfo.it
Url fonte: https://www.forexinfo.it/Riformare-l-Europa-intervista-a-D-Alema

di Daniele Morritti – 22 aprile 2017

intervista esclusiva di Forexinfo.it a Massimo D’Alema, prima delle elezioni presidenziali francesi – lungimirante!!!!

1. L’UE non se la passa benissimo. La Brexit ha palesato la reversibilità del processo; i Paesi dell’Est sembrano interessati ad un’integrazione soft, senza ulteriori cessioni di sovranità; evidenti ambiguità persistono anche presso i Fondatori, nonostante i cerimoniali e le recenti dichiarazioni di Versailles (UE a più velocità). Quo vadis Europa?

Dove va l’Europa non lo sappiamo. Si sono aperte delle questioni che sono fondamentali per avere un’idea precisa, innanzitutto l’esito delle elezioni in Francia e Germania che sicuramente avranno un’influenza determinante sulle prospettive dell’Europa. Io posso risponderle dove spero che vada: bisogna prendere atto del fatto che la nascita e la crescita del processo d’integrazione europea è andato di pari passo con una certa visione del mondo, ovvero di un mondo che andava integrandosi in un processo di globalizzazione economica, di integrazione dei mercati, di sviluppo degli scambi. La tendenza generale era quella di un superamento, un ridimensionamento se vogliamo, del ruolo degli Stati nazionali; allo stesso tempo cresceva il peso delle istituzioni sovranazionali. Ora questa visione del mondo è stata contraddetta in modo abbastanza clamoroso: da una parte dall’esplodere di una crisi economica e finanziaria che ha dimostrato che questa globalizzazione in realtà si è sviluppata senza un’effettiva governance, ovvero un sistema di regole che mettesse il mondo al riparo dal rischio di accentuati contrasti, in una parola dall’instabilità; dall’altra dal fatto che sul piano più propriamente politico anziché assistere ad un processo di pacificazione – o, se si vuole, di omologazione (in una certa fase era prevalsa l’idea che in fondo la globalizzazione portasse verso un’espansione del modello occidentale) – abbiamo assistito ad un moltiplicarsi di conflitti e lacerazioni di natura ideologico-religiosa. E quindi un ritorno in campo degli Stati nazionali, soprattutto dei maggiori, e della politica di potenza.

2. Si tende a vedere il ritorno alla politica degli Stati nazionali come un aspetto perverso. In fin dei conti, però, se ben gestito, mantenendo quei pilastri che sono le Nazioni Unite e l’OMC, non vedo un dramma assoluto…

Si, ma questo non è quello che sta avvenendo. Che dire della politica di potenza della Russia e degli Stati Uniti? Prima di tutto hanno messo le Nazioni Unite fuori gioco. Non credo che Trump abbia chiesto l’autorizzazione alle Nazioni Unite per bombardare la Siria, tantomeno i russi hanno chiesto l’autorizzazione alle Nazioni Unite per inviare le forze armate a sostegno di Assad. Mi pare una visione idilliaca. Dal punto di vista economico mi pare che prevalga piuttosto la logica della contrapposizione alle barriere doganali, alle limitazioni, alla libera circolazione delle persone, alle merci. Ciò che sta prevalendo è il protezionismo. Il ritorno al nazionalismo non avviene nella forma che lei ha ipotizzato, ma in una forma più classica.

3. Una forma dettata dalla risposta (politica) ai danni prodotti dalla neo-liberalizzazione dell’economia internazionale…

Non discuto. La neo-liberalizzazione senza regole non ha funzionato, altrimenti non si comprenderebbe il perché di questo ritorno al nazionalismo, non è un fatto di cattiveria. Comunque questo mette l’Europa di fronte a sfide molto serie, perché è evidente che ci sono almeno due grandi potenze, l’America e la Russia, che non sono favorevoli al processo di integrazione europea. Basta vedere con quanto entusiasmo Trump abbia salutato il Regno Unito della Brexit e la tendenza della Russia a negoziare con ciascun singolo Paese europeo perché questo naturalmente comporta un vantaggio. L’Europa deve vedere come rispondere a questo nuovo contesto. Io sono convinto che l’unica risposta possa venire da un rafforzamento dell’integrazione, anzitutto politica e poi naturalmente economica, tra i Paesi che sono interessati e vogliono farlo. Questo naturalmente non significa scardinare l’impianto istituzionale, perché i Trattati prevedono la possibilità di cooperazioni rafforzate. Utilizzare appieno queste possibilità e cercare di costruire collaborazioni. Questo difficilmente potrà coinvolgere i Paesi dell’Est, che non mi sembrano interessati, i quali resteranno comunque membri dell’Unione nei limiti della loro disponibilità. Però o un gruppo di grandi Paesi europei mette in comune la politica estera e di difesa e avvia anche una coordinata politica di crescita, perché non c’è potenza senza valorizzazione delle potenzialità economiche, oppure l’Europa è destinata alla marginalità. Perché se il nazionalismo dell’America fa paura, il nazionalismo dei singoli Paesi europei fa ridere, non è all’altezza, anche se alcuni Paesi suppongono di essere sempre delle grandi potenze quando invece si potrebbe dire che si sono dimenticati il cervello nel secolo scorso, non lo hanno portato con sé nel nuovo secolo. Io vedo questa come unica risposta possibile, ovvero un rafforzamento dell’integrazione politica, un salto di qualità innanzitutto tra i Paesi che sono disponibili a farlo insieme ad un mutamento dell’indirizzo della politica economica che vada nel senso della crescita, di un patto per la crescita e la piena occupazione.

