Fonte: Minima Cardiniana
PARTIGIANI DELLA PACE
“Quando avevo vent’anni, nel mio Paese, dominava il fascismo. […] Ero appena laureato, pieno del desiderio di dedicare tutta la mia attività alle opere della scienza e della pace. Il fascismo già parlava di guerra, già preparava gli italiani alla guerra. Per la difesa della cultura, della scienza, della pace, per la conquista della libertà, ho allora cercato, sono riuscito a trovare gli operai delle fabbriche di Napoli. Con loro ho lottato sin da allora per la pace. […] Oggi, di nuovo, le forze dell’imperialismo più aggressivo minacciano la libertà e la pace degli uomini. Andrò, con i delegati di decine di milioni di italiani, a Parigi, perché abbiamo imparato, attraverso una dura esperienza, che i popoli non possono vincere da soli la battaglia della pace, possono soltanto se ai patti di guerra degli imperialisti essi contrappongono il loro patto di pace” (Emilio Sereni, “Perché ho aderito al Congresso Mondiale dei Partigiani della Pace”, manoscritto, 6 marzo 1949, in Archivio Partito Comunista (APC), Roma, Fondo Emilio Sereni (Fes), Scritti e discorsi (1945-1956)).
Il Movimento dei Partigiani della Pace, del quale Emilio Sereni è stato uno dei fondatori, convocava – nell’aprile del 1949, a poche settimane di distanza dalla firma del trattato istitutivo della NATO – il Congresso mondiale dei Partigiani della Pace cui presero parte più di 1.000 delegati provenienti da 75 paesi in rappresentanza di numerose organizzazioni internazionali e cui aderirono circa 3000 scienziati, artisti e intellettuali di tutto il mondo. Contemporaneamente delegazioni dell’Europa dell’Est e dell’Asia, alle quali era stato rifiutato il visto perla Francia, si riunivano a Praga[1]. Il simbolo della pace più conosciuto al mondo è la colomba disegnata da Pablo Picasso per questa prima iniziativa internazionale.
Come indica chiaramente il suo nome, il movimento nasceva portando in sé l’impronta della Resistenza al nazi-fascismo e si poneva nel solco dell’internazionalismo e dell’antimperialismo: era, conseguentemente, contrario alla sfida tra potenze in competizione.
“Accanto alla condanna politica della divisione del mondo in blocchi contrapposti e del pericolo di uno sbocco militare, il movimento svolse una battaglia più propriamente culturale ed etica contro la nuova, terribile e risolutiva prospettiva della guerra atomica”[2].
“… il movimento nacque e si sviluppò autonomamente, e rappresentò la prima e più consistente manifestazione di reazione sociale e politica ai pericoli e alle tensioni suscitate dalla divisione in blocchi e dall’inizio della ‘guerra fredda’. […] Il comitato nazionale invece si formerà in occasione del Congresso mondiale di Parigi, nell’aprile del 1949, soprattutto grazie a una petizione popolare contro la ratifica del Patto atlantico, lanciata dalle forze di sinistra”[3].
L’appello per la messa al bando delle armi atomiche del marzo 1950 raccoglierà oltre 519 milioni di firme nel mondo, 16.680.669 nella sola Italia[4]. Un grande patrimonio di consenso – concretamente espresso in manifestazioni di massa nelle quali il rifiuto della logica bellica si univa alla difesa dei valori costituzionali – dissipato grazie all’accettazione da parte del Partito Comunista, egemone e fortemente condizionato dalla direzione stalinista dell’URSS, della contrapposizione tra i blocchi delle due maggiori potenze.
Per quanto essenziale fosse l’opposizione allo sviluppo dell’arma nucleare, la scelta di schierarsi con uno dei blocchi antagonisti[5] l’uno all’altro ha portato il Movimento dei Partigiani della Pace ad accettare passivamente l’intervento sovietico in Ungheria ed a privilegiare una visione pregiudizialmente ideologica rispetto alla critica delle armi e all’opposizione alla guerra, a rinunciare a contrapporre ai “patti di guerra degli imperialisti i loro patti di pace”.
