Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto

per Gabriella
Autore originale del testo: Liborio Conca
Fonte: minimaetmoralia.it
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QUESTIONE DI VIRGOLE – di LEONARDO LUCCONE – ed. LATERZA

Questione di virgole: viaggio attraverso la punteggiatura

“Questo libro tenta di fare chiarezza”, scrive Leonardo Luccone al principio di Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto, il suo ultimo saggio uscito per Laterza; e cosa c’è di meglio della chiarezza, in termini di lingua, uso della sintassi, della punteggiatura? Probabilmente: niente. La bellezza di una frase o il suo contrario viaggia spesso su un crinale esile, fragile come un vassoio di vetro da condurre in una stanza affollata: ecco, il libro di Luccone racconta come muoversi attraverso la suddetta stanza, suggerendo come passarvi indenni. Con attenzione, tenendo fermi i punti e discutendo delle virgole e del loro incontro, nel segno d’interpunzione più bistrattato; rimandando all’uso della punteggiatura nella letteratura italiana; e mantenendo uno sguardo allo stesso tempo leggero e intrigante.

La tua ricognizione nel mondo della punteggiatura, in particolare in quello delle virgole, comincia da un esempio che va dritto al punto (giuro che non è un gioco di parole). Tiri in ballo il verso Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia, direttamente dal quinto canto dell’Inferno. Perché hai scelto quest’episodio, per partire?

Ho scelto quel canto e, in particolare quel verso, perché mi ha folgorato; avevo tredici o quattordici anni, nessuna cognizione di sintassi o punteggiatura ma sufficiente intuito per comprendere che grazie a quella virgola stava succedendo qualcosa di bello. Il fatto è che il mio compagno di classe, sul suo libro, aveva lo stesso verso scritto così: Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia, e altri compagni addirittura senza virgole. Insomma il mio primo vagito interpuntorio è stato una domanda: Ma Dante le virgole come le ha messe? Insomma: ho scritto un libro per rispondere a questo interrogativo. E, come è ovvio, non ci sono riuscito.

La domanda fatidica, invece, arriva poco più tardi: perché imparare a usare bene la punteggiatura?

Perché la punteggiatura è parte integrante della scrittura; perché la punteggiatura aiuta a costruire l’argomentazione, tempera la tensione, aiuta a distendere il discorso, contribuisce a far risuonare lo stile. Se punteggi bene è quasi certo che tu stia scrivendo bene. Non è vero il contrario: puoi scrivere bene usando in modo pessimo la punteggiatura.

Mentre scrivevi questo libro avevi in mente un “bersaglio” preciso? Autori di libri, giornalisti, o scrittori occasionali?

Pensavo all’universo della scuola (quindi studenti e professori, autori di libri scolastici), perché è in quel breve arco di tempo che va dai dodici ai diciannove anni che siamo più ricettivi a sollecitazioni così strutturali. L’impalcatura della nostra scrittura la mettiamo su lì. (E per quello che vedo nel mio mestiere anche i guai. Le incrostazioni e le magagne della nostra scrittura si originano lì, a scuola.)

Volevo scrivere un volumetto divulgativo da leggere a morsi: un libro di belle citazioni con mie considerazioni a piè di pagina.

Scrivi che “La punteggiatura, come la dizione, sembra un accessorio da affidare al proprio istinto. Si ragiona «a orecchio» o, come si sente spesso dire, in «base alla respirazione». È chiaro che non è così: come si impara a saper usare la punteggiatura esatta? Leggere tanto può bastare?

In tutti questi anni ho capito che certi aspetti dell’interpunzione restano piuttosto opachi durante la lettura. Se chiedi “Com’era la punteggiatura?” a qualcuno che ha appena finito un libro, il più delle volte non ne ha idea. La punteggiatura, specie quando è ben messa e non fa particolari fuochi d’artificio, è invisibile, non la si nota. Fa il suo servizio. Direi che si pone alle fondamenta del testo.

Per imparare a usare bene la punteggiatura, per coltivare un proprio modo di usarla, bisogna capire una manciata di regole elementari e, più importante di tutto, studiare come la usano gli scrittori bravi. La punteggiatura può essere vista come una scrittura parallela:i grandi scrittori si riconoscono dalla sola punteggiatura.

Un altro protagonista del tuo saggio è il punto e virgola.

Sì, il grande rifiutato, lo scansato, il segno da abolire, il segno non necessario, il sovrabbondante. Il segno meno usato e meno conosciuto della galassia interpuntiva.

A me è sempre stato simpatico e quindi ho deciso di adottarlo e di battermi contro la sua scomparsa. Nel libro mi diverto ad attribuirgli un’importanza capitale, scortato dai maestri della scrittura. E così il punto e virgola diventa: il segno più democratico di tutti, il vigile interpuntorio, il segno del cinema, il coordinatore, il direttore d’orchestra e non ricordo più cosa. È un segno fantastico.

Cos’è la «scrittura a mitraglietta», di cui parli nel libro?

