di Livio Ghersi 10 maggio 2019
In Sicilia, come a Napoli, come penso in genere nel Meridione d’Italia, c’è un proverbio che, nella sua traduzione italiana, suona così: “la miglior parola è quella che non si dice”. Non dire, per non giudicare, per non muovere critiche ad altri, per non scoprire il proprio pensiero, per non schierarsi laddove prendere partito potrebbe essere pericoloso. Insomma, la logica del farsi i fatti propri e campare tranquilli.
La predetta logica non può essere condivisa da chi pensa, invece, che i convincimenti ideali abbiano valore soltanto se ci sono persone in carne ed ossa disposte a manifestarli e difenderli nel dibattito pubblico. Un dibattito pubblico libero e partecipato è ciò che anima un sistema democratico liberale. L’emergere del conflitto delle opinioni, degli interessi, degli ideali, è cosa buona e santa, dal punto di vista liberale. Perché proprio confrontando le argomentazioni portate a sostegno delle diverse tesi in contrasto, ogni singolo cittadino può maturare il proprio orientamento, con chiara consapevolezza dei vantaggi e degli svantaggi che ciascuna proposta in discussione comporta.
C’è però una questione di metodo, che dal punto di vista liberale, riveste un’importanza fondamentale: chi interviene nel dibattito pubblico deve concentrarsi sulle argomentazioni che intende spendere a supporto delle proprie tesi, sforzandosi di trovare le formulazioni migliori, più intelligenti, più efficaci. Non deve, invece, essere aggressivo, verbalmente violento, nei confronti di chi esprime opinioni differenti. L’insulto personale, il turpiloquio, le volgarità, degradano chi se ne serve e squalificano i convincimenti ideali che egli intenderebbe sostenere. Il dialogo sarà tanto più proficuo ed interessante quanto più avrà un tono civile: conflitto ideale sì, ma nel pieno rispetto reciproco fra i contendenti. Bisogna imparare a dissentire, mantenendo la capacità di riconoscere i meriti, la solidità culturale, l’onestà intellettuale, dell’avversario, quando abbia tali requisiti.
Ci sono molte vie che portano al liberalismo. I pensatori inglesi e francesi sono stati storicamente importanti, ma non bisogna trascurare, né sottovalutare, il pensiero italiano. Consideriamo quello che potrebbe essere considerato un pensatore minore e che, invece, in rapporto alla sua giovane età, era un autentico genio: Piero Gobetti (1901-1926). Nel libro “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia“, pubblicato nel 1924, Gobetti scriveva con mirabile sintesi quanto finora ho cercato di spiegare riguardo alle caratteristiche del metodo liberale: «Il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e unanimità: il vizio storico della nostra formazione politica consisterebbe nell’incapacità di pesare le sfumature e di conservare nelle posizioni contradditorie un’onesta intransigenza suggerita dal senso che le antitesi sono necessarie e la lotta le coordina invece che sopprimerle» (Si veda “Scritti politici” di Gobetti, Torino, Einaudi, 1960, p. 921).
Qualunque politico di professione vi dirà che “l’onesta intransigenza” è cosa da intellettuali, ma che nella pratica politica è addirittura controindicata: perché bisogna valutare l’opportunità di dire, o non dire (si ritorna sempre al principio del discorso), una determinata cosa in un dato momento; perché la politica è l’arte del possibile e richiede, continuamente, compromessi per ottenere qualche risultato, laddove se ci si attestasse su una rappresentazione fedele e pura dei propri convincimenti ideali non si otterrebbe alcunché.
In effetti, se l’intellettuale cerca la verità ed il politico di professione cerca il risultato, si tratta di mestieri diversi. Infatti nel 1919 Max Weber ha distinto “l’etica della convinzione” dalla “etica della responsabilità” ed è soltanto questa seconda che si addice alla politica come professione (Politik als Beruf). Poiché gli esseri umani non sono puri spiriti, non sono angeli, per proporsi come politici di professione occorrono anche altri requisiti: in primo luogo un supplemento di energia vitale, che non si risolve soltanto nelle virtù della forza morale e del coraggio, ma richiede anche una dose non trascurabile di ambizione personale e cieca fiducia in sé stessi. Fin qui siamo nella fisiologia; la patologia è altra cosa.
