Il Pd cala, ci sono spazi a sinistra. Ma bisogna abbandonare la ricerca di un mitico federatore

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Michele Prospero
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di Michele Prospero – 12 giugno 2017
In una politica in cui contano assai i simboli, stranamente i media unificati hanno trascurato la rilevanza di alcuni piccoli gesti di ribellione che spruzzano, appunto, una valenza evocativa. A Rignano, cioè proprio nel classico luogo del delitto, il Pd è stato scacciato dal comune. Un simbolico grido di basta si è udito nelle urne aperte sulle rive dell’Arno. E’ stato come un chiedere scusa collettivo per quell’esperimento di degradazione della politica cui il piccolo paese toscano ha avuto il torto di dare i natali.
Altro momento simbolico si è avuto a Lampedusa. Doveva essere il volto fresco del renzismo dell’accoglienza e invece, Giusy Nicolini, la nuova entrata nella segreteria del Pd, nei gradimenti popolari si blocca addirittura alla terza posizione. Certe promozioni cadute dall’alto del Nazareno portano male.
A parte i simboli, la sostanza del voto è per il Pd un segnale negativo, altro che incoraggiamento per un ennesimo tentativo di forzare e votare a novembre. Il modico incremento a Como o la tenuta ad Alessandria, a Frosinone, a Oristano o Lucca non salvano i dati di una consultazione difficile. A Verona il Pd non conquista neppure il ballottaggio e ha mille voti in meno, lo stesso calo avuto all’Aquila; il secondo turno lo acciuffa a Genova ma perde 12 mila voti rispetto alla prova precedente. Così accade anche a Parma: 7 mila schede in meno. A Palermo la sua lista di riferimento dimezza i 21 mila consensi del 2012.
A Padova il Pd conta oggi meno 15 mila voti, a Pistoia meno 4 mila, a La Spezia meno 5 mila, dimezzati sono i consensi a Lecce, a Belluno, più che dimezzati a Catanzaro, Asti, a Carrara e a Taranto. Se il Pd può celebrare la sua sconfitta come una tenuta è solo per gli schiaffi clamorosi andati sul volto del M5S. Potrebbe capitare, al comico di Genova che si cimenta con i tatticismi del parlamentarismo e si accorda per togliere il voto di preferenza e bloccare il voto disgiunto, la stessa sorte toccata al commediografo che fondò l’Uomo qualunque, che rimase scottato dopo l’attrazione banale per i troppo sottili giochi della grande politica.
Ma nel dopoguerra ad attirare Giannini, nel dialogo secondo i riti astuti della politica ufficiale, e quindi a depotenziarne il tratto eversivo, fu Togliatti. Cadere nel guinzaglio dello statista di Rignano e di Berlusconi è ancora più beffardo per un Grillo non più ribelle che non sa resistere all’attrazione fatale per il potere assoluto di investire il deputato secondo la sua santa benedizione. Con le sue manovre sulla legge elettorale (strappare la precisa clausola costituzionale che impone di votare in circoscrizioni disegnate secondo l’ultimo censimento ufficiale), il M5S è stato percepito come complice di una degenerazione della classe (anti) politica al potere e quindi non più credibile.
Il voto mostra che ci sono ancora spazi a sinistra. Ma bisognerebbe archiviare il tempo perduto alla ricerca di un mitico federatore reclutato dalla società civile. Cose già antiche, il processo di aggregazione di forze plurali deve avvenire sul terreno politico, con incontri ufficiali dei dirigenti, con confronti approfonditi per siglare intese e varare un programma minimo credibile. Il resto con appelli, garanti, custodi, consiglieri somiglia alla lista Tsipras per l’europee o alle grottesche accelerazioni degli anni ‘70, con capi senza truppe che scalciavano per acciuffare la testa del corteo, tanto toccava ad altre forze gremire la piazza con la partecipazione di massa. Il tempo è scarso, le mosse velleitarie dietro federatori disarmati in questa fase sono disastrose.
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