Con la crescita dell’arsenale atomico dell’Unione Sovietica e l’avvio della Guerra fredda[6], si diffonde l’idea che l’“equilibrio del terrore” tra le due potenze mondiali – equilibrio che si reggeva sulla certezza che entrambe i contendenti si sarebbero annientati in un conflitto nucleare indipendentemente da quale dei due lo avesse scatenato, allontanasse la possibilità di un ritorno della guerra su larga scala.
Mentre la competizione tra i blocchi per l’egemonia economica e politica su vaste aree del pianeta si spostava in Africa e in Asia interferendo e infiammando guerre locali, il Movimento perdeva la sua natura di movimento di massa compromettendo la sua natura più autenticamente antimilitarista e lasciando spazio al rinascere di opposti schieramenti a favore dell’uno o dell’altra potenza. Molta parte della sinistra assimilerà la militanza antimperialista con il semplice schierarsi contro il blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti, allora e per molti anni certamente predominante quanto a forza militare e determinazione politica.
L’obiettivo di costruire le premesse della pace attraverso l’azione delle classi subalterne unite nelle istanze internazionaliste per il riscatto sociale e l’autodeterminazione si convertiva nell’imperativa volontà di “vincere”.
Perché, allora, raccogliere il filo lasciato cadere a terra dai Partigiani della Pace?
L’eredità della Guerra Fredda è la guerra calda
La rottura degli equilibri di potenza, la fine, cioè, del bipolarismo, seguito alla implosione dell’Unione Sovietica, ha moltiplicato le frontiere. Lo scenario delle alleanze obbligate che manteneva gruppi di nazioni in condizioni di dipendenza diretta da una delle superpotenze si è frantumato. Ma, invece di liberare i Paesi satellite dalle catene, ne ha fatto territorio di conquista tanto per le potenze regionali emergenti quanto per l’unica superpotenza rimasta, quella statunitense, quanto per la ridimensionata Russia.
Stati Uniti e Unione Sovietica non sono mai arrivati ad un confronto armato diretto, ma si sono combattuti per decenni per procura e tramite interventi nelle “crisi” locali. Dopo la fine della Guerra Fredda, inoltre, la NATO ha condotto aggressioni contro la Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, mentre la Russia è intervenuta militarmente in Siria come, precedentemente, l’URSS in Afghanistan.
Oggi le guerre in Ucraina e Gaza, nate, secondo la versione dell’informazione ufficiale, da conflitti locali, investono potenze regionali e coinvolgono le grandi potenze nel sostegno attivo dei diversi fronti con la costituzione di alleanze di volta in volta strategiche o contingenti.
Come è sempre stato, per conseguire i propri obiettivi i governi o le fazioni dei Paesi che soggiacciono all’”ordine mondiale” devono riallinearsi e schierarsi, cioè fornire il sangue per le guerre delle potenze confliggenti. Queste, come è sempre stato, devono servirsi delle risorse materiali ed umane (la ricchezza del suolo e il sangue) dei Paesi sotto la loro sfera di influenza per mantenere o espandere la loro egemonia.
Ciò che è cambiato è che sono emerse, nel corso degli ultimi 20 anni, potenze regionali in grado di competere con la superpotenza americana sul piano non solamente economico-produttivo ma anche tecnologico e, in prospettiva, militare.
La “de-globalizzazione” e le sconfitte sul campo (in Afghanistan come in Siria) hanno cancellato l’aspirazione americana a globalizzare il suo dominio sul pianeta attraverso l’”esportazione della democrazia”, cioè del realizzare la propria espansione imperialistica attraverso l’imposizione planetaria del suo modello di governo.
