Pane, sempre pane…

per Gabriella

di Grazia Nardi 17 luglio 2014

..Il pane arrivava in tavola puntualmente monco. Il “culo” (chiamavamo così la parte tondeggiante posta alle estremità delle varie pezzature) veniva mangiato durante il tragitto dalla bottega alla casa. E già a descriverne la sorte si ha un’idea del “peso” che il pane aveva sulla nostra tavola…..appena fresco accompagnava l’esigua porzione del (non a caso così chiamato) companatico: una fetta di mortadella o di frittata, un uovo strapazzato o sodo (gli ovi duri), due cubetti di carne (lo spezzatino) immersi in una generosa porzione di patate “in umido”, fegato o polmone con cipolla, frittura di pesce (zanchett e guvat), poveracce, sardoni, saraghina, spade, bichun……l’ultimo tocco di pane fresco, destinato al pranzo o alla cena, veniva passato e ripassato sul piatto, strisciando in senso rotatorio dal centro verso l’orlo, per raccogliere ogni residuo….divenuto raffermo( i trocul) finiva, stratificato, nella ciotola del latte della prima colazione dei bambini, schiacciato con il cucchiaio per rendere più densa la zuppa….. o nel bicchiere di vino del babbo o nella pasta fagioli o nel piatto del brodo (la stuveda)……. grattugiato impanava qualsiasi cosa, le occasionali fettine di carne, le polpette, le verdure. Cotto nell’acqua (e’ pancot), condito con un filo d’olio ed un po’ di forma, integrava la cena e, soprattutto svezzava i bambini, precedendo le “pappine” assai più costose e gli (allora) sconosciuti omogeneizzati. Ma il piacere, quasi orgasmico, si raggiungeva bagnando un pezzo di pane nel sugo che aveva bollito per circa tre ore sul fuoco. Era un’operazione seguita, di solito, dal “tozzone” della mamma infuriata perché il pane immerso nel tegamino, rompeva “la tela” ovvero il velo sottile che si formava sopra il sugo, segno dell’avvenuta cottura e garanzia della integra conservazione. La consistenza del sugo era favorita dall’abbondante condimento. L’odore del soffritto, che costituiva la base del sugo, scandiva, nelle nostre case, l’inizio della giornata. Olio, cipolla, lardo tritato sulla battilarda, col coltello a lama larga (la curtela) messa a scaldare sul fornello del gas.

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I “grandi”, anche quelli più laici (che si contrapponevano ai “magnaosti”) per assicurarsi il più completo utilizzo (la riuscida) ci intimorivano con la minaccia che, a sprecare il pane, “soffriva” Gesù”, anzi “Gesù se ne aveva per male” Anche le briciole (al mulighi), venivano religiosamente raccolte e mangiate. Tanto e tale era il rispetto per il pane che, a tavola, non doveva mai essere posizionato capovolto.

I bambini poveri, per i quali, ovviamente, non valeva il Metodo Montessori, non avevano mai voce in capitolo. Anche a tavola la prima porzione (la razion) era per il babbo, la mamma invece sacrificava la sua parte (a no fema) e aspettava i nostri scarti. Capitava che a cena ci fossero le poveracce, raccolte sulla battigia dal babbo, condite con un filo di olio, un pizzico di aglio e prezzemolo, fatte aprire nella loro acqua. Ho visto la mamma “ripassare” i gusci vuoti per succhiare e’ sgatol con il pane nel pugno.

Non c’era orto, né giardino, né terrazzo….i poveri di città dovevano comperare tutto! La spesa era giornaliera, le quantità essenziali, la pasta, sfusa, sempre dello stesso formato per assicurarne il massimo utilizzo, l’olio nella bottiglina dell’aranciata San Pellegrino, chiusa col tappo di sughero. Sfusi erano anche il pepe, la conserva, la farina, lo zucchero. Il vino si comprava nella Cantina.. dai Reduci, dalla Gigia, un bottiglione da due litri, al giorno. L’acqua si rendeva più gradevole e frizzante con le “bustine” (Idrolitina) e d’estate, insieme alla frutta, veniva tenuta in fresco in una bacinella con un pezzo di ghiaccio venduto, a stecche, in Via Clodia, più nota per ben altro commercio. Quando scarseggiavano i soldi, l’effetto frescura si otteneva lasciando scorrere a filo l’acqua del rubinetto.

