Sul Movimento 5 stelle “di destra o di sinistra”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro Gilioli
Fonte: L'Espresso
Url fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/06/13/finche-a-questa-domanda/

di Alessandro Gilioli – 13 giugno 2016

Finché a questa domanda

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Queste cose chi ha la bontà di seguirmi forse le ha già un po’ lette in giro. Le pubblico qui come contributo al rinnovato dibattito – in questa vigilia elettorale – sul Movimento 5 stelle “di destra o di sinistra”.

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«Non è di sinistra l’acqua pubblica? Non è di sinistra la raccolta differenziata? Non sono di sinistra tutte le altre cose che proponiamo? Non sono tutte cose condivise dai ragazzi e dalla base del partito democratico? Quando abbiamo fatto il V-day, perché quelli di sinistra non si sono impossessati delle nostre idee? Ho provato perfino a iscrivermi al Pd per andare al loro congresso e portare il nostro programma! Le ho tentate tutte, anche violentandomi in una sezione del Pd ad Arzachena per farmi dare la tessera. Niente, non vogliono ascoltare. Vogliono solo parlare tra loro. Adesso basta. Adesso abbiamo la forza per fare alcune cose da soli».

È in un’intervista del 2012 a Gian Antonio Stella del “Corriere della Sera”, pubblicata sul magazine “Sette”, che Beppe Grillo sostiene di aver provato a cambiare la politica attraverso la sinistra – e il suo maggior partito – prima di decidersi a mettersi messo in proprio con il Movimento 5 Stelle.

In quell’intervista Grillo si riferisce a una fase particolare del proprio percorso: quando nel luglio del 2009 il comico genovese prova a candidarsi alle primarie democratiche (quelle che poi vedranno vincitore Bersani) ma viene respinto in quanto «ispira e si riconosce in un movimento politico ostile al Pd», come scrive la commissione di garanzia del partito. Un rifiuto a cui Grillo replica sostenendo che «il movimento è ostile a un gruppo ristretto di persone, non certo verso chi vota o verso l’insegnamento di Berlinguer».

Baruffe vecchissime, ormai. Che tuttavia possono aiutare a capire la natura ibrida del M5S e la sua contaminazione non occasionale con la sinistra italiana: con pezzi della sua storia, dei suoi valori, del suo elettorato. Pezzi che ci sono ancora, anche tra gli eletti in Parlamento, accanto a culture e persone di provenienza opposta e nonostante lo stesso Grillo abbia non solo ripetuto infinite volte che il M5S “non è né di destra di sinistra”, ma abbia anche pronunciato frasi urticanti per chi viene da sinistra, come quella celebre: «l’antifascismo è un problema che non mi compete» (febbraio 2014).

Tecnicamente Grillo ha ragione, sulle origini: il lancio ufficiale del Movimento 5 Stelle, come tale, avviene nell’ottobre del 2009, quindi tre mesi dopo il suo tentativo di correre alle primarie del Pd. Il “partito” di Grillo aveva però iniziato a generarsi molto tempo prima: è del 16 luglio 2005 il post intitolato “incontriamoci” in cui il comico lancia l’idea dei meet up «per dare a tutti coloro che seguono il mio blog l’opportunità di incontrarsi, discutere, prendere iniziative, vedersi di persona», ma anche «divertirsi, stare insieme e condividere idee e proposte per un mondo migliore. E discutere e sviluppare, se si crede, i miei post».

È poi dell’8 settembre 2007 il primo V-day per lanciare la campagna Parlamento pulito, con tre proposte di legge per il divieto di candidatura in Parlamento per i condannati, per il limite dei due mandati e per modificare il Porcellum introducendo il voto di preferenza: un evento che ha il suo cuore a Bologna ma che mobilita decine di migliaia di persone in molte città d’Italia, seguito da una seconda edizione nell’aprile del 2008. Ed è di quegli stessi anni la nascita delle prime liste locali, che di solito si chiamano “Amici di Beppe Grillo” e si presentano alle amministrative raccogliendo piccole percentuali: il 2,75 nelle comunali di Roma del 2008, ad esempio, o l’1,72 alle regionali siciliane dello stesso anno.