Nessuna potenza vuole arrivare ad un confronto militare diretto. Per Washington, però, è altrettanto chiaro che la competizione con Pechino non potrà essere vinta con gli strumenti del predominio economico e tecnologico: si tratta di giocare le sue pedine geostrategiche (dall’Ucraina[7] al Medioriente e nel Sud-Est asiatico) fino al momento in cui sarà in grado di garantirsi una vittoria militare attraverso la cooptazione degli alleati NATO.
D’altra parte, la sfida tra vecchi e nuovi aspiranti padroni del mondo si pone ora sul terreno della costruzione di un nuovo equilibrio tra potenze prive di egemonia globale ma in grado di attrarre nella propria orbita satelliti che facciano blocco[8], costretti a spendere le proprie risorse per ruotare attorno ad uno dei nuovi fulcri rappresentati da Cina, Russia, Iran e a combattere guerre per procura.
Mentre l’ONU offre la copertura legale dell’interventismo, una volta ancora, alle popolazioni di tutti i continenti viene chiesto di schierarsi in uno dei due blocchi per vincere.
Cosa vuol dire vincere
Per tutti i competitori su scala mondiale, per le democrazie liberali occidentali come per lo “statismo”[9] e la “democrazia controllata”[10] in Russia o per le autocrazie asiatiche la lotta è per la sopravvivenza del sistema economico-politico interno che ha garantito il modello di sfruttamento e il domino sulle classi subalterne. Senza disciplinare la società interna, senza ridurre la spesa sociale (favorendo, invece, gli investimenti nell’industria bellica), senza mantenere saldo il controllo del conflitto sociale e ghettizzare il dissenso entro i “limiti della legalità”, senza, insomma, mantenere le redini del comando nelle mani delle stesse forze e autorità che hanno guidato i loro Paesi verso il degrado politico e sociale non sarebbe possibile piegare le popolazioni alla guerra.
Nazionalismo, razzismo, complesso di superiorità culturale in Occidente o tradizionalismo, revanscismo, etnicismo, devozione religiosa e culto dei “padri” nelle società orientali e in Russia, dove si promuove l’eurasiatismo, in particolare sono le armi ideologiche per generare consenso alle avventure militari.
Per quanto sembri appartenere ad un altro mondo, la guerra in Medioriente – riaccesasi dopo l’incursione di Hamas in Israele e la conseguente risposta militare israeliana nella striscia di Gaza – vede due potenze regionali, Iran e Arabia Saudita, sfidarsi per conseguire l’egemonia sul mondo musulmano, sulle sue risorse, sulle vie di comunicazione e sugli affari così come per vincere il cuore e la mente delle popolazioni arabe, pretendendo di assumerne la guida. È un conflitto che si sviluppa dentro e si interseca con la “guerra grande”, come Limes definisce lo scontro militare globale in atto nel contesto della contesa strategica tra Washington, Pechino e Mosca.
Vincere vuol dire preservare un sistema di potere e far prevaler un blocco geopolitico sull’altro. Attribuire valori etici o prerogative politiche ideologicamente più “giuste” ad uno dei due blocchi impegnati in questo conflitto strategico-militare, sostenendone la “necessaria” vittoria, equivale a farne un’ultima guerra di religione.
Polarizzazione
Nell’arretramento generale della volontà di partecipazione alla vita sociale e della capacità collettiva di iniziativa politica, l’affermarsi delle destre in Europa, dal conservatorismo neofascista in Italia al cesarismo populista in alcuni Paesi dell’Est Europa, ha, tra l’altro, favorito nella società la de-politicizzazione del tema della guerra e la polarizzazione dei consensi in base a narrative di tipo morale propagandate insistentemente dai media destrorsi o filogovernativi (atlantisti e interventisti), ma anche adottate – non sempre in senso opposto – da quello che rimane della “sinistra” radicale (anti-americana prima che antimperialista). Una polarizzazione che incoraggia l’impulso a schierarsi di volta in volta con una parte o con l’altra in conflitto senza darsi pensiero di informarsi sulle cause, sugli interessi geopolitici e geoeconomici delle potenze vere responsabili di queste guerre e sulla deriva dittatoriale dei sistemi politici, oltre che sulla distruzione delle condizioni elementari di esistenza della comunità umana.