4. Martin Schulz nel 2012 sosteneva che l’euro avesse favorito la Germania a scapito di tutti gli altri Paesi dell’Eurozona, Italia su tutti. A distanza di 15 anni dalla sua introduzione, è corretto parlare della moneta unica come di un progetto teoricamente e concretamente sbagliato per l’Europa? Lo stesso ex governatore della Bank of England, Sir Mervyn King, attribuisce all’integrazione monetaria molte delle «imbalances» (squilibri) che al momento sferzano il Vecchio Continente.

Io ritengo che le cose siano andate non bene. Non perché c’è l’euro, ma perché mancano una serie di cose importanti che avrebbero dovuto accompagnarsi all’euro. E cioè: non ha mai retto una moneta che dietro non avesse una sovranità. Il che significa un bilancio dell’Unione molto più consistente di quello che esiste, una politica di riequilibrio molto più attiva e consistente, un pieno rispetto del Patto di Stabilità. Quest’ultimo incalza i Paesi indebitati a mantenere determinati parametri, ma dall’altro lato dovrebbe vincolare i Paesi che sono in surplus a investire molto di più, cosa che i tedeschi non hanno fatto. Quindi è evidente che l’assenza di una politica economica fortemente coordinata, di una politica di investimenti fortemente coordinata, fa della moneta unica un progetto di mera stabilità monetaria ottenuta attraverso politiche di austerità. Questo, diciamo, non era implicito, non era l’esito obbligato dell’euro, ma l’esito di un’assenza di forti istituzioni politiche, soprattutto nel campo della politica economica. L’euro è stato accompagnato semplicemente dalla creazione di una Banca centrale europea che fra l’altro, come noto, ha un mandato molto più limitato della Federal Reserve americana perché non ha tra i suoi compiti quello di promuovere lo sviluppo, ma semplicemente mantenere la stabilità dei prezzi, nonostante Draghi si sia mosso ai limiti del Trattato promuovendo una politica monetaria espansiva. Io ritengo che si impone una riforma del Patto di Stabilità e l’idea di introdurre così com’è il Fiscal Compact nei Trattati sarebbe un’idea suicida.

5. L’antropologia economica tedesca, impregnata di ordoliberismo, è basata sul concetto di stabilità: connettendosi alla Germania in maniera inestricabile attraverso sistemi vincolanti come la politica monetaria molti Paesi hanno finito per replicarne il modus operandi nonché la forma mentis. La stessa UE soffre dei vizi veniali della Germania.

Onestamente mi pare che l’indirizzo che per esempio Schulz vorrebbe dare alla politica tedesca, almeno quello che lui sta annunciando nel corso di questa campagna elettorale, è un indirizzo innovatore. Perché l’obiettivo di migliorare le pensioni e i salari, di aumentare gli investimenti, andrebbe esattamente nel senso di sostenere la crescita con un vantaggio per i cittadini tedeschi e credo per il complesso dell’Europa. Il nostro sistema industriale padano, soprattutto dico la meccanica fine, è oggi fortemente integrato col sistema industriale tedesco. Anche perché con il venire meno della Fiat, grazie all’opera del geniale Ingegner Marchionne che è così amico del Presidente Renzi (due geniali personaggi), in sostanza tutto l’indotto dell’auto che lavorava per la Fiat oggi lavora per l’industria automobilistica tedesca. Io credo che se ci fosse un progetto di investimento e crescita della domanda interna in Germania questo comporterebbe un effetto traino sul sistema industriale italiano, almeno sul Centro-Nord, il Sud ha altri problemi.

6. Il presupposto – fallace e, se vogliamo, estremamente velleitario – di un’Europa politica come sbocco naturale di un’Europa della moneta non si è in definitiva concretizzato. Se fosse al posto di Gentiloni su quali basi porrebbe la riforma – o la revisione – dei Trattati UE per uscire dall’impasse economica che attanaglia il continente (e l’Italia) da ormai troppo tempo?