Ma ancora nel settembre del 2010, nella “Woodstock a Cinque Stelle” che si tiene a Cesena, attorno a Grillo si muove un popolo radicato in alcune delle visioni della sinistra, o almeno di una sua parte, dai temi ambientali a quelli sociali. E mentre i grandi media si soffermano solo sulle parole di Grillo dal palco, un gruppo di documentaristi chiamato Officine Tolau prova per la prima volta a raccontare il suo popolo, in un cortometraggio commissionato proprio dal Forum nuovi linguaggi del Partito democratico: mezz’ora di interviste, nel campeggio e tra le bandiere con l’immagine di Bob Marley, a quelle ragazze e a quei ragazzi che «coltivano un sogno rivoluzionario e immaginano un mondo nuovo», mentre «per il Pd non ci sono più parole», «non dice più cose di sinistra», «non fa niente per il bene del popolo», «mi sa tanto di Democrazia cristiana», «ha come unico riferimento i salotti», e poi «prima votavo Ulivo ma era come stare con il meno peggio», «sono tutti collusi con mafia e camorra», insomma qui «ci vuole un cambiamento vero», perché «non ne possiamo più di questo turbocapitalismo che sbrana tutto». E così via.

Poi, nel 2013, arrivano gli eletti, i parlamentari.

Poco prima delle elezioni il sito Openpolis ripropone un suo vecchio cavallo di battaglia, chiamato “Voi siete qui”: ciascun utente è invitato a rispondere a una quantità di domande sui temi più citati nei programmi delle diverse liste: dalle questioni economiche ai diritti civili, dalla politica fiscale a quella estera. Dopodiché un software, impostato appunto su quei programmi politici, gli rivela qual è il partito a lui più vicino. Un giochetto, ma anche un modo per orientare l’elettore al netto delle simpatie o antipatie di pelle. Il settimanale “l’Espresso”, nella sua versione on line, si diverte allora a sottoporre al questionario alcuni candidati di diverse forze politiche, tra i quali il futuro capogruppo al senato del M5S Vito Crimi: il quale, curiosamente, risulta più vicino a Sel che al suo stesso Movimento.

Paradossi degli algoritmi, certo, ma fino a un certo punto. Perché lo stesso Crimi ammette che prima di essersi avvicinato al movimento di Grillo aveva «votato un po’ di tutto a sinistra: Verdi, Rifondazione, Italia dei Valori». Oggi, aggiunge, «penso che quella parola si sia completamente svuotata, ma condivido ancora la maggior parte delle idee che provengono dalla sinistra: la distribuzione del reddito, la solidarietà, il senso di comunità solidale.Quello che non mi piace della sinistra non sono le idee: è l’approccio. Sto parlando della tendenza di creare sempre degli steccati ideologici: chi è dentro è buono chi è fuori è cattivo».

Anche Federico D’Incà, deputato e per un periodo capogruppo “a rotazione”, rivela di aver votato prima del M5S «tutto quello che non è area berlusconiana, tra cui Radicali e Idv», per poi aggiungere che però «adesso ho capito che destra e sinistra sono formule superate». Così come la collega Azzurra Cancelleri: «Ho votato spesso l’Idv, una volta sola anche il Pd: ma è per tutti noi un passato che si è concluso».

Più marcatamente di sinistra è il passato di  Mario Michele Giarrusso, che in Sicilia è stato tra i fondatori del Movimento per la Democrazia – La Rete e animatore di tante battaglie ambientaliste prima di candidarsi nella lista Amici di Beppe Grillo, nel 2008. Oggi dice che «della sinistra non è rimasto più nulla, è stata liquidata», perché «si è schierata a difesa di un’Europa targata neoconservatorismo, turbo capitalismo, teoremi americani che sono diventati armamentario ideologico dell’Europa».