Accettando la guerra come avvenimento ineluttabile e la corsa al riarmo – come necessità per la “sicurezza nazionale” da parte del fronte atlantista e come necessaria difesa contro l’espansionismo imperialista da parte del fronte anti-americano – si accetta come ineluttabile il dominio delle classi dominanti su quelle subalterne nell’uno e nell’altro blocco.
Nonostante l’apparente diversità, non fa eccezione il frangente della guerra tra Israele e Hamas. Al di là del riconoscere le modalità particolarmente efferate dell’occupazione di stampo coloniale dello Stato sionista sui palestinesi, l’aver perso il riferimento politico alla Palestina e al suo movimento storico di liberazione quale emblema del nazionalismo arabo (laico e indirizzato verso il socialismo) porta molta parte di chi manifesta solidarietà ai palestinesi a legittimare il governo di Gaza – cioè quello di Hamas, che è uno dei più reazionari e oppressivi del globo – perché, nelle attuali circostanze, combatte contro Israele. Porta, di fatto, a rinnegare la posizione della maggior parte della popolazione che, tanto a Gaza quanto in Cisgiordania, nonostante, come è ovvio che sia, appoggi Hamas nella guerra, è tuttora contraria al suo regime[11]. Hamas, una fazione settaria (nel senso politico, e non religioso del termine) è indirizzata – quanto l’attuale Israele[12] – alla creazione di uno Stato a egemonia mono-confessionale; non potrà che essere una pedina funzionale alla trasformazione del mondo arabo in un teatro di contese regionali e locali da cui dovrà emergere quel “nuovo” Medioriente di sfruttamento e miseria di massa e grandi affari per le multinazionali progettato dalle centrali dell’imperialismo[13].
La guerra interna al mondo islamico
Indipendentemente da ogni giudizio che si voglia dare degli ultimi accadimenti in Israele e Palestina, rimane, a mio avviso, imperativo mobilitarci per impedire che Gaza diventi un cimitero a cielo aperto e perché cessi l’occupazione militare, finisca il regime di sopraffazione della popolazione araba da parte di Israele, senza, comunque, niente concedere ad atteggiamenti e condotte anti-ebraiche che, con grande disonestà intellettuale, accomunano gli ebrei in genere allo Stato sionista.
Allo stesso modo, indipendentemente dal giudizio che si voglia dare di Hamas come soggetto politico, non si può non riconoscerne la natura settaria, l’oppressivo e violento esercizio del potere sulla popolazione e la sua arrogante e illegittima pretesa di porsi come unico rappresentante della causa del popolo palestinese pur non essendo che una delle fazioni che si contendono l’egemonia su di esso.
Con queste premesse, di fronte ad una guerra che sta già diventando mediorientale coinvolgendo Iran, Siria, Libano, Yemen e – come sempre – Stati Uniti, è necessario, a mio avviso, inquadrare la dovuta solidarietà alla Palestina sottraendola al conflitto armato tra blocchi regionali che se ne fanno bandiera per imporsi come vincitori e poter prendere posto al banchetto per la spartizione delle risorse e dei commerci insieme all’uno o all’altro schieramento imperialista.
In estrema sintesi: il patrocinio della Repubblica Islamica dell’Iran ad Hamas e Hezbollah ha un costo, quello che obbliga ad agire in conformità agli interessi iraniani nella competizione con l’Arabia Saudita per la leadership sul mondo musulmano[14]. Né la teocrazia sciita né il regno saudita intendono affrontare uno scontro bellico diretto, ma esse stesse si stanno posizionando all’interno di uno dei due blocchi maggiori in via di formazione (USA-Europa-India o Cina-Russia) portando in dote il controllo di vie dell’energia, strade multimodali di comunicazione e scorrimento delle merci[15] insieme ad un capitale umano di popolazioni e lavoratori disciplinati e pronti all’uso. In cambio ne riceveranno protezione militare contro eventuali ribellioni al proprio interno e per il mantenimento dei loro regimi.
