da www.cadoinpiedi.it di Riccardo Staglianò
Perché, dalla fine degli anni 70 a oggi, abbiamo cominciato a stare peggio tutti tranne l’1 per cento più ricco della popolazione? E’ la domanda che attraversa il documentario Inequality for All. La cui risposta si dipana in tre atti.
Tra i tanti numeri che illuminano il disastro, uno risplende su tutti. Circa il 70 per cento dell’economia americana (ma non solo quella) si basa sugli acquisti della classe media. Sono i nostri soldi a far girare il mondo. Spesi per comprare casa, cibo, vestiti e il resto. Se quel fiume si prosciuga, si ferma tutto. Il concetto, apparentemente elusivo nelle situation room della troika europea, non sfugge invece a Robert Reich. Il docente di politiche pubbliche all’università di Berkeley, ex ministro del lavoro di Clinton e public servant già ai tempi di Ford, lo declina in ogni modo in Inequality for All. Il documentario, che ha già vinto il premio speciale della giuria al Sundance, potrebbe fare per la diseguaglianza economica ciò che Una verità scomoda ha fatto per il riscaldamento climatico. Ovvero accendere la consapevolezza dell’opinione pubblica. Non ancora una soluzione, però un inizio.
Il confronto rispetto al film con Al Gore è inevitabile. Anche qui si tratta di una lezione arricchita, smussata e tirata a lucido negli anni. Molto densa, ma non per questo meno chiara. E se il protagonista di ieri assestava un’unica battuta memorabile («ero solito presentarmi come il prossimo presidente degli Stati uniti»), quello di oggi ne inanella a raffica, dal «sospettavo da tempo di essere nella shortlist dell’Amministrazione» a «volete dire che vi do l’idea del Big government?!? E dai» (Reich, affetto dalla malattia di Fairbank, è alto 1 metro e 48). La sua autoironia si propaga per il film, scaldando una materia che rischiava di risultare gelida, oltre che oggettivamente deprimente. Riassumibile così: perché, dalla fine degli anni 70 a oggi, abbiamo cominciato a stare peggio tutti tranne l’1 per cento più ricco della popolazione? La domanda ultima alla quale il professor Reich si incarica di rispondere. In tre atti.
Primo atto: cos’è successo? La polarizzazione tra (sempre più) ricchi e (sempre più) poveri è una malattia raccontata per sintomi. Per cominciare, i 400 americani più ricchi hanno da soli un patrimonio pari a quello della metà più povera della nazione. L’unica altra volta in cui l’1 per cento deteneva il 23 per cento della ricchezza era il 1928. L’anno dopo è arrivata la Grande Depressione. E in Germania ha coinciso con l’ascesa di Hitler. Se credete ai ricorsi vichiani della storia, c’è poco da stare tranquilli. Dopo i grafici, le storie. Tipo quella della famiglia Vaclav, lei cassiera alla catena Costco, con giusto 25 dollari sul conto. Sono middle class piena, quelli che prendono tra i 25 e 75 mila dollari l’anno, prima una garanzia ora un pianto. Mentre Nick Hanauer, industriale e venture capitalist, è il campione anomalo dell’1 per cento (dai 380 mila dollari in su), con un imponibile variabile tra i 10 e i 60 milioni di dollari. Mostra le sue auto, la sua bella casa, ma poi si arrende: «I ricchi, per quanto spendono, non possono farlo abbastanza per tutti. Così i loro soldi in eccesso finiscono nei fondi, alimentando la domanda di investimenti sempre più complessi». E pericolosi. Che vanno a gonfiare quelle bolle che, quando poi scoppiano, le pagano soprattutto i contribuenti. Nella paradossale versione di un capitalismo vizioso che privatizza i guadagni e socializza le perdite. Quello che il Nobel Joseph Stiglitz ha battezzato «socialismo per ricchi».
Secondo atto: perché è successo? La data dello strappo, il momento in cui gli aumenti dei salari hanno cominciato a non stare più al passo con quelli della produttività, è il 1979. Reich ne spiega le cause. Le industrie hanno scoperto la delocalizzazione: abbassano i costi fissi andando a produrre in Cina. La deregulation reaganiana non solo glielo lascia fare, ma ingaggia una lotta dura contro i sindacati (tristemente celebre la precettazione degli uomini radar). Meno sindacati uguale stipendi più bassi. Ma i motivi principali della divergenza restano globalizzazione e tecnologia. Il professore mostra un grafico del valore di un iPhone, orgogliosamente concepito in California: solo il 6 per cento resta negli Stati uniti, il 3 per cento va in Cina (per l’assemblaggio) mentre i bocconi più grossi finiscono in Giappone e Germania, fornitori di componenti importanti. Per quanto riguarda la new economy, la discontinuità rispetto al passato è profonda. Amazon, con tutti i suoi automatismi informatici, impiega 60 mila persone per generare un fatturato da 70 miliardi di dollari. Fosse stata un’azienda tradizionale avrebbe avuto bisogno di 600 mila persone per produrre altrettanta ricchezza. «Non andare alle casse self-service», rivendica Reich, «è un gesto politico» perché sancisce la non dispensabilità dell’essere umano che prima faceva i conti e vi dava il resto. In competizione con i robot, un adddeto ai macelli che prendeva 40 mila dollari ora si deve accontentare di 24.
Terzo atto: come se ne esce? Dagli anni ’80, complici le crisi energetiche, investire nelle industrie diventa meno sexy. Chi ha capitali li sposta sulla roulette finanziaria: soldi che producono soldi. Ancora una volta la politica favorisce il traferimento, detassando i capital gain. Più vanno giù le tasse, tipico strumento di ridistribuzione, più cresce la diseguaglianza. Una lunga caduta che va dall’aliquota svedese di Eisenowher (90 per cento), al 77 di Nixon, al 50 e poi 28 di Reagan, sino alla timida risalita (35) di Obama. Che però non evita il paradosso denunciato da Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo: «Io pago il 17 per cento, mentre la mia segretaria Debbie il doppio. Non è giusto». Gli danno del comunista per questa necessaria constatazione. Non lo è affatto, e neanche Reich, che lo ripete da decenni: «Io sono rimasto un moderato, è lo sfondo politico che si è spostato». Una confessione che tanti, anche da noi, sottoscriverebbero. L’ultima nota è sul fattore istruzione. Negli anni 60 Berkeley era gratuita. Ora costa circa 15 mila euro all’anno (ed è una delle più economiche). Più la gente è istruita, più l’ineguaglianza scende. Però più costa l’università, meno la gente la frequenta. E l’unico modo per tenere basse le rette è sussidiarle con le tasse. Che da Reagan a Berlusconi sono la bestia nera di ogni populismo. Un calcolo sbagliato, prima ancora che cinico. «La società» ricorda Reich «non è un gioco a somma zero. Anche i ricchi stanno meglio quando i meno ricchi comprano».
Dimenticate l’austerity. Fate studiare i figli della classe media. Fate spendere i loro padri. Costi quel che costi.
Già pubblicato sul Venerdì di Repubblica