Noi, pisani negli anni novanta…

per Davide Morelli
Autore originale del testo: Davide morelli

Non scandalizzatevi dei salti di tempo e di luogo: la memoria può portare ovunque. Non perdete la pazienza  se passo dal presente al passato remoto o se salto di palo in frasca: è licenza (im)poetica. Questo è solo un brevissimo resoconto di certe impressioni, certi ricordi, certe serate. A Pisa c’erano i normalisti, i parà, gli studenti fuori sede ma c’eravamo anche noi: una comitiva di pisani scalmanati e fuori di testa. Eravamo studenti, operai, commercianti, disoccupati. Erano gli anni novanta. Non c’era ancora la crisi economica attuale. Nel novantadue c’era stata la crisi causata da tangentopoli ma l’Italia si era ripresa. Il futuro era roseo o quantomeno non ci aspettavamo un periodo nero come quello odierno. Allora avevamo pochi sogni ed aspirazioni. Forse è quello che ci ha fregato. Forse ci ha fregato non darci delle regole. Eravamo come si suol dire sregolati in tutti i sensi. Ci bastava tirare a campare. A onor del vero eravamo tutti immersi nelle beghe del presente e nessuno di noi si proiettava nel futuro. In fondo aveva ragione Enrico Brizzi in “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”: perché sacrificarci ventenni o poco più per la felicità di noi stessi quarantacinquenni? Non era forse meglio cercare di essere felici da giovani che da maturi o da anziani? Certo è che abbiamo davvero rischiato di non arrivare ai quaranta. E poi perché prendere sul serio la vita e il nostro Paese?  Quante Italie ci sono? Innumerevoli. Sono tante le sfaccettature economiche, sociali, culturali, politiche, antropologiche della nostra penisola. Noi eravamo semplicemente dei provinciali toscani. Ma non voglio fare un discorso troppo serio. Sarebbero tanti gli aneddoti da raccontare, ma alcuni protagonisti sarebbero riconoscibili e questo sarebbe un tradimento e una cosa di pessimo gusto da parte mia. Quindi mi asterrò dal raccontare tutto e non citerò nomi. Ogni tanto mi ritornano alla mente certe perle di saggezza. Una volta un mio amico mi disse: “io in questo mondo che va alla malora riesco tranquillamente a perdonare l’indifferenza della gente. In fondo hanno ragione”. Non aveva forse espresso in estrema sintesi quella che i sociologi definiscono deumanizzazione? Ritorniamo a quegli anni. Noi cercavamo solo di divertirci. Io mi divertivo a fasi alterne. Ma andava bene così. Eravamo maestri nel goderci la vita, talvolta giungendo a degli eccessi. La nostra era una autodistruzione lenta ed inesorabile. Solo più il là con gli anni avrei imparato a volermi bene. Allora non mi sapevo fermare. Non mi risulta che nessuno abbia fatto carriera. D’altronde come avrebbe potuto? Tiravamo fino al mattino in quei weekend. Aspettavamo l’alba. Pisa era morta o quantomeno sonnolenta. Alcuni di noi a volte erano in stato comatoso: troppi superalcolici ingurgitati e a fatica smaltiti, metabolizzati. Andavamo sempre a berci una birra seduti sulle spallette dei lungarni oppure andavamo a bere in un locale storico “La tazza d’oro”. Poi ci recavamo in una discoteca che faceva musica house e mi sembra si chiamasse Carmilla nel centro di Pisa. Oppure altre volte andavamo al Pappafico a Marina di Pisa, dove c’erano le cubiste con minigonne inguinali e di estate si poteva anche ballare sulla spiaggia. Una ristretta cerchia aveva successo con le ragazze, spesso studentesse, quasi sempre scostanti, volubili, vanitose, rozze. Io ci provavo con molte. Quasi sempre mi prendevo dei no. I miei approcci erano goffi. In discoteca contava molto l’aspetto fisico ed io ero sprovvisto del physique du rôle. A me la discoteca non piaceva ma ci andavo perché era un luogo di aggregazione e le ragazze andavano tutte là. Ero un cascamorto ma non ero un casanova. Le ragazze preferivano i buttafuori, i deejay, i bellocci, i tipi  con le belle macchine, i palestrati, i futuri ingegneri, i futuri medici. Le ragazze preferivano i precisini, i perfettini: coloro che avevano un futuro o almeno così pensavo. Io non rientravo in nessuna di queste categorie, ma l’importante era non prendersi troppo sul serio. In fondo ci trovavamo male perché non rispettavamo il classico modello delle tre m(macchina, mestiere, moglie). Una aura magica avvolgeva le cose, le persone, gli eventi. Ora non più. Ora i giorni sono sempre gli stessi. Non ci sono mai grandi novità. Comunque sia andata va bene così: siamo sopravvissuti a certe notti. Talvolta si rimaneva a bere l’ultima birra al bar Gambrinus. L’hanno detto persone molto più importanti di me che tutto è relativo ad un sistema di riferimento, ma allora noi non immaginavamo neanche lontanamente quale fosse il nostro sistema di riferimento. A volte rimanevo da solo ad aspettare il treno per tornare a casa. Sottostazione mi imbattevo nell’umanità più disparata: una umanità ancora più disperata di noi, che tuttavia eravamo giovani. Non bisogna mai disprezzare chi ha poche carte da giocare e neanche chi le gioca male. La vita poi spesso è un bluff. Sottostazione c’era anche chi spacciava, chi rubava, eccetera eccetera. In fondo voglio fare una breve considerazione. I bigotti e le bigotte pensano solo alla loro salvezza, alla loro sorte ultraterrena. Chi è vero credente invece dovrebbe pensare non solo a se stesso ma anche ai grandi peccatori, a coloro che rubano o uccidono. Se ciò non avviene si tratta solo di egoismo e basta. Le preghiere dovrebbero essere disinteressate. In fondo la Madonna nelle sue apparizioni non dice sempre ai veggenti di pregare per l’umanità e il mondo intero? Finita la riflessione sull’umanità disperata che girovagava sottostazione e dintorni. Dopo una di quelle notti, appena ritornato a casa, scrissi questi versicoli che sono esaustivi a riguardo: “vieni alba come se fossi la prima alba del mondo/ e l’ultima di ogni uomo”. Giungere all’ alba talvolta significava non dico rinascere ma arrivare ad un punto di approdo, voleva dire che ero sopravvissuto ad un’altra notte stravissuta. Ora comunque ho perso di vista gli amici di un tempo. Non so che fine abbiano fatto. Ma forse non sapremmo neanche più riconoscerci perché siamo troppo cambiati e quella era una altra stagione della vita.

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