UNA VISITA ALL’ AVERNO
L’immagine è stata scattata sulla sponda del lago d’Averno ed accoglie il viaggiatore.
Sono tornato dopo molti anni nei Campi Flegrei, dopo averci vissuto in gioventù e averla lasciato in seguito alla crisi del bradisismo del 1983. Forse esistono poche regioni al mondo con tali bellezze naturali, e aggiungo una mia ingenua credenza: la tendenza partenopea all’esagerazione, spesso deprecata, si deve all’orgoglio, forse inconscio, di avere ben due aree vulcaniche distinte e separate, il Vesuvio-Somma e i Campi Flegrei, dirimpettaie in uno scenario che vede inoltre Capri, la penisola Sorrentina e quella Amalfitana come altrettante bellezze, che meritatamente rinforzano quell’orgoglio e quel ricorso frequente all’iperbole nel nostro linguaggio di tutti i giorni.
Ho percorso a piedi la Via Domiziana, lasciando alla destra l’Anfiteatro Flavio e poi la Via Campana, a sinistra la Via Pergolesi dove c’è la Chiesa con i resti del musicista morto all’età di 26 anni, spingendomi ad occidente verso il borgo di Arco Felice. Per fortuna c’è un marciapiedi da cui godo la vista del porto di Pozzuoli e del Golfo, ma il traffico non cessa e mi accompagnerà per tutto il tragitto. Mi risulta difficile abituarmi alle auto e alle moto che sfrecciano rombanti, è una contaminazione visiva, auditiva e olfattiva non da poco, una continua stimolazione dei sensi che stanca e distrae. A ciò si aggiunge la triste sorpresa dell’edilizia dilagante che ha modificato questi luoghi urbani ormai irriconoscibili, per me che ne conservavo il ricordo bucolico di pini, mare e qualche contadino. Si è costruito dovunque, abbondano ristoranti, bar, palazzine, piccoli hotel. Le persone sono tornate a vivere, spinte da esigenze abitative, possibilità di lavoro, ma anche attratte dalla bellezza dei luoghi naturali, e continuano a sfidare la nota incertezza legata alla recrudescenza dell’attività vulcanica. Io mi allontanai definitivamente dopo la crisi del 1983 e intrapresi una nuova vita. Abitavo a Pozzuoli quando il bradisismo rendeva inquieti gli animi; vivere nei Campi Flegrei da abitante significava immergersi in un mondo di pericoli incombenti tutti da scoprire, da relazionare con la natura esuberante e la vita di tutti i giorni.
Mi avvio finalmente sul vialone che separa Lucrino dall’Averno, costeggiato da una vegetazione esorbitante di canne, che meriterebbe una potatura radicale per non costringere chi vi passa a scendere dal marciapiedi. Alla mia destra c’è il Monte Nuovo con le sue pendici verdi. E arrivo sulla ripa anelata, e mi accorgo di un ristorante col nome allusivo al traghettatore, anitre e oche con i loro gridi, un centro cinofilo, rari turisti. Non sono sorpreso poi più di tanto, me l’aspettavo, mi intristisco. Ma dove mi trovo?
Per orientarmi in questo squallore, rileggo l’introduzione che scrisse Amedeo Maiuri nel lontano 1934 al suo libro di ricerche archeologiche dal titolo I Campi Flegrei *:
“Una moltitudine di crateri e tutti i fenomeni più singolari e diversi dell’idrologia e del vulcanismo, fonti minerali e termali, ribollenti dal suolo o dalle profondità del mare, fumarole e solfatare con caldissime emanazioni gassose, vulcani spenti e laghi scaturiti dalle voragini di crateri inabissati, boscaglie secolari che ammantano le pendici di altri crateri, lento sprofondare della terra e violento ed improvviso erompere di vulcani, rendono ragione della denominazione che gli antichi dettero a tutta la regione a ponente di Napoli, comprese le isole di Nisida, Procida e d’Ischia: Campi Flegrei si dissero dai primi abitatori ellenici, che vedevano ancora nel V secolo l’Epomeo solcato dalle vampe sanguigne delle lave, perché apparivano fiammeggianti e come combusti dal fuoco. Ed accanto alla più lussureggiante vegetazione e agli aspetti più sereni e lieti della natura, qual è l’amenissimo lido di Pozzuoli e di Baia, il cratere ribollente della Solfatara, la plumbea pesantezza delle acque del lago d’Averno, le caverne e le spelonche sacre al culto dell’invisibile, agli spiriti e alle voci del mistero. Questo sentirono gli antichi quando qui favoleggiavano dei Cimmeri abitatori di antri e quando da questo luogo attinsero due credenze profonde e immutabili nell’animo dell’uomo: la religione dell’oracolo e la religione dell’oltretomba.”
Enea e Virgilio sono ormai lontani da noi nel tempo e dimenticate le loro esperienze, le visioni. Che significato hanno quei miti per noi oggi avvolti nel profano? Oggi il nesso tra mito, fiaba e mistero è da tempo smarrito, forse perduto. Ed abbiamo perso tante altre cose, il silenzio rigeneratore, l’ossigeno dell’aria, il pudore, il regno dei cieli, il destino. Siamo esperti in smarrimenti e perdite. Come rimediare, è possibile rimediare?
Possiamo almeno comprendere il perché di questo smarrimento, capirne i motivi, riemergere dalle tenebre?
FILOTEO NICOLINI
Immagine: Sulla ripa del lago d’Averno
*Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, Libreria dello Stato.