Una scrittura sintatticamente ipersemplificata, fatta di frasi ridotte all’osso, tutte principali, spesso nominali, connesse con punti o virgole o congiunzioni semplici.

È uno stile che si sta diffondendo perché è facile, fa scena, riduce al minimo la possibilità di errore, va dritto al punto, appunto. È come se ogni sintagma avesse un faretto puntato addosso.

È una scrittura che assomiglia alla scrittura delle chat, anche se ha radici più profonde e viene da molto lontano.

È una scrittura facilmente riproducibile (e infatti tanti ne rimangono affascinati e la usano), ti permette di non disperdere idee ed energie.

In fondo è sempre esistita, ma in forma di variante, uno stile, una modalità nel respiro stilistico di un’opera. L’hanno usata Ariosto, Tasso, Shakespeare, Manzoni e tanti altri. Ora sembra sia appannaggio dei soli minimalisti e post post minimalisti.

La verità è che una scrittura iperparatattica a manetta diventa monotòna e monòtona, e perde la sua specificità.

A un certo punto, raccontando l’importanza delle virgole nelle enumerazioni, scrivi: «Quanto vi dà gusto mettere sfilze di virgole negli elenchi? A me tantissimo». È una delle frasi nel libro che denotano quanto la punteggiatura sia per te una vera passione. Immagino il dolore autentico che devi provare in presenza di testi con una punteggiatura sbagliata. (Ad esempio: ho il terrore di aver commesso qualche errore/imprecisione, in questa frase).

Nessun dolore, solo un po’ di dispiacere. Non tanto per gli errori in cui incappiamo più o meno tutti, ma per le diffuse lacune sui meccanismi dell’interpunzione. Negli ultimi mesi sto facendo un tour nelle scuole e mi accorgo che certi ragazzi vanno avanti senza nessun interesse per la propria scrittura, come se scrivere non li riguardasse, come se non dovessero mai più buttare giù una riga una volta usciti dal liceo. Calligrafia, ortografia, sintassi rimangono arti da praticare con urgenza ed entusiasmo. Il sistema scuola, con i professori come ultima emanazione, deve essere costruito per innescare quest’amore e stimolare l’impellenza.

Gli errori?, è importante farne, è importante correggerli, e riderci sopra.

La tua frase è perfetta.

Evitiamo di farci dei nemici: dunque non ti chiederò quali tra i nostri scrittori o giornalisti contemporanei hanno un pessimo rapporto con la punteggiatura, a tuo parere; per questa volta limitiamoci, se ti va, a chi la usa meglio.

Ah, sono in tanti a scrivere bene e a usare bene la punteggiatura. Avevo appena scritto: “Sono in tanti a scrivere bene e quindi a usare bene la punteggiatura”, poi avevo corretto “Sono in tanti a scrivere bene perché usano bene la punteggiatura”, poi ho cancellato, anche in virtù di ciò che ho detto prima. La verità sta in mezzo. Chi scrive bene ha – nove casi su dieci – una punteggiatura corretta che calza a pennello con lo stile; il motivo è banale, perfino ovvio, ma ne hai la certezza solo dopo che hai vivisezionato migliaia di testi concentrandoti sull’interpunzione e sul rapporto di questa con l’intenzione dell’autore.

Tra i punteggiatori stranieri che mi affascinano: Volodine, Énard, McGowan, Wallace, Minard, Ross, Kakutani.

Per quanto riguarda gli italiani direi: Del Giudice, Mari, Grasso, Sarchi, Orecchio, Meacci, Tonon, Carbé.

Nel libro citi diversi scrittori, a partire da quel Dante in apertura. Se ti faccio tre nomi, riusciresti a descrivere la punteggiatura di ciascuno di loro, il loro modo di usarla, l’importanza che riveste nelle loro opere? Ti direi: Cesare Pavese, Carlo Emilio Gadda, Pier Vittorio Tondelli.

Se posso cominciare con una locuzione definitoria per ciascuno direi: Pavese, orologiaio luminoso; Gadda, funambolo cerebrale; Tondelli, pragmatico sincopato. Ho scelto poi due esempi che, mi pare, contengono, in miniatura, il loro universo interpuntivo.

Leggiamoli:

Ho sentito urlare, cantare, giocare al pallone; col buio, fuochi e mortaretti; hanno bevuto, sghignazzato, fatto la processione; tutta la notte per tre notti sulla piazza è andato il ballo, e si sentivano le macchine, le cornette, gli schianti dei fucili pneumatici. Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta. I ragazzotti che correvano tra le gambe alla gente erano quelli; i fazzolettoni, le coppie di buoi, il profumo, il sudore, le calze delle donne sulle gambe scure, erano quelli. E le allegrie, le tragedie, le promesse in riva a Belbo.

Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi

Adesso il Vecchio era morto, e il Cavaliere era un piccolo avvocato calvo che non faceva l’avvocato: le terre, i cavalli, i mulini, se li era consumati da scapolo in città; la gran famiglia del Castello era scomparsa; gli era rimasta una piccola vigna, degli abiti frusti, e girava il paese con un bastone dal pomo d’argento. Con me attaccò discorso civilmente; sapeva di dove venivo; mi chiese se ero stato anche in Francia, e beveva il caffè scostando il mignolo e piegandosi avanti.