Di conseguenza, ci sarà sempre una differenza fra pensatori liberali e politici dichiaratamente liberali. Per restare all’esperienza italiana, da una parte abbiamo Benedetto Croce, Francesco Ruffini, Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Piero Gobetti, Mario Pannunzio; nell’altra schiera incontriamo Camillo Benso di Cavour, Quintino Sella, Marco Minghetti, Giovanni Giolitti, Giovanni Amendola, Giovanni Malagodi. La caratteristica della tradizione liberale, però, è quella di pretendere che anche i politici di professione abbiano cultura politica e spessore ideale. Così, quando si è chiamati a servire le Istituzioni, ci si può sempre imbattere in un rappresentante politico che è, al tempo stesso, un fior di intellettuale: è il caso di Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955.
Ahimè siamo caduti molto in basso se consideriamo i non molti che oggi si propongono per difendere il pensiero liberale nel dibattito pubblico e, ovviamente, il discorso vale anche per me che scrivo. Ancora più preoccupante, però, è la condizione del sistema politico-istituzionale italiano: che appare squilibrato proprio perché privo di una rappresentanza dichiaratamente democratico liberale che, da una posizione tendenzialmente “centrista”, possa interloquire con forze politiche, tanto di centrosinistra, quanto di centrodestra, conducendo un’azione di lobby a favore della prevalenza del buon senso, del buon vivere civile, della coesione nazionale, dell’indissolubile appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, che si vorrebbe tanto più forte politicamente ed autenticamente federale.
La mancanza di una componente dichiaratamente democratico liberale è una caratteristica quasi esclusiva del sistema politico italiano. Non avviene così in Germania, dove c’è la realtà della FDP (“Freie Demokratische Partei“) che opera dal dicembre 1948 e che ha espresso due Presidenti della Repubblica Federale Tedesca: Theodor Heuss, dal 1949 al 1959, e Walter Scheel, dal 1974 al 1979. Non è così nei Paesi Scandinavi, in Olanda e in Belgio, che elegge Guy Verhofstadt. Non è così in Spagna dove c’è la realtà emergente di Ciudadanos, ossia il partito della cittadinanza. Le recenti vicende della Brexit nel Regno Unito, evidenziando le spaccature interne dei due maggiori partiti, conservatore e laburista, hanno offerto nuove opportunità di affermazione ai “Liberal Democrats“, formazione convintamente pro-Europa.
L’asserita differenza del sistema politico italiano denota che, secondo me, il partito di Forza Italia, nonostante le frequenti evocazioni del liberalismo, non è e non è mai stato una forza politica autenticamente liberale. Per la sua natura di partito padronale, perché il suo orizzonte è sempre stato limitato al centrodestra, per il modo in cui ha concretamente governato dando spazio alla confusione fra politica ed affarismo ed a quelli che vengono definiti gli “spiriti animali” del capitalismo. All’interno del Parlamento Europeo, Forza Italia è collegata con il Gruppo del Partito popolare europeo, non con l’ALDE.
In una precedente occasione (nell’articolo titolato “Costruzione europea“) ho cercato di spiegare perché le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo il prossimo 26 maggio sono davvero importanti. É consigliabile che quanti più elettori italiani possibile vadano a votare. Per quanto mi riguarda, non mi faccio gli affari miei ma, in questa occasione, avverto la responsabilità di prendere partito. Sostengo, quindi, che si debba votare la lista di “Più Europa“.