Il rubinetto, in ottone, era (è il caso di dire) l’unica fonte erogatrice. Da lì si traeva l’acqua per cucinare, lavarsi, pulire la casa. Era perennemente “spallato” (è rubinet è perd) e i moccoli serali del babbo si ispiravano e crescevano durante la fase di riparazione con canapa (la canva) e guarnizioni rimediate dai copertoni e dalle vecchie camere d’aria delle biciclette.

Già la bicicletta… non era solo un mezzo di trasporto, era un veicolo di divertimento, uno strumento di abbordaggio, un marchingegno da assembleare, un bene da custodire, l’emblema dello stile di vita di quegli anni….Alla prossima…

bicicletta

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1 commento

fausto 21 Maggio 2017 - 20:58

PROFUMO DI PANE

di Fausto Corsetti

I nostri genitori, se ne cadeva a terra un pezzetto, lo raccoglievano e impedivano che qualcuno potesse calpestarlo, anche solo per distrazione.
Caldo, profumato, croccante e infarinante. Sì, proprio lui… il pane.
Tutto ciò che ha relazione con la vita desta risonanze profonde in ciascuno di noi. Il sole, l’aria, il vento, la pioggia, i cicli della natura e i loro fenomeni sono parte di noi. Anche il pane, simbolo dei nostri bisogni primordiali, richiama questo nostro legame con la terra e la vita. Viene dal grano, la cui crescita e maturazione rispecchiano il trascorrere delle stagioni, che scandiscono il palpito della terra, il suo respiro vitale.
Un tempo, si segnava con la croce la pagnotta fermentata prima di metterla in forno e si segnava prima di consumarla. E non era una “devozione privata”, ma il sigillo di una civiltà attenta e rispettosa dei doni della terra.
Altri tempi, forse, ma non così lontani nella memoria…
Ne sento ancora la suggestione ed ho un tuffo nel cuore di fronte allo spreco sconsiderato che oggi si fa del pane, e non del pane soltanto. Siamo costantemente immersi nell’”usa e getta”, una ricetta spietata che si applica non soltanto alle cose – cibi, abiti, giocattoli quasi nuovi, cianfrusaglie che il giorno prima avevano incantato lo spensierato acquirente – ma anche ai rapporti umani più intimi e coinvolgenti. Consumiamo e basta; senza neppure attardarci a cogliere il gusto, il profumo della vita e delle cose che ci circondano.
In questo senso lo spreco del pane è una metafora della civiltà d’oggi. La mentalità del nostro tempo pone al vertice delle ambizioni il possesso delle cose, di troppe cose, trascinandoci pian piano in una spirale di ingordigia insaziabile che toglie la serenità del cuore. Da questa insaziabilità allo spreco il passo è breve. Lo spreco, infatti, non impressiona più; le città rischiano di soffocare sotto montagne di rifiuti, detriti di una cultura che offende l’intelligenza e insulta chi quotidianamente vive di stenti.
Al mattino presto, camminando in città, mi capita di osservare persone impegnate nella ricerca nei cassonetti delle immondizie: sono l’emblema della sconsideratezza della nostra società, opulenta e sprecona, che sembra avviarsi così disinvoltamente al declino.
Significativamente, tra quei rifiuti finiscono ogni tanto, senza che ne proviamo sufficiente orrore e vergogna, anche neonati “gettati via”. La vita come il pane, tra le immondizie.
Nel silenzio… in disparte dovremmo interrogarci pesantemente e riflettere.
Il lievito ha bisogno di tempo, di un tempo lungo, adeguato, per fermentare e far crescere la pasta che diventerà pane buono. Solo dopo, di primo mattino, mentre la città ancora dorme, il fornaio si alza, come sentinella, e mette sul fuoco quell’impasto pallido che porterà profumo, calore, colore alla nostra tavola.
Non c’è rumore intorno. Occorrono tempo, spazio, silenzio perché si compiano le trasformazioni importanti che mutano l’esistenza. Allora, soltanto allora, saremo in grado di vedere le cose con lucidità, di compiere ciò che la vita chiede, di assaporare un pane buono, ben cotto, fatto per essere spezzato e soprattutto condiviso.

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