Rompiamo i fronti
“Nel caso in cui la guerra scoppiasse, i socialisti (avevano) il dovere d’intervenire per farla cessare prontamente e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e accelerare la caduta della dominazione capitalista”[16] (Rosa Luxemburg)
Il continuo evolversi degli scenari di guerra e la pervasiva campagna mediatica schierata a sostegno dell’uno o dell’altro fronte hanno diffuso a livello di massa un pervasivo sentimento di antagonismo tra le popolazioni, anche tra quelle non direttamente colpite.
L’odio, in tutte le sue sfumature, non si è riversato sui responsabili – vertici politici e militari – dei conflitti, ma sulle comunità che ne sono, consenzientemente o meno, vittime. Sui russi come sugli americani, sui musulmani come sugli ebrei, dipende dagli schieramenti. Dall’una e dall’altra parte, in molti casi, trova consenso la giustificazione della “guerra giusta”. Per gli stalinisti, la guerra non è che un episodio della lotta fra proletariato (Russia, Palestina) e borghesia (America, Israele).
Peggio ancora quella più sottile forma di razzismo che è il cosiddetto “relativismo culturale” che “tollera” la diversità nella prassi di comunità diverse chiuse in se stesse mentre nega di fatto l’universalità dei diritti. Di qui, in parte non irrilevante, l’opportunistico “pacifismo” neutralista.
I tanti fronti della guerra imperialista, pur non avendo certo bisogno di legittimazione popolare per continuare a fare stragi, trovano giustificazione agli occhi dei più in queste “tesi” che, nei fatti, non generano disobbedienza civile. Ciascun blocco imperialista si giova delle campagne di circoli ristretti che, nel mondo occidentale, emotivamente o ideologicamente, prendono campo per uno dei fronti con la propaganda del nazionalismo, del complottismo, dell’ipocrisia neutralista.
Fare opposizione alla guerra imperialista impone di rompere patti sociali che permettono di ignorare il dissenso e reprimere l’opposizione. È necessario enfatizzare e inasprire le contraddizioni che lo stato di belligeranza genera sui territori e nella miseria del quotidiano, diffondere comportamenti di solidarietà attiva con migranti, disertori e renitenti, unire le ragioni dell’antimilitarismo alle lotte dei giovani ambientalisti uscendo dalla forma della pura protesta.
Opporsi alla guerra significa anche rompere ogni forma di nazionalismo, riabilitare sul piano politico quelle battaglie per l’accesso globale ai diritti e alla libera mobilità per tutti.
Rompere i fronti è precondizione per fare breccia nell’indifferenza delle masse narcotizzate dagli algoritmi e far uscire dall’impotenza quel movimento contro la guerra che annega i suoi primi vagiti nell’egocentrismo delle piccole formazioni.
Fermare il confronto armato globale è precondizione per la ripresa di quelle lotte sociali per il riscatto delle classi subalterne che, oltre ad essere le prime vittime dirette della guerra e, in Occidente, le più colpite nelle proprie condizioni di vita, sono state ricacciate in una condizione di impotenza.
Disarmiamoci
Mobilitarsi nell’immediato contro la partecipazione, diretta o indiretta, del nostro Paese alle guerre in corso, è evidentemente necessario, ma sappiamo che non sarà una stagione di proteste a fermare le guerre in corso.
L’erosione della democrazia liberale presuppone che i cittadini all’interno dello Stato siano forza passiva, non un soggetto con il quale avere un’interlocuzione politica attiva: un’azione efficace può ostacolare l’estensione del conflitto riportando le organizzazioni sociali, politiche e sindacali dei lavoratori ad avere un ruolo attivo.
Contrastare i piani di riarmo, convenzionale e nucleare, è un’esigenza primaria ed è possibile osteggiare le condizioni economiche e sociali che ne permettono la realizzazione.
