Fonte: Limes
Perchè Trump normalizza la Russia
Fiamme Americane è l’osservatorio di Limes sugli Stati Uniti e sugli intrecci tra la discordia interna e la politica estera. Rubrica curata e ideata da Federico Petroni. Tutte le puntate a questo link.
Donald Trump vuole chiudere una guerra che gli Stati Uniti non hanno mai voluto vincere. E usare la spartizione dell’Ucraina come innesco della normalizzazione con la Russia. Obiettivo finale: allentare (non sciogliere) la strana coppia con la Cina, dando a Putin un’alternativa a finire sotto Pechino. Autentica svolta che richiede una terapia brutale nei confronti degli europei. Per imporre un messaggio: la Russia non è più il nemico.
Ogni avvenimento dell’ultima settimana va in questa direzione, al di sotto della studiata violenza verbale per scioccare gli spettatori e assumere l’iniziativa, anche nei confronti dei russi. Le spallate di Trump e dei suoi sono tutti messaggi diretti a Mosca. Non per segnalare un’inesistente intesa ideologica, ma per marcare una netta cesura con la classe dirigente precedente.
Anzitutto gli Stati Uniti hanno avviato una trattativa non limitata alla sola Ucraina, ma centrata sulla rilegittimazione di Mosca. Il segretario di Stato Marco Rubio ha parlato di «cooperazione geopolitica ed economica» come premio per la conclusione della mattanza ucraina. Dopo il traguardo, c’è la promessa dello stop alle sanzioni e persino di investimenti diretti americani, che i russi vorrebbero convogliare nell’Artico.
Legittimare vuole dire riconoscere il punto di vista dell’altro. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha detto che per la prima volta gli americani non sono stati solo ad ascoltare, ma hanno sentito. Affermazione poi corroborata da Vladimir Putin, che ha notato come all’incontro di Riyad ci fossero «persone diverse». Trump propone come interlocutori ai russi una classe dirigente nuova, che riconosce che il mondo non può essere comandato da una sola potenza e che non parte dal presupposto che gli interessi dell’altro, quando non coincidenti, siano illegittimi.

Poi la scelta di Riyad per il primo colloquio non è casuale. Punta in almeno due direzioni. Una legata al Medio Oriente: suggerisce che gli americani immaginino di coinvolgere i russi nel contenimento della guerra Iran-Israele, sia per costringere Teheran a un accordo sul nucleare sia per impedire a Gerusalemme di bombardare gli impianti atomici persiani. L’altra dimensione è legata al petrolio: gli ottimi rapporti fra i sauditi e i trumpiani possono dare concretezza sia alla minaccia di Washington di usare il prezzo del barile per mettere in ginocchio l’economia russa sia a un futuro accordo di cartello fra i tre massimi produttori di oro nero per stabilizzare e dividersi i mercati.
Quindi viene la brutale retorica contro Zelens’kyj. Trump vuole l’accordo più solido possibile sull’Ucraina, non un semplice cessate-il-fuoco. Negozia per sé, non per conto di Kiev e nemmeno capitola alle condizioni russe. Certo è d’accordo su alcune di queste, come la cessione formale dei territori occupati. Ma nella trattativa ci sono punti sgraditi, quando non irricevibili per Mosca, come le garanzie di sicurezza, forze straniere di interposizione (non statunitensi) o addirittura l’ingresso automatico di Kiev nella Nato in caso di futura aggressione.
Trump non propone di svendere l’Ucraina a Putin. Offre una vera e propria spartizione. Dove la parte orientale resta alla Russia e la parte occidentale diventa una colonia di fatto degli Stati Uniti. Non militare, unicamente estrattiva. In questo senso va il contratto proposto a Zelens’kyj per cedere il controllo di terre rare, idrocarburi, porti e altre infrastrutture a Washington. È il tributo in natura che chiede Trump per offrire fondi per la ricostruzione e assicurarsi che altre grandi potenze (Cina) non s’inseriscano nella partita accaparrandosi i tesori ucraini. Ovviamente Zelens’kyj ha rifiutato. Per questo la Casa Bianca attacca. Se l’interlocutore cede, bene. Se non cede, la sua rimozione faciliterà l’intesa con Mosca.

Infine in questi giorni Trump sta inviando numerosi messaggi ai russi relativi all’Europa. Il punto di partenza è che la nuova dirigenza americana vuole disinnescare la Nato. La vede come mezzo di diffusione surrettizia dello stile di vita occidentale. E intende riportarla ad alleanza puramente difensiva. Trump è arrivato a dire che invitare l’Ucraina all’adesione ha fatto scoppiare la guerra pur di segnalare ai russi di essere serio nel considerare come legittimi i loro interessi di sicurezza. Nessuna tregua in Ucraina e nessuna normalizzazione durerà se il Cremlino continuerà a ritenere la Nato strumento di rivoluzioni colorate.
Come farlo senza ritirarsi dall’Europa e smantellare la Nato, cosa che Trump non sembra intenzionato a fare? Due indizi.
Primo, il discorso di J.D. Vance a Monaco, in cui il vicepresidente ha irretito gli europei spiegando loro che il nemico non è la Cina o la Russia ma viene da dentro, cioè dal decadentismo delle élite liberali. È un punto fondamentale: Vance rappresenta una destra convinta che sia necessario superare il liberalismo perché ha un’agenda radicale sia all’interno sia – cruciale per noi – all’estero. Dove in quest’ultimo campo coincide con l’esportazione della democrazia che non accetta altre forme di governo e pertanto porta alla guerra. Qui sta il messaggio di distensione per i russi: imponiamo un freno agli europei.
Secondo, al disarmo ideologico si accompagna il parziale disarmo europeo. L’amministrazione Trump ventila un arretramento delle truppe schierate in Est Europa. E ordina una riduzione dell’8% al bilancio del Pentagono in ciascuno dei prossimi cinque anni, ma non orizzontale: i tagli riguardano i comandi per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa, non i comandi per l’Indo-Pacifico e il Nord America e alcuni progetti d’arma (sottomarini, navi, droni, nucleare), con una parte reinvestita in nuove iniziative come le difese antimissile spaziali. Anche se difficilmente sopravvivrà così com’è al Congresso, vero arbitro della spesa militare, è un segnale clamoroso. In linea con l’idea della Fortezza America. Ma alimenta ulteriormente l’idea che gli Stati Uniti non abbiano i mezzi per fare la guerra perché il debito è eccessivo, la popolazione non vuole aumentare le tasse e l’industria bellica è ancora indietro.
Alla deterrenza, cioè alla spesa sulla strapotenza militare, Trump sostituisce i suoi deal, l’offerta di normalizzazione ai russi e l’ordine agli europei di non considerare più Mosca un nemico. Il Cremlino lo prenderà certamente come una novità positiva. Ma quanto può durare in assenza del capo, mentre quest’ultimo è impegnato in una furibonda battaglia per epurare le istituzioni e riscrivere i rapporti di forza tra i poteri in America? Su questo interrogativo si gioca l’ennesimo tentativo di un presidente dopo la guerra fredda di migliorare i rapporti con la Russia. Nessuno ci è riuscito. Ma i tempi sono cambiati. Forse troppo?