Io penso che i problemi siano molti. La FEPS, la fondazione politica con sede a Bruxelles che presiedo, ha da poco ultimato uno studio – sotto la direzione di Joe Stiglitz. Sostanzialmente io penso sia necessario cambiare molte cose in profondità. Per esempio considerare gli investimenti – anche quelli sociali, non solo quelli produttivi – al di fuori del Patto di Stabilità. Distinguere nettamente tra il controllo della spesa pubblica e la possibilità per i Paesi europei di investire risorse. Perché il cuore della crisi europea non è il debito, ma il crollo degli investimenti. Il livello di investimenti in Europa è arrivato al 12/13% del PIL, 30 anni fa era al 24%. Si tratta di un segno drammatico di asfissia dell’economia europea. Tutto il modello neo-liberista che è stato costruito è un modello che punta fondamentalmente sulla competitività dell’Europa sulla scena mondiale, ovvero un modello di economie fondate sulle esportazioni. E siccome si tratta di economie fondate sulle esportazioni che operano con una moneta forte, la variabile debole è quindi diventata il lavoro. Contenimento del costo del lavoro, contenimento del costo dei salari, flessibilità del lavoro, riduzione dei diritti del lavoro. Questo è stato l’asse delle c.d. riforme strutturali, espressione che ormai è considerata con angoscia dal cittadino europeo perché ogni volta che sente dire che bisogna fare le riforme pensa: “oddio ora cosa mi tolgono”. Quindi è del tutto evidente che noi siamo in un contesto mondiale in cui è difficile pensare ad una crescita sostenuta, stabile, inclusiva, che sia fondata esclusivamente, o in modo prevalente, sulle esportazioni. Perché noi non siamo più nel mondo in cui dal terzo mondo venivano le materie prime e noi eravamo i trasformatori. Noi siamo in un mondo fortemente competitivo in cui tutti vogliono esportare. Siccome non abbiamo mercati extraterrestri è evidente che l’Europa deve anche sostenere fortemente il suo mercato interno. Il che significa promuovere domanda attraverso un aumento del reddito disponibile delle famiglie. Gli investimenti innovativi possono aumentare la produttività, quindi anche la competitività. L’Italia ha chiaramente un deficit di competitività che deriva dalla bassa produttività del lavoro. Ma la bassa produttività del lavoro non dipende dal fatto che non c’è flessibilità, la quale è assoluta ormai nel nostro Paese, ma dipende dal fatto che c’è uno scarsissimo investimento sulla formazione professionale, sulle innovazioni di processo, di prodotto. Oggi la produttività del lavoro è fortemente legata al contenuto intellettuale del lavoro. Su questo gli investimenti sono scarsissimi, anche perché in una struttura produttiva fondata sulla piccola/media impresa la propensione a fare investimenti a redditività differita è una propensione molto limitata. O ci sono forti investimenti pubblici. Ma ci sono anche altri aspetti che andrebbero rivisti, ad esempio la normativa sui c.d. “aiuti di stati”: questa normativa ha avuto un senso soprattutto ai fini di regolare la competizione all’interno del mercato comune europeo per evitare che attraverso le sovvenzioni pubbliche si alterassero le condizioni per una competizione ferrea. Ma noi competiamo a livello mondiale, dove questi vincoli non esistono. Quindi è come partecipare a un campionato mondiale di boxe con le mani legate. La ripresa americana si è fortemente sostenuta da quelli che noi chiameremmo aiuti di stato. Perché Marchionne se ne andato negli USA? Perché lui ha salvato la Chrysler ma ha ricevuto miliardi di dollari dallo Stato americano. In Europa ci sarebbe stata la procedura di infrazione. Noi siamo veramente prigionieri da questo punto di vista di un dogma neoliberista che riduce fortemente la competitività dell’Europa. Noi siamo prigionieri di normative che hanno avuto anche un senso, ma che sono totalmente inadatte ad affrontare la realtà del mondo globale. In questi sistemi è impensabile che gli Stati non giochino un ruolo fondamentale. L’unica via di salvezza del progetto europeo è una radicale riforma dell’impianto culturale che si è venuto affermando negli ultimi trent’anni, in cui quella visione solidaristica che era stata l’origine del progetto europeo è stata via via soppiantata da una tecnocrazia neoliberista che ha preso il sopravvento dal punto di vista culturale e poi questo si è tradotto in tutta una normativa che si ispira a questa visione.

7. Come noto, declinare in parole semplici l’accezione di «populismo» è impresa assai ardua. Tuttavia un aspetto, almeno nell’UE, appare incontrovertibile: la sinistra europea, di cui è stato ed è membro di spicco, da anni fa il gioco della destra ultraliberista, appoggiando e caldeggiando lo sfacelo sociale ed economico connesso all’implementazione delle riforme strutturali (si veda la Grecia). Ciò ha consentito al lepenismo di affermarsi in tutta Europa secondo una forma mentis antitetica rispetto al neoliberismo sussunto nell’UE (un compito che naturalmente spetterebbe alla sinistra). Marine Le Pen, come ultimamente si dice, «ha superato la sinistra a sinistra». Ritiene attendibile questa ricostruzione dei fatti?