Che le spese militari assorbano finanziamenti e risorse statali che vengono sottratte alla spesa pubblica per ambiente, sanità, istruzione, ricerca di base impoverendo il patrimonio collettivo lo sanno tutti. Che si tratti di investimenti improduttivi che generano ricchezza solamente alle imprese del comparto militare-industriale impoverendo tanto gli altri settori produttivi nel loro complesso quanto, di conseguenza, il lavoro dipendente è una considerazione in genere trascurata.
La spesa pubblica può essere tanto più finalizzata all’investimento militare e alla spesa per la guerra quanto meno viene rivendicata e ottenuta dai lavoratori per finanziare lo stato sociale, la sanità pubblica, l’istruzione libera e gratuita. La battaglia per le politiche sociali e i diritti non può non essere strettamente connessa all’opposizione alla guerra e alle spese militari (e viceversa).
Senza una base industriale adeguata e investimenti pubblici nella ricerca bellica le politiche di militarizzazione sono fortemente penalizzate: battersi nei posti di lavoro e nelle università per il controllo dalla base degli investimenti statali e pretendere fondi per la ricerca di base togliendoli a quella militare è una pratica salutare per tutti.
Senza il sostentamento economico e la permissività normativa concesse alla servitù militare delle basi NATO la movimentazione di armamenti e il loro trasferimento ai teatri di guerra aperti o provocati dagli Stati Uniti incontrerebbero gravi difficoltà.
Senza l’Europa militarizzata il comparto militare-industriale italiano perderebbe la metà delle sue commesse: per costruire un movimento di contestazione ai vertici del Consiglio Europeo è necessario avviare un processo verso una solidarietà internazionalista comune a tutte le organizzazioni antimilitariste e autenticamente pacifiste nei Paesi dell’Unione.
Senza una cultura di guerra sarà impossibile che la voce delle armi si imponga contro la volontà popolare: costruiamo la cultura della pace.
(www.valeriapoletti.com, 18 gennaio 2024)
[1] Cfr.: Centro di Cultura e Documentazione Popolare (a cura di), Sintesi del libro G. Ruggero, “I partigiani della pace”, Vangelista, Milano, 1984, CCDP, 6 marzo 2003, https://www.storiauniversale.it/31-il-movimento-dei-partigiani-della-pace.htm; Partigiani della pace, https://it.wikipedia.org/wiki/Partigiani_della_Pace.
[2] In Italia contemporanea, dicembre 1999, n. 217 – introduzione a Giulio Petrangeli, I Partigiani della pace in Italia 1948-1953 – IC_217_1999_4_r PDF (www.reteparri.it) chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/IC_217_1999_4_r.pdf
[3] Ibidem.
[4] Cfr.: Partigiani della pace, https://it.wikipedia.org/wiki/Partigiani_della_Pace
[5] “L’autonomia di iniziativa del Partito comunista andava restringendosi progressivamente in conseguenza dell’arroccamento su una posizione difensiva, che comportò l’accettazione del ‘dogma’ cominformista dell’unità del movimento comunista sotto la guida dell’Urss” scrive Giulio Pietrangeli (op. cit.).
[6] “Con la successiva suddivisione del mondo in due blocchi, Iosif Stalin ritenne che il compito principale del movimento comunista internazionale continuasse a essere la salvaguardia dell’Unione Sovietica. La costituzione di una zona cuscinetto di otto paesi (sette dopo la fuoriuscita della Jugoslavia dalla sua orbita), in Europa dell’Est, rappresentò un elemento centrale di questa politica. Nel medesimo periodo, la Dottrina Truman segnò l’avvento di un nuovo tipo di guerra: la Guerra Fredda. Con il supporto alle forze anticomuniste in Grecia, attraverso il Piano Marshall (1948) e mediante la creazione della NATO (1949), gli Stati Uniti d’America scongiurarono la possibile avanzata delle forze progressiste nell’Europa occidentale. L’Unione Sovietica rispose con il Patto di Varsavia (1955). Questo scenario generò una spropositata corsa agli armamenti che riguardò, nonostante il ricordo, ancora vivissimo nell’opinione pubblica, dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, anche il proliferare delle testate nucleari”. (Marcello Musto, La sinistra di fronte alla guerra, 2022, https://marcellomusto.org/la-sinistra-di-fronte-alla-guerra/).