Lista non improvvisata, ma già presente nelle elezioni politiche italiane del 2018, dove ottenne, per il rinnovo della Camera dei deputati, il 2,56 % del totale dei voti espressi sul piano nazionale. La lista dovrebbe godere oggi di un consenso sensibilmente maggiore, anche per una serie di alleanze di cui dopo dirò. Il voto a “Più Europa” porterebbe a due esiti: 1) nell’immediato, contribuirebbe a far superare la soglia di sbarramento nazionale del quattro per cento, determinando quindi l’elezione di alcuni parlamentari convintamente schierati a sostegno dell’Unione Europea e che, nell’ambito del Parlamento Europeo, aderirebbero all’ALDE, ossia il Gruppo parlamentare dei liberali democratici europei; 2) in prospettiva, un successo nelle elezioni europee sarebbe un incentivo al rafforzamento di un raggruppamento democratico liberale in Italia, potenzialmente capace di ottenere, in prosieguo di tempo, rappresentanza nel Parlamento nazionale ed in tutte le altre Istituzioni rappresentative, a livello regionale e locale.
I principali dirigenti politici di “Più Europa“, Benedetto Della Vedova, che ne è Segretario, Emma Bonino e Bruno Tabacci sono persone conosciute, stimabili e stimate. Emma Bonino è una radicale storica, ma il suo percorso nelle Istituzioni, con rilevanti responsabilità ricoperte, ha dimostrato che possiede una propria spiccata personalità. Marco Pannella poteva consigliarla, ma fino ad un certo punto. Ciò spiega perché i più stretti pannelliani, quelli del Partito radicale transnazionale per intenderci, non soltanto non hanno aderito a “Più Europa“, ma ne prendono le distanze.
Tabacci, l’unico fra i tre leaders che non è personalmente candidato nelle elezioni europee, si è formato nella Democrazia Cristiana. Partito alla fine logorato da una troppo lunga gestione del potere, ma che ha tantissimi meriti nella storia nazionale e che ha espresso politici di grande livello qualitativo, quali Alcide De Gasperi e Aldo Moro; i quali, però, hanno incarnato politiche sensibilmente differenti fra loro. L’orientamento di Tabacci è di centrosinistra, senza possibilità di equivoci. Il che, nelle condizioni attuali del sistema politico italiano, significa esseri disponibili all’intesa con Partito Democratico, ma nel contempo rivendicare autonomia dallo stesso. Siamo così al paradosso che un ex democristiano è il politico che finora si è dato più da fare per dar vita nel nostro Paese ad un raggruppamento tendenzialmente centrista e di indirizzo sostanzialmente liberaldemocratico. Non ripercorro tutte le tappe in tal senso. Basti ricordare il progetto di Alleanza per l’Italia (API), formazione fondata nel novembre del 2009, insieme a Francesco Rutelli.
Tra gli odierni alleati di “Più Europa“, che concorrono alle sue liste, permettetemi di ricordare, in primo luogo, il Partito repubblicano (PRI), ossia una formazione storica italiana di sicure tradizioni liberaldemocratiche; questo esprime validi candidati in quasi tutte le circoscrizioni elettorali. Poi c’è la nuova formazione di “Italia in comune”, che ha come esponente più conosciuto Federico Pizzarotti: come dire l’idealismo originario del Movimento Cinque Stelle, quando coltivava il sogno di un complessivo rinnovamento dell’Italia. I concreti problemi di amministrazione di una città importante, quale Parma, affrontati con apprezzabili risultati, hanno irrobustito politicamente la posizione di Pizzarotti e dei suoi amici.
Cito infine il Partito socialista (PSI), il cui nuovo Segretario è Enzo Maraio. Anche il PSI esprime candidati in quasi tutte le circoscrizioni. In questo caso l’alleanza non è in nome della ricostruzione politica del campo della liberaldemocrazia, ma di una migliore articolazione del centrosinistra.
Non bisogna credere troppo ai sondaggi; ritengo, ad esempio, che la Lega non otterrà il consenso che viene ora ipotizzato. Per quel che valgono, i sondaggi collocano la lista di “Più Europa” tra il tre ed il quattro per cento. Ciò significa che la soglia di sbarramento è davvero superabile. È un’occasione da non perdere.
Palermo, 10 maggio 2019