Non saprei, anzi sarei cauto. Uno non può considerare solo gli aspetti sociali. Bisogna guardare anche a forme di sorgente razzismo. Sebbene Le Pen parli di protezione del lavoro, non mi pare proponga di colpire i grandi patrimoni. Io distinguo, perché ciò che noi chiamiamo populismo, al suo interno ha cose molto diverse. Per esempio uno dei dati più interessanti di questa campagna francese è l’enorme crescita della candidatura di Mélenchon, che viene definita dai mezzi di informazione come una candidatura dalla evidente impronta populista. Tra il populismo che predica l’espulsione dei magrebini e il populismo di un candidato che propone di tassare i grandi patrimoni e aumentare i salari e le pensioni c’è una certa differenza. La parola populismo è una parola carica di ambiguità. Noi assistiamo alla forte crescita di movimenti anti-establishment, il che mi pare una definizione più appropriata del fenomeno; questi movimenti che sono contro l’establishment dominante, tecnocratico, possono assumere un carattere nazionalista, protezionista, razzista, di destra o possono assumere il carattere di una protesta sociale radicale. L’appello al popolo contro le élites, se si indirizza contro l’establishment politico e democratico, acquista un segno di destra, ma se si indirizza contro l’establishment economico-finanziario acquista un segno diverso. Distinguerei quindi tra quelli che hanno un carattere di rivolta sociale e che pongono dei problemi assolutamente reali e quelli invece che hanno un carattere di tipo nazionalistico, anti-immigrati, che pongono comunque problemi reali ma fornendo risposte regressive. L’impressione mia è che in Francia siano presenti tutte e due queste tendenze, testa a testa. Tutto sommato, la crescita dell’estrema sinistra ha funzionato come elemento di contenimento di un possibile sfondamento sociale del lepenismo.

8. Come vede l’exploit nei sondaggi francesi del redivivo Mélenchon, oggi lanciatissimo verso la conquista del primo turno? Un pronostico da parte sua sull’esito delle elezioni francesi del 23 aprile sarebbe gradito.

Direi innanzitutto che la scelta di Hamon a sinistra è stata una scelta anche quella di rottura con l’establishment socialista e neo-liberale. Hamon ritengo sia una personalità debole, non è riuscito a catalizzare quell’area di consenso necessaria ad una svolta a sinistra che si è preso in buona parte Mélenchon, una personalità politica più forte. Ed è parso inoltre più credibile, visto che sul povero Hamon pesa comunque il fallimento dell’esperienza di Hollande, essendo stato un suo ministro. L’offerta politica di Mélenchon ha una forza, risponde a dei problemi reali, raccoglie una protesta sociale assolutamente fondata. Trovo molto interessante in questo contesto quello che è accaduto in Portogallo, dove i socialisti portoghesi si sono ribellati al mainstream dell’alleanza con i conservatori (il modello tedesco) e hanno preferito fare un governo di sinistra portando al governo un partito estremo come il Partito Comunista portoghese che per sostenere il governo ha dovuto rinunciare a posizioni pregiudiziali non di poco conto come l’uscita del Portogallo dalla NATO e dell’UE. Però quel governo sta facendo una politica coraggiosa, l’opposto di Renzi: hanno tassato i grandi capitali, operato per redistribuire la ricchezza, hanno migliorato i salari, hanno fatto un grosso investimento sulle pensioni. Il risultato? La crescita del mercato interno accompagnata da una crescita economica piuttosto sostenuta.

9. E Macron? Cosa pensa di colui che i sondaggi al momento danno come vincitore finale?

Ha il vantaggio di apparire come la novità, in antitesi al sistema tradizionale dei partiti francesi. Ha avuto anche il vantaggio delle disavventure di Fillon, di una scelta del tutto sbagliata fatta dai Repubblicani. Se i gollisti avessero scelto Juppé avrebbero vinto le elezioni senza molti problemi invece si sono suicidati con la scelta di Fillon. E’ tutto da vedere questo Macron, innanzitutto è da vedere, qualora vincesse le elezioni, che tipo di maggioranza sarà in grado di creare in Parlamento. Una posizione centrista in Francia è una novità assoluta. Dovrà per forza scegliere se fare una maggioranza a sinistra o una maggioranza a destra. Lui gioca molto su questa ambiguità, che finora l’ha avvantaggiato. Resta da vedere cosa succede dopo. Macron è un personaggio ancora da scoprire. Tuttavia, in un contesto così confuso, il vantaggio è dato dalla sua posizione europeista.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.