[7] “La guerra dell’Ucraina contro il Donbass si è trasformata nella guerra dell’Occidente contro la Russia. Una guerra nella quale la grande potenza americana ha visto l’opportunità per combattere – con il sangue altrui – la sua guerra contro la Russia e, in prospettiva ravvicinata, contro la Cina e la sua Via della Seta per la quale il passaggio aperto attraverso il Mar Nero sarebbe una delle vie privilegiate per accedere alle ricchezze dell’Africa. È così che un’America, non più unica superpotenza, ha approfittato per frantumare quella Unione Europea che, con la sua fragile unità, avrebbe potuto porsi come uno dei poli forti del capitalismo multipolare” (Valeria Poletti, Ucraina, guerra a distanza tra Stati Uniti e Russia, 28 marzo 2022, chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.peacelink.it/conflitti/docs/5498.pdf).
[8] Il continuo evolversi degli scenari di guerra a livello globale sta producendo la contrapposizione di un blocco di Stati ad un altro blocco di Stati, una contrapposizione che, però, non è esattamente sovrapponibile alla rivalità tra sistemi economici o apparati finanziari e imprese globali che governano i flussi di capitale, merci e informazioni tra le diverse aree del pianeta. L’esistenza di contraddizioni interne a ciascuno schieramento è ravvisabile, per esempio, nell’amalgama di Stati costituito dai BRICS, uniti dal comune proposito ad una diversificazione valutaria che penalizzi il dollaro sui mercati finanziari e sui mercati globali, ma profondamente divisi quanto a sistemi economico-politici e diversamente schierati sui fronti bellici.
[9] Il ruolo preponderante dello Stato nel controllo politico, economico e sociale in una economia capitalistica. In Russia, oltre che da una cultura tradizionalista che si richiama all’impero, questo modello di governo è connesso ad un’economia basata sull’esportazione di materie prime e sulla rendita finanziaria che ne deriva. Non si tratta, evidentemente, di un sistema politico-economico socialista.
[10] “La democrazia controllata creata da Putin appare ormai sufficientemente consolidata e in grado di consentire una transizione del potere. La Russia è un Paese privo di un’autentica opposizione parlamentare, con un sistema politico dominato dal partito del presidente e con un sistema dell’informazione pressoché integralmente controllato dall’alto. Ma il presidente e il primo ministro ricevono un’ampia legittimazione popolare dai riti di una democrazia manipolata. La personalizzazione della politica ha giocato e gioca un ruolo fondamentale, nella prassi come nella cultura politica della Russia. […] lo scenario più probabile per il futuro della Federazione Russa appare quello della consonanza di fondo su alcuni elementi essenziali: la centralizzazione del potere e l’espansione del controllo dall’alto sui centri vitali dell’economia del Paese; i limiti imposti alla crescita e alla libera espressione della società civile; la modernizzazione del Paese entro le linee del modello di sviluppo sinora seguito; l’ideologia della grande potenza russa e la visione della Russia come centro autonomo di un sistema internazionale multipolare; la retorica patriottica e paternalistica presente come elemento centrale nel discorso politico ufficiale. […] Gli imperativi legati agli interessi nazionali e alla sicurezza hanno sinora prevalso su quelli dell’adeguamento normativo e sistemico ai principali criteri mondiali di liberalizzazione economica e di democratizzazione” (Silvio Pons, La questione politica della Russia contemporanea, 2009, https://www.treccani.it/enciclopedia/la-questione-politica-della-russia-contemporanea_%28XXI-Secolo%29/).
