Trump e Pepe Mujica, due mondi capovolti: il giorno e la notte

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Pino Corrias
Fonte: Il Fatto Quotidiano

Trump e Pepe Mujica, due mondi capovolti: il giorno e la notte

Due mondi abbiamo in cronaca, distanti come il giorno e la notte. Il mondo di Pepe Mujica, l’ex presidente dell’Uruguay che governò per cinque anni in nome della giustizia, dell’onestà, della condivisione del bene comune, compreso quello del suo stipendio, devoluto al 90 per cento ai poveri. E il mondo di Donald Trump, il miliardario sempre affamato di altri miliardi, che governa l’America e il mondo imbracciando armi, dazi, minacce. Che promette la felicità attraverso i consumi e l’identità attraverso il potere. Che odia lo Stato sociale, pensa che Dio premi i devoti con la ricchezza e punisca gli infedeli con la pena della povertà.

L’altroieri Pepe è morto a 89 anni nel suo casolare di tre stanze alla periferia di Montevideo. “Me ne sto andando, il mio corpo è sfinito, il guerriero ha bisogno di riposo”, salutando Lucia, da 49 anni sua moglie, e qualche compagno che aspettava in cortile, dove fiorisce l’ibisco, accanto al vecchio Maggiolino che Pepe ha guidato anche quando era presidente. Diecimila chilometri più in là, nelle stesse ore, The Donald danzava scintillando lungo i saloni dorati, le fontane e gli arcobaleni artificiali di Bin Salman, il sultano di Riad, tra altri maschi miliardari: banchieri, finanzieri, industriali, a firmare accordi strategici da 600 miliardi di dollari, forse mille, forse 3 mila, per armi, petrolio, satelliti, Intelligenza artificiale. Ognuno per ingrassare la propria Golden Age. E parcheggiate là fuori, lungo l’ombra della reggia, cento auto blindate con autisti, scorte, televisioni planetarie.

Pepe Mujica è stato contadino, guerrigliero nelle file marxiste dei Tupamaros, detenuto per 15 anni in isolamento, uscito senza rancore, con parole di pacificazione per l’Uruguay, che lo ha eletto presidente dal 2010 al 2015. Il primo discorso pronunciato al suo insediamento è stato sul diritto alla felicità: “Io devo lottare per migliorare la vita delle persone. Non farlo è immorale”. E contro il suo nemico assoluto, il consumismo: “Veniamo al mondo per tentare di essere felici, perché la vita è corta e non torna. Ma se il nostro tempo lo impieghiamo lavorando e lavorando per consumare cose che durano poco, se ne va la vita. Fate attenzione, le cose non le compriamo con i soldi, ma con il tempo della vita, l’unica cosa che non possiamo comprare”.

Trump è nato miliardario e tutta la sua avventura l’ha misurata in soldi, consumi, conquiste. Con gli stessi ingredienti ha fabbricato il trionfo della sua politica, che procede con le spallate, le minacce, la sfida, lungo la diagonale che divide il mondo in amici e nemici. In furbi e idioti. In paesi che non vogliono sottomettersi al suo volere e ai benemeriti che “vengono a baciarmi il culo”.

Pepe parlava e operava contro un mondo che cresce nella ingiustizia, nella diseguaglianza, nei conflitti, imprigionato dalla religione del denaro che distorce tutto, moltiplicando il numero degli esclusi: “Viviamo in un mondo nel quale si crede che chi trionfa debba possedere tanto denaro, avere privilegi, una casa grande, tanti servitori. Mentre io penso che questo modello vincente sia solo un modo idiota di complicarsi la vita. Penso che chi la passa ad accumulare ricchezze, sia malato come un tossicodipendente, andrebbe curato”. Trump pensa l’esatto contrario, la ricchezza è lo scopo della vita. Bisogna afferrare tutto quello che desideriamo, come il regalo appena incassato dal Qatar, un Boeing 747 da 400 milioni di dollari, con undici bagni dove sedersi comodamente per pisciare in testa al mondo. Specie su quello immaginato da Pepe Mujica, il suo mondo capovolto, al quale aveva dedicato la proposta di legge “delle cinque libertà” – dalla fame, dalla sete, dal dolore, dalla paura, dalla costrizione – coltivata fino all’ultimo, come i fiori rosa che da ieri gli sopravvivono in giardino.

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