Ha un passato invece di matrice cattolica-terzomondista Alessandro Di Battista, il più mediatico dei grillini, che in passato ha «votato anche Bertinotti» ma oggi si considera rinsavito: «Sapete cosa detesto della destra? L’individualismo, quel concetto che prima vengo io e poi gli altri. Sapete cosa detesto della sinistra? L’idea che occorra, per forza, una classe dirigente.
 Ma dove sta scritto? Detesto la destra per la paura che ha del diverso, una paura puerile, la mia identità nasce e cresce grazie all’alterità, grazie al diverso. Della sinistra detesto (soprattutto in quella italiana, la peggiore del mondo) quel desiderio di ergersi a paladini della morale, come se la morale fosse esclusivamente quella loro. Io ci sono nato in mezzo all’ideologia, alla logica del partito preso, all’essere ultras senza se e senza ma di una dottrina politica. Beh, ne sono uscito».

Di Battista, si sa, è figlio di un imprenditore orgoglioso di essere fascista. E anche Roberta Lombardi proviene da una famiglia di destra: racconta che in casa era «considerata una ribelle perché non accettavo quegli insegnamenti», anche se poi nella vita ha votato scheda bianca o nulla, fino alla nascita del M5S. Il suo primo avvicinamento alla politica del resto è avvenuto in modo un po’ particolare: «È stato nel ’93, dopo l’omicidio di Falcone e Borsellino, quando facevo l’ultimo anno di liceo. Ero tra i tanti studenti rimasti scioccati da quegli attentati e da clima di fallimento nella lotta alla mafia. Insomma, abbiamo fatto delle manifestazioni spontanee e, devo dire, molto sentite. Un giorno eravamo in corteo davanti a Montecitorio quando Ferdinando Imposimato, che allora era parlamentare del Pds, ci aprì le porte del palazzo e ci fece entrare nell’auletta gruppi, dove arrivarono per parlarci un bel po’ di onorevoli. Ecco, fu un’esperienza disgustosa: tutti cercavano di fare opera di cooptazione verso noi ragazzi, di carpire il nostro consenso. Mi sembrava di sentire i loro tentacoli. Uscendo dalla Camera, decisi di non interessarmi mai più di politica in tutta la mia vita. Cambiai idea solo 15 anni dopo, nel gennaio 2007, leggendo il blog di Grillo e scoprendo che parlava delle cose “vere”, quelle che riguardano le persone e non quelle su cui litigavano nei talk-show: l’energia, l’ambiente, l’inquinamento, la partecipazione dei cittadini sulle scelte che impattano sui territori ma anche le condizioni dei giovani, il precariato». È così che Lombardi decide di iscriversi a un meet-up romano e nel settembre successivo contribuisce a organizzare il V-day nella capitale, al Parco Schuster.

Un altro deputato, Davide Tripiedi, classe 1984, nato a Desio, è un po’ l’emblema della classe operaia passata al M5S: ex idraulico (faceva impianti e sanitari nelle aziende e nelle case della Brianza), il padre è un ex operaio anche lui, alla Cooperativa Posatori e Selciatori di Milano; la madre infermiera all’ospedale San Gerardo di Monza; il fratello sindacalista alla Fillea Cigil. Tripiedi ha iniziato a lavorare subito dopo la terza media come apprendista, nella stessa piccola azienda dove poi è stato assunto. Ultima busta paga prima di entrare in Parlamento: 1.180 euro. «Non ho mai fatto attività politica, prima del Movimento», racconta, «ma votavo Pd. Pure alle primarie, sono andato», aggiunge ridendo, come se parlasse di un errore di gioventù. E poi: «Quando sono entrato a Montecitorio per la prima volta e mi hanno identificato, sono scoppiato a piangere. Ho pensato: ma allora è possibile che grazie al Movimento una persona comune arrivi qui dentro! Persone che fino al giorno prima stavano nel mondo reale, quello in cui si fatica ad andare avanti, all’improvviso diventavano deputati. Sembrava un miracolo».

L’onorevole-operaio Tripiedi nel 2002, a 16 anni, era in piazza con il papà nella manifestazione dei tre milioni al Circo Massimo contro la modifica dell’articolo 18 e vede la politica come «uno strumento di inclusione dei deboli», perché la sua critica al Pd si basa sul fatto «che ha tradito i suoi ideali, è ipocrita perché ai suoi elettori dice una cosa e nei palazzi ne fa un’altra». E poi: «Ma come fanno in tanti a crederci ancora? Ma come fanno le persone di sinistra a votare ancora Pd dopo la legge Fornero, dopo il fiscal compact, dopo il decreto Poletti, dopo il Jobs Act? Ma lo vedono cosa fanno i loro rappresentanti dentro il Parlamento? Capisco l’attaccamento affettivo, specie nei più anziani, ma basterebbe che vedessero cosa fanno».

