Fonte: La stampa
Perché il piano Maga va contro Meloni
llora chiariamo subito un punto. Il progetto Maga (Make America Great Again) di Donald Trump prevede la distruzione del Mega (Make Europa Great Again) suggerito dal vicepresidente JD Vance che, a sua volta, porta al fallimento del Miga (Make Italy Great Again) auspicato da Giorgia Meloni alla convention dei conservatori tenutasi a Washington domenica scorsa. In altre parole, non si può essere tutti conservatori e tutti vincenti. La tanto auspicata collaborazione – «i conservatori stanno vincendo e stanno collaborando a livello globale» ha spiegato Meloni – funziona solo a parole. Quando si passa ai fatti, uno vince – ossia Trump – e gli altri perdono. Attenzione, però. Almeno in economia, si tratta di una vittoria di breve termine.
L’esperienza mostra, infatti, che l’agenda economica dei conservatori alla lunga è fallimentare. Conservare, non cambiare, chiudersi sono ingredienti di un programma che non crea benessere stabile e duraturo. Qualche esempio? Partiamo dai dazi. La misura può portare (qualche) beneficio agli Stati Uniti solo se la reazione europea non è unitaria. Ma questo, appunto, sarebbe l’opposto di ciò che serve al progetto Mega e, in particolare al Miga: un Paese esportatore come il nostro sarebbe il primo ad essere penalizzato da un negoziato bilaterale, considerato il significativo ammontare di esportazioni annuali verso gli Stati Uniti. Peraltro, sarebbe miope pensare che grazie al rapporto privilegiato che esiste con il presidente americano, la nostra economia potrebbe uscirne indenne. All’Italia farebbero male anche i dazi imposti agli altri partner europei, a cominciare da quelli alla Germania a cui vendiamo beni intermedi. A conti fatti, sui dazi non è possibile «difendere i propri interessi» e, al contempo, «mantenere l’amicizia» come ha spiegato Meloni a Washington. Il protezionismo – come è noto – prevede che uno vinca a spese degli altri. Ma non solo. Se la reazione europea fosse unitaria l’effetto ultimo sarebbe una guerra commerciale che, alla lunga, lascerebbe sul campo solo perdenti. Economie destinate al declino. Del resto, questo è il risultato ultimo che si ottiene dall’implementazione dell’agenda economica dei conservatori. Una politica che si basa sulla tutela di chi è già nel sistema. Lo dimostra l’attenzione (per usare un eufemismo) di Trump verso le grandi aziende digitali.
In Italia gli esempi sono numerosi: si va dai tassisti ai balneari. Entrambe le categorie devono essere protette dall’arrivo delle «multinazionali straniere». E i giovani italiani che vorrebbero entrare nel settore? Non contano. La priorità è proteggere gli insider (quelli dentro) a danno degli outsider (quelli fuori). Si chiama conservare. E così si rafforzano rendite di posizione e monopoli. La parola «concorrenza» sparisce dal dibattito. Riformare, ossia l’opposto di conservare, viene vissuta come un’azione non necessaria: troppi costi e troppi rischi. L’obiettivo è tutelare l’esistente ossia un’economia in cui le famiglie contano su una rete di conoscenze e contatti e le imprese mantengono dimensioni e grado di innovazione non competitivi.
Ma quanto può durare un sistema economico basato sulle tribù? In un mondo in cui gli altri si muovono, conservare porta dritto al declino. I dati lo dimostrano: chi conserva torna indietro. Ventitré mesi di produzione industriale con il segno meno e la produttività totale dei fattori, l’indicatore che misura il grado di attrattività della nostra economia agli occhi degli investitori esteri, che si contrae del 2,5 per cento dovrebbero servire da campanello di allarme. E invece, nulla. Nessuno al governo agisce. Le parole, però non mancano. «Non ci arrendiamo al declino» ha concluso Meloni sempre a Washington. «Lasciamo ai nostri figli un mondo libero e forte». Ciò che conta, tuttavia, è la realtà dei fatti: il nostro modello non può essere quello di una società di amici monopolistici del presidente.