Fonte: La stampa
Provo a immaginare i giovani ucraini, dai venticinque ai ventisette anni, che un decreto di Zelensky ha appena arruolato per il fronte. In breve tempo, le trincee sono sguarnite a Est e occorrono uomini perché incombe una offensiva russa che da lenta, metodica potrebbe farsi incalzante, anche loro strisceranno carponi nella terra soffice di primavera che sussulta e trema in sorde convulsioni; loro che non hanno alcuna esperienza di guerra studieranno febbrilmente ogni albero che tende verso il cielo rami spogli, secchi e nudi come le braccia di un morto, ogni ondulazione del terreno di quel piccolo tratto di destino che per loro è diventato il pianeta intero, il principio e la fine.
Hanno salutato madri sorelle fidanzate come marinai che partono per una grande traversata. Quando erano a casa, lontano dal fronte, e speravano che la guerra finisse prima di arrivare fino a loro così giovani, leggevano le notizie di reparti che si gettavano all’assalto inseguendo i russi ridotti a combattere con i badili, di carri armati micidiali forniti dagli occidentali che spazzavano il nemico, delle divisioni che si incuneavano, dilagavano, resistevano. Impareranno subito che nella guerra, in tutte le guerre, questo è molto raro, la battaglia è solo un movimento spasmodico, lento, da una chiazza di silenzio ad un’altra chiazza di silenzio. Combatteranno contro altri uomini invisibili che sono individuati e distrutti con astrazioni della matematica, una scienza figurata. E anche a loro può toccare lo stesso destino.
Scopriranno che quello che hanno letto da due anni sull’andamento della guerra e sui suoi possibili sviluppi, la riconquista delle terre rubate dai russi, le controffensive fino al confine del 2014 forse oltre chissà, erano propaganda perché quasi nulla può essere dimostrato o negato nel regno della tattica e della strategia. La scienza militare di cui tanti si pavoneggiano sui due lati del fronte non è una scienza, solo un genere grossolano di mestiere della morte.
Quella che doveva essere un conflitto di materiali, di tecnologie, di modernità omicida si deciderà dunque sulla matematica più brutale e preistorica, il numero di uomini che si possono gettare nella mischia. Chi ne ha di più vince. E qui Zelensky è in difficoltà, perché Putin può spargere e sacrificare nelle trincee molto più materiale umano.
I nomi di piccoli villaggi che forse le reclute venticinquenni avevano letto su qualche carta o che conoscevano perché vi abitavano lontani parenti del Donbass, che fino ieri non dicevano loro niente, sono diventati per loro e per chi a casa attende notizie, più vicini di quelli in cui sono nati. Ogni strada, ogni angolo anche quelli polverizzati dalle bombe, lì hanno, ora che sono in uniforme, una ricchezza intima, indistruttibile.
In fondo che cosa è stato? Soltanto alcune firme su un documento burocratico, tracciate con il bellissimo distacco proprio di coloro che trattano con la morte senza correre alcun pericolo. Al Cremlino avviene lo stesso, uno scarabocchio del presidente e decine di migliaia di ragazzi vanno a scoprire che la guerra vera è più smorta, più impastata di paura, malinconia, orrore di quella che avevano immaginato. Combattere dalla parte giusta una guerra di sopravvivenza non salva dall’avere l’immaginazione popolata di fantasmi mentre marci verso i pantani del Donbass e solo dio sa fino a quando; e sogni un giaciglio dove ricoverarsi gettandosi sulla paglia come bruti. Dove perfino gli eroi, (ma esistono gli eroi? Bisognerebbe chiedere a loro cosa ne pensano ma non è possibile), sono ammazzati senza gloria, senza sapere da chi, senza vedere nulla, in una casualità di forze oscure.
Nelle prossime settimane i richiamati incroceranno i compagni che sono in linea da più tempo, quelli che sono sopravvissuti ad avanzate inutili e ritirate senza senso. Li guarderanno e si scambieranno poche parole…attenti a quel pezzo di strada è battuto dall’artiglieria…non contate sugli aerei, i nostri non si vedono mai…Ci sarà il sottinteso noi siamo vivi per miracolo voi potete morire tra pochi istanti. E lo diranno con il tono con cui si dice fra poco pioverà.
Erano studenti operai disoccupati. Erano. Ora un altro frammento di una generazione ucraina (e russa) che va a scoprire che il senso della vita è nel muoversi attraverso uno spazio colmo di pericoli fino a quando la morte non svelerà il suo gigantesco arsenale.
Sono notizie come queste che dopo più di due anni, santo dio due anni! scoperchiano dietro propaganda e gesuiterie, i piccoli capolavori di illusionismo a uso interno, che cosa è la guerra: mancano gli uomini non le armi o le munizioni, gli uomini. Perché troppi sono già morti. Una generazione di giovani nel cuore dell’Europa, pezzo dopo pezzo, richiamo dopo richiamo, viene spazzata via come le foglie nelle bufere d’inverno, diventa file di nomi ben allineati nei cimiteri. A poco a poco le bandierine patriottiche messe per ricordare gli eroi ingialliranno sotto il sole o la pioggia, resterà solo per vincitori e vinti l’enorme rimorso del silenzio.
Invece di perdere tempo a seguire le previsioni di sciagurati santi apostoli della vittoria (ma come? E quando?) o a preoccuparci delle munizioni dovremmo pensare alle colpe che abbiamo anche noi, non solo l’aggressore Putin, verso questi uomini. Tutto quello che abbiamo saputo garantire loro, noi che saremmo l’incarnazione incomparabile del principio di universalità e libertà, è stato il contrario di quella fine della Storia felice, perfino opulenta, fatta di consumi e ossequienti robot e intelligenze artificiali che avevamo promesso al mondo. Invece: una fine della Storia crudele, senza scampo, da cavie, in cui da due anni non si riesce a farla finita con i morti. I morti non si contano perché i loro numeri non facciano orrore, perché non scoppi lo scandalo che non ce ne sono più da sacrificare. Morti che vivono accanto e perseguitano i vivi e ricordano a noi, fino a quando non dovremo a nostra volta colmare i vuoti nelle trincee, i nostri debiti non saldati. Che non sono le munizioni.