Tripiedi si definisce «più un rivoluzionario che un riformista», però aggiunge che oggi gli obiettivi di emancipazione delle persone «non passano più per la lotta di classe, ma attraverso l’informazione e la partecipazione dei cittadini, che venendo a sapere come stanno realmente le cose e impegnandosi direttamente possono cambiarle: ad esempio, sui profitti mostruosi dell’economia finanziaria, sulla redistribuzione delle ricchezze, sulla precarizzazione, sullo sfruttamento, sulle devastazioni ambientali». Tra le sue priorità politiche, Tripiedi considera fondamentali «il salario minimo e il reddito di cittadinanza, perché deve finire il ricatto del lavoro, dei licenziamenti, della precarietà: lo Stato dovrebbe essere come un padre che aiuta un figlio quando si trova in difficoltà». Obiettivi, dice, da finanziare «con i tagli alle spese militari e agli sprechi della politica, con una tassazione vera della finanza, con lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, che ci costa miliardi». Alle Quirinarie del 2013 ha votato Gino Strada, perché «si impegna in cose meravigliose in giro per il mondo».

Anche Claudio Cominardi prima di diventare un onorevole pentastellato faceva l’operaio: in una officina meccanica di Castrezzato, provincia di Brescia, a pochi chilometri da Palazzolo sull’Oglio, dov’è nato nel 1981. E anche lui ha iniziato a lavorare a 15 anni, frequentando poi le scuole serali per arrivare al diploma: «Era durissima, ma mai fatta un’assenza, in due anni. Tornavo a casa a pezzi». Figlio di un muratore e di una casalinga, Cominardi ha iniziato a interessarsi di politica da ragazzino («mio fratello in tv guardava i cartoni animati, io i dibattiti») avvicinandosi quindi alle iniziative di Qui Milano Libera, l’associazione creata dal blogger Piero Ricca che invitava alle sue conferenze magistrati, giornalisti e intellettuali. È un fan dell’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, così come gli piaceva quello venezuelano Hugo Chávez («uno che veniva dal popolo e che era vicino al popolo, nonostante quello che dice la campagna mediatica degli Stati Uniti») e continua a tifare per quello ecuadoriano Rafael Correa «che si è battuto contro le imposizioni del Fondo monetario e della Banca mondiale». Il suo vero mito però è Thomas Sankara, il “Che Guevara africano”, primo presidente del Burkina Faso ucciso nel 1987 perché si opponeva all’imperialismo americano e francese.

«Io non sono contro l’economia di mercato, sono contro il neoliberismo avido che si mangia tutto, che divora la terra e le nostre vite», dice Cominardi.

Per quanto riguarda il lavoro in fabbrica, pensa che il modello giusto sia quello di Adriano Olivetti, fondato sulla comunità e sull’equilibrio tra solidarietà e profitto («una cosa che la cosiddetta sinistra si è dimenticata», dice) mentre più in generale si considera un ammiratore di Serge Latouche e delle sue teorie sulla decrescita felice, perché «le risorse del pianeta non sono infinite e noi esseri umani non siamo soltanto macchine di produzione e consumo». Una battaglia mondiale di lungo termine, questa, per la quale Cominardi considera il M5S un’espressione politica simile «a quella di Occupy Wall Street o degli Indignados spagnoli, ma con più continuità e con la presenza delle istituzioni». Alle Quirinarie, prima di scegliere Gino Strada, Cominardi aveva proposto il nome di Silvano Agosti: regista, scrittore, autore tra l’altro di “Lettera dalla Kirgizia”: «Un libro che ho amato moltissimo», dice, perché «racconta il miracolo di un Paese a misura d’uomo, dove nessuno lavora più di tre-quattro ore al giorno, dove si è arrivati a riscoprire l’importanza del tempo dedicato alla creatività, agli affetti, insomma alla vita». Già, “liberarsi dal lavoro”: un vecchio slogan della sinistra sessantottina che qui sembra riaffiorare in una declinazione postindustriale.