Si soffermava tutti i giorni davanti all’albergo e discorreva con gli altri avventori. Sapeva molte cose, più cose dei giovani, del dottore e di me, ma erano cose che non quadravano con la vita che facevo adesso – bastava lasciarlo dire e si capiva che il Vecchio era morto a tempo.

Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi

Pavese usa bene tutta la tavolozza della punteggiatura con una predilezione per il punto e virgola. È attentissimo a come si posa la frase, la sua punteggiatura è orchestrale perché è in grado di far risaltare ogni sintagma con il peso che vuole. Vediamo il circovolante di Gadda:

Era una figliola, con una scatoluccia: di cui loro, i Valdarena, avevano affidato ar marito la chiavicina: e il diritto di servirsene, tric tric: il santo usufrutto. E il coadiutore di Cristo, ai Santi Quattro, aveva benedetto il trattato. Con tanto di asperges in nomine Domini: senza troppo inzaccheralli, però. Lei, sotto la corona di zàgara e dentro il velo, aveva inchinato la faccia. Renda, sicché, renda il mal tolto, sto babbione de cacciatore, de viaggiatore in tessuti. Quale uso ha fatto de la bellezza? O quale spreco? di tanto gentile bellezza? e de li paoli? de li paoletti, belli pure loro? Indove l’ha mannati a sbatte, li paoli? E quelli marenghi corgalantomo brutto.

Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merlulana, Adelphi

Dimenticate tutti gli scioperi, di colpo; le urla di morte; le barricate, le comuni, le minacce d’impiccagione ai lampioni, la porpora al PèreLachaise; e il caglio nero e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti; e le cagnare e i blocchi e le guerre e le stragi, d’ogni qualità e d’ogni terra; per un attimo! per quell’attimo di delizia.

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti

Per gestire una scrittura accumulativa, elencativa, di questo genere, Gadda ha bisogno di ridefinire l’uso dei segni. Il suo punto e virgola non ha paragoni. La gamma va da una virgola dopata al punto depotenziato; poi c’è l’arcobaleno delle sfumature sottese dalle congiunzioni e il tiro della frase dato dalla capacità di lavorare con infilate lunghissime e lacerti di periodo, spesso ellittici del verbo. Lasciamo stare il suono: è anch’esso punteggiatura.

Tondelli è solo apparentemente piano. È piuttosto abile a dosare i segmenti sintattici: si trovano frasi molto spezzate e scudisciate lunghe senza tanti appoggi. Tondelli lavorava sul ritmo, e si vede benissimo a livello grafico.

Il paese è un piccolo borgo della bassa padana, con i portici, l’acciottolato sul corso principale, la basilica dedicata al patrono, il palazzo rinascimentale, le torri, i campanili, la rocca, le vecchie case ottocentesche del centro, alcuni palazzi del Settecento, la struttura urbana rimasta intatta e raccolta intorno al circolo delle vecchie e scomparse mura. Lui è nato qui in una vecchia e grande casa che ancora si affaccia sulla piazza principale. Ancora per poco. È già stata sgomberata. Gli inquilini se ne sono andati, i negozianti hanno lasciato le botteghe, il barbiere è l’unico rimasto. Fra poco inizierà la demolizione per dotare il paese di un altro edificio senza storia e senza stile, ripieno di mono-bilocali, di soffitti bassi, di finestre anonime, dall’intonacatura post-modern color rosa salmone o verde acqua. Ma lui non si scandalizza. I suoi genitori la penserebbero nello stesso modo. Solo i prigionieri hanno bisogno di spazio. E lui, che vive nelle città, conserverebbe tutto con una devozione sacra per il passato. Si stupisce, ad esempio, di come un piccolo tempio devozionale, probabilmente ottocentesco, che è rimasto intatto sulla statale, a pochissimi metri dalla casa in cui è nato, sia lasciato nel più assoluto abbandono.

Pier Vittorio Tondelli, Camere separate, Feltrinelli

Al Celio siamo entrati verso le undici di sera in un gruppetto di otto-dieci malandate reclute chiassose e un po’ ubriache del vino dei Castelli che abbiamo tracannato lì a due passi, in una trattoria proprio dietro il Colosseo consigliata da Lello un avvocato molisano della mia compagnia che sorprendentemente ritroverò poi compagno di camerata e di ufficio da lì a due mesi fino al giorno del nostro congedo. Ma io me la intendo soprattutto con un giovane della collina bergamasca, si chiama Alessandro, parla malissimo in lingua ma anche col dialetto non sa cavarsela granché. Ha vent’anni, lo hanno spedito qui anche lui per via del cuore. Fa il camionista e ha una gran faccia da pazzo.

Pier Vittorio Tondelli, PaoPao, Feltrinelli.

Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell’agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.


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