di Fausto Anderlini – 17 febbraio 2019
Ci sarebbe da ridire se non da ridere. Renzi proclama la sua contrarietà all’autonomia differenziata delle regioni e imputa a Gentiloni d’aver aperto la porta al reato. Senonchè l’adesione passiva del Pd ai referendum del lombardo-veneto del ’17 e l’avvio in parallelo dell’autonomia differenziata all’emiliana furono praticate con la segreteria Renzi nei suoi pieni poteri. Voci attendibili mi hanno riferito di telefonate dove Bonacini veniva spronato a prendere l’iniziativa in materia. Facile immaginare chi ci fosse dall’altra parte della cornetta. Certo era un Renzi che navigava alla cieca, in preda a ondivago stordimento dopo il fallito tentativo della riforma costituzionale, nella quale giova ricordare era implicito un riaccentramento statale a danno dell’autonomia regionale.
Ma l’occasionalismo politico renziano non è stato che l’ultimo episodio di una condotta random che ha coinvolto tutta la politica istituzionale del Pd. Peraltro con precedenti corposi nell’esperienza di governo dell’Ulivo. Del resto quel che oggi procede per i rami segreti dei rapporti Stato-Regioni non è avulso da quella riforma del titolo V con la quale il centro-sinistra sperava di depotenziare il secessionismo leghista adeguandosi al terreno della riforma federalista dello Stato.
Non solo è mancato ogni equilibrio nell’oscillazione fra centralismo, con il potenziamento dell’esecutivo, e autonomismo pan-regionalista, ma lo stesso autonomismo ha pendolato fra le declinazioni più diverse. Con un conflitto permanente fra regionalismo e municipalismo, salvo l’armistizio momentaneo in occasione del declassamento delle povere Province. L’anello debole della catena.
La scalata di Renzi era cominciato con la conquista della presidenza dell’Anci da parte di Del Rio e anche profittando del cono di discredito calato sulle regioni e la loro classe politica il toscano aveva fatto dei grandi comuni la propria base di riferimento. Giungendo a immaginare una riforma istituzionale all’insegna dell’imitazione della legge sui sindaci (il cd. Sindaco d’Italia). Prospettiva poi abbandonata, come richiamato, allo stormire di altre fronde.
Oggi siamo entrati nella più completa indeterminazione istituzionale. Nel mentre il centro statale è ostaggio di un ‘contratto’ che mira a coalizzare la nazione opponendo il sovranismo alle minacce esterne (immigrati, Europa, finanza, Stati con passato imperiale) l’intelaiatura delle strutture decentrate si dibatte in una guerra di tutti contro tutti che inclina all’anarchia. All’iniziativa delle regioni del nord-est fanno riscontro analoghe richieste di differenziazione da parte di altre regioni, fra le quali la Campania di De Luca. Se le prime vogliono trattenere il surplus fiscale le seconde, c’è da supporre, si mettono in trincea per pretendere un sovrappiù di trasferimenti statali. Più poteri più trasferimenti. Nella peggiore delle ipotesi la preservazione dello status quo ante. Nel mentre i Comuni soffrono le pene dell’inferno e sono pronti a sabotare quel centralismo regionale che già adesso li imbarazza.
Italiani contro italiani, anzi meglio dire, strati di classe politica contro altri strati, a seconda del posto ricoperto pro-tempore. Una stratarchia che ha perso ogni regola e che attraversa quell’ectoplasma indefinito che è il sistema dei partiti nelle sue componenti nuove e residuali. Con i grillini totalmente avulsi dalla realtà, impegnati a seguire le chimere della loro post-democrazia, la Lega ha avuto buon gioco a occupare tutti gli spazi: sovranismo statalista e secessionismo sub-nazionale. Con due forni politici a disposizione: i grulli del M5S al centro, le destre in periferia. Del resto la Lega è l’unica forza dotata di un solido mastice territoriale (il Nord-est) laddove i grillini sono sospinti da un territorio (il Sud) nel quale non hanno in realtà nessuna radice.
Il centro-sinistra intanto si affida al ‘modello Legnini’, a queste aggregazioni civiche locali che sono come i fichi secchi al pranzo nuziale. Il civismo surroga il vuoto degli attori politici generali superandoli, per adesso, in una sorta di fricandò para-politico, Il centro-sinistra sembra esistere e persistere in quanto assume una forma amebica, friabile e indeterminata. Senza un soggetto egemone che federi le parti e che proponga una classe politica selezionata e capace di agire un progetto generale.
Ma nel disastro siamo entrati con la fine della ‘seconda repubblica’. Nella fase costituzionale-proporzionale della prima repubblica l’intrinseco pluralismo dell’Italia, con il suo retaggio incredibilmente articolato di forme locali di urbanesimo e regionalità, era governato e tenuto in forma dal partiti che integravano il sistema facendo da ‘mastice’ fra centro e periferia. In Emilia ad esempio, la regione era recepita come spazio condiviso tramite la cooperazione inter-istituzionale, la quale tuttavia era supportata dal partito ivi egemone. E la stessa cosa, mutatis mutandis, avveniva altrove.
Ancora nella seconda Repubblica, pure con i partiti variamente destrutturati, il modello aveva potuto funzionare grazie alla divaricazione del campo coalizionale fra centro-sinistra e centro-destra. La politica teneva in forma il sistema, assorbiva e conteneva i conflitti, sicchè fra le regioni potevano svilupparsi proficuamente modelli competitivi di governance. Di tutto questo non è rimasto più nulla. Senza partiti che svolgono la funzione integrativa, il territorio, come del resto il popolo, non esiste. E’ solo un ammasso irrelato di particolarismi.
La mia idea è che stiamo entrando non in una fase di secessione ma di dissoluzione. Se sopra, alla luce del sole regna il caos sotto, nell’ombra, una gran parte del paese ha già scelto la diserzione.