Ma questi sono solo alcuni degli eletti M5s e non mancano quelli di cultura e provenienze diverse. il Movimento 5 Stelle non è “né di destra né di sinistra”, perché è così che dice di essere e così ripetono gli iscritti e gli eletti. E il “superamento” delle due “categorie del Novecento” è sempre rimarcato dallo stesso Beppe Grillo, che tuttavia nei suoi comizi ripete spesso una battuta che non indica proprio una simmetrica equilontananza: «Il comunismo era un’idea bellissima che non ha funzionato, il capitalismo invece non è applicato male: fa schifo così com’è». E forse ha solo valore mediatico, più che simbolico, il fatto che sia nel 2013 sia nel 2014 Grillo abbia chiuso la sua campagna elettorale in piazza San Giovanni, a Roma, il luogo storico delle manifestazioni della sinistra, dove nel 1984 fu salutato da una massa enorme di persone Enrico Berlinguer. Quel Berlinguer di cui «il M5S è l’unico erede» secondo Giuseppe Zupo, che del segretario Pci fu collaboratore come responsabile nazionale della giustizia. Quel Berlinguer il cui nome viene urlato dalla folla all’ultimo comizio del Movimento prima delle europee, la sera del 23 maggio 2014, nella stessa piazza in cui si celebrò il suo funerale.

Ma aldilà di ogni piazza e di ogni parere, forse quello che serve è rovesciare il cannocchiale e quindi la prospettiva, parlando degli elettori più che dei vertici: e così facendo diventa difficile negare che nel M5S sia finito anche (anche) un bel pezzo della diaspora della sinistra. Lo dimostrano non solo i nomi usciti dalle Quirinarie del 2013 (da Rodotà a Strada, da Zagrebelsky a Prodi, da Fo a Imposimato) ma anche le ricerche demoscopiche sugli elettori di Grillo: secondo il Barometro Politico realizzato da Demopolis nell’aprile del 2013, ad esempio, «il 30 per cento di loro si colloca nella sinistra contro un 22 per cento che si sente di destra e un 45 che non si schiera in nessuna delle due aree politiche tradizionali».

Molto simili gli esiti di un altro sondaggio condotto da Swg: il 36 per centro di chi vota M5S si considera di sinistra o di centrosinistra, solo il 22 di destra o centrodestra, il 9 al centro, il 39 al di fuori di questo schema.

Insomma forse ha un po’ ragione Landini, il segretario Fiom: «Il problema di fondo è la sfiducia degli elettori di sinistra nei confronti della rappresentanza che si dice di sinistra. Se io sono un precario e rimango precario con i governi di centrodestra o di centrosinistra, perché devo sentirmi rappresentato da uno dei due? Se io sono un lavoratore dipendente e il mio salario si abbassa sia con Berlusconi sia con Prodi, non è normale che io finisca per guardare altrove, vuoi all’astensione vuoi al Movimento 5 stelle? Se nessuna delle due aree tradizionali rappresenta i miei interessi e io mi ritrovo da solo, che cosa posso fare alle urne se non disertarle o votare per un’area diversa?». Continua Landini: «In più il M5S ha offerto anche in termini di presenza e di partecipazione dei luoghi che le forme tradizionali della politica hanno abbandonato: non solo la Rete, ma tutte le iniziative che fanno sui territori. Insomma, piaccia o no, risponde a una domanda genuina di partecipazione».

Allora forse la domanda non è se il Movimento 5 Stelle “sia di destra o di sinistra”, ma semmai se in Italia gli elettori potenzialmente di sinistra – quelli che negli Usa stanno con Bernie Sanders e in Spagna con Podemos, per capirci  – pensano di ottenere o meno una rappresentanza elettorale vicina ai loro ideali e ai loro obiettivi quando votano M5S.

O, più concretamente ancora, se ne pensano di ottenerne almeno un po’: e in misura comunque superiore rispetto a chi vota i partiti che invece rivendicano la propria appartenenza alla sinistra.

Finché a questa domanda alcuni milioni di elettori di sinistra risponderanno di sì, non si rimarginerà quel grande pezzo di diaspora confluito verso il M5S.

Se mai ciò accadrà.

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