[11] Se anche non si vuole tenere conto delle voci palestinesi che, in Occidente, si esprimono contro la dittatura islamista di Hamas e se anche vogliamo ignorare le fonti dirette che testimoniano la crescente popolarità di movimenti non confessionali che si organizzano (in Cisgiordania, ma anche a Gaza) per la resistenza armata contro Israele, si può tenere conto delle inchieste statistiche pubblicate dal Palestinian Center for Policy Survey and Research (PCPSR): “Ampio sostegno pubblico all’offensiva di Hamas del 7 ottobre, ma la stragrande maggioranza nega che Hamas abbia commesso atrocità contro i civili israeliani. La guerra aumenta la popolarità di Hamas e indebolisce notevolmente la posizione dell’Autorità Palestinese e della sua leadership; ciononostante, la maggioranza dei palestinesi continua a non sostenere Hamas. Aumenta il sostegno alla lotta armata, soprattutto in Cisgiordania e in risposta alla violenza dei coloni, ma aumenta leggermente il sostegno alla soluzione dei due Stati”. “Il 68% della popolazione (71% nella Striscia di Gaza e 66% in Cisgiordania) si dichiara favorevole alla formazione di gruppi armati come la “Fossa dei leoni”, che non prendono ordini dall’Autorità Palestinese e non fanno parte dei servizi di sicurezza della PA; Il 25% è contrario”, https://pcpsr.org/en/node/938).
[12] Prima del 1948 e nei primi anni dello Stato di Israele la corrente principale del sionismo era essenzialmente laica.
[13] Per una analisi della storia di Hamas, della funzione che ha svolto – con il sostegno concreto di Israele – nel dividere e indebolire il fronte della resistenza palestinese e della sua stretta relazione con la Repubblica Islamica dell’Iran, cfr.: Valeria Poletti, Hamasland, Palestina, 29 marzo 2009, chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/http://www.valeriapoletti.com/resources/pdf/hamas.pdf).
[14] Il regno dei Saud, attualmente impegnato a sviluppare la propria economia post-petrolifera e ad integrarla dentro quella regionale, ha aderito ai cosiddetti Accordi di Abramo del 2020 – sponsorizzati dagli Stati Uniti di Trump – che hanno riaperto canali diplomatici tra lo Stato ebraico ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan (un possibile preludio al riconoscimento de facto dello Stato di Israele). Era in discussione un allargamento di questi accordi ed è in progetto un Corridoio Economico India- Medio Oriente-Europa lanciato al G20 di New Delhi e firmato, anche, da sauditi, israeliani ed emiratini. Operazioni che penalizzerebbero fortemente l’economia di Teheran oltre a ridurne la capacità attrattiva verso i Paesi mediorientali. L’umanamente inconcepibile attacco di Hamas a Israele e la conseguente prevedibile feroce reazione del governo Netanyahu costituiscono ora una barriera forse insuperabile a simili progetti. Ma non è questo il più importante obiettivo strategico iraniano: prevalere sul carisma saudita presso la Umma (la comunità globale dei musulmani) e mobilitare le masse musulmane nel mondo richiede il prestigio di una pretesa superiorità “morale” che emana dall’osservanza della legge coranica, una superiorità che Teheran intende dimostrare con il suo sostegno alla causa palestinese confiscata da Hamas. In gioco c’è la vittoria nella competizione per l’egemonia sul mondo musulmano.
[15] Tra questi, il progetto un Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa lanciato al G20 di New Delhi e firmato, anche, da sauditi, israeliani ed emiratini. Operazioni che penalizzerebbero fortemente l’economia di Teheran oltre a ridurne la capacità attrattiva verso i Paesi mediorientali.
[16] Marcello Musto cita l’emendamento proposto da Rosa Luxemburg alla mozione finale della mozione “Sul militarismo e sui conflitti internazionali”, votata al congresso della Seconda Internazionale di Stoccarda, nel 1907 (Marcello Musto, La sinistra di fronte alla guerra, https://marcellomusto.org/la-sinistra-di-fronte-alla-guerra/).