L’ex fabbricante di armi: “Ho prodotto milioni di mine, ci lasciano in guerra per sempre”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Simonetta Sciandivasci
Fonte: La stampa

L’ex fabbricante di armi: “Ho prodotto milioni di mine, ci lasciano in guerra per sempre”

Fino ai primi anni Novanta, l’Italia è stata uno dei maggiori produttori di mine antiuomo al mondo. Il modello TS-50, il più esportato, imitato e richiesto, della produzione italiana, lo ha progettato Vito Alfieri Fontana, ingegnere e fabbricante di armi oggi in pensione, a capo della Tecnovar di Bari fino al 1993, quando chiuse, diventando la prima delle aziende italiane a dire addio a quel mercato, poco dopo la moratoria del governo contro le mine antiuomo e poco prima dell’adesione del Paese alla convenzione di Ottawa del 1997, quella dalla quale Kiev si è appena ritirata. Da allora, Fontana è passato dall’altra parte: è diventato uno sminatore a servizio della Ong Intersos, ha disinnescato migliaia di mine in Kosovo, Serbia e Bosnia.

 

«Quando spiegai a mio figlio il mio mestiere, mi disse: papà, allora sei un assassino», scrive in Ero l’uomo della guerra, il libro in cui racconta la sua storia e quella recente dell’industria bellica italiana, e che è uscito per Laterza due anni fa, quando le mine antiuomo, sebbene avessimo la guerra in Ucraina negli occhi, erano per noi un remoto affare per artificieri, e non l’ennesima allerta.

«Da un punto di vista militare, un campo minato è poco efficace: non è che un confine. Un confine ostile».

 

Allora perché l’Ucraina si sfila da Ottawa?

«Forse c’è in vista un cambiamento governativo o un qualche accordo. Non riesco a trovare un altro motivo, visto come sta andando la guerra e visto che i campi minati dai russi, sono minati anche per i russi: sono un’insidia per entrambi gli eserciti. Contrastarli con altri campi minati vuol dire stabilizzare il fronte. Vuol dire che non si combatte più in quelle zone, e che quindi, forse, si trova un accordo. Ci saranno vittime civili, chi ha preso questa decisione lo sa».

È ipotizzabile un effetto a catena? Polonia, Lituania, Estonia, Finlandia, Lettonia hanno già espresso la volontà di tirarsi fuori da Ottawa.
«Le Nazioni Unite non consentono di aiutare o finanziare progetti di sminamento nei Paesi che decidono di uscire da Ottawa. Quindi, l’Italia non potrà più supportare lo sminamento in Ucraina. Per questo un effetto valanga è probabile: si sfilerà la Germania, poi la Nato».

Un disastro.
«Un disastro. Sta passando l’idea che il trattato di Ottawa sia stato fatto da quattro fricchettoni che volevano la pace nel mondo, invece fu una cosa molto seria, in tempi in cui le nazioni parlavano tra loro, stringevano accordi e sapevano che rispettarli era l’unico modo per impedire che la legge del più forte trionfasse».

Però, Usa, Israele, Cina, Russia non hanno mai aderito al patto di Ottawa.
«Dal 1997 al 2007 le Ong interloquivano con la Russia, e c’erano buone speranze di ottenere una sua adesione, anche parziale, che avrebbe trascinato dentro anche la Cina. Tutto è saltato con Putin».

E gli Stati Uniti?
«Sono sempre stati sordi».

Cosa ha diminuito la forza del trattato?
«L’adesione non è vincolante. Ci si può sfilare quando si vuole, e così in trent’anni nessuno si è impegnato a elaborare uno strumento non letale per il controllo del territorio che fosse un’alternativa operativa alle mine».

Il fatto che costa poco produrle ma tanto rimuoverle può aver avuto un peso?
«In verità, sminare non è esoso come un tempo. Una mina può costare 3 dollari, il costo dello sminamento lo deve pensare al metro quadro, e non supera i 50 centesimi al metro quadro. In più, oggi, prima di bonificare al cento per cento un’area minata si fanno saggi statistici e studi che di solito riducono la zona di intervento del 90 per cento. Siamo in grado di togliere mine alla stessa velocità con cui vengono messe: questo mi impedisce di cedere alla disperazione».

 

È pericoloso sminare?

«La vita di tutta la squadra dipende dal comportamento di ciascun membro. Gli incidenti, quando capitano, sono il più delle volte mortali».

Ha detto di non aver mai usato antidepressivi perché le sono bastati i Balcani.
«In Kosovo, nel 1999, è iniziata la mia rinascita. Ogni giorno toglievo un metro quadro alla guerra e lo restituivo alla pace: era incredibilmente appagante».

Oggi dove si producono e vendono più mine?
«In India e Pakistan».

E in quali ce ne sono di più?
«Al confine tra Iran e Iraq, in Polonia. In Italia ogni anno vengono rimossi dai 10 ai 15 mila ordigni della Seconda Guerra mondiale che sono potenzialmente pericolosi. L’importante non è toglierli tutti, ma ridurre l’impatto per la popolazione. Mi sono reso conto del segno che lasciano le guerre quando, in Bosnia, abbiamo bonificato un’area vicino a una fortezza medievale usata in tutte le epoche: prima le mine, poi proiettili, palle di cannone, speroni di cavalieri, frecce. La guerra è un mostro invincibile: puoi solo recintarlo affinché non morda».

C’è un ruolo delle mine nell’ecocidio?
«No. Se un campo agricolo non viene curato e sfruttato per anni, ha una capacità biologica eccezionale: quando viene sminato, è ambitissimo dai contadini. Resta un tema di ecologia dell’orrore: non puoi lavorare la tua terra perché qualcuno l’ha minata».

Come creò la “sua” TS-50?
«Non posso dirlo: la legge italiana non consente il trasferimento di tecnologie».

Era in grado di calibrare un ordigno affinché ammazzasse o ferisse solamente?
«Dipendeva da cosa chiedeva l’esercito committente, nel mio caso italiano o egiziano: in base a quello, aumentavo o diminuivo la carica esplosiva. Era facile. Il nostro obiettivo non era l’uomo ma una piastra d’acciaio, 50 cm per 3 mm. Se dopo l’esplosione quella piastra veniva forata, la mina andava bene. Così spersonalizzavamo l’obiettivo: da essere un bimbo, diventava una piastra d’acciaio. Nella realtà, però, purtroppo, veniva colpito il bimbo».

E i soldati?
«Anche, certo. Era come giocare al gatto col topo. Li immaginavo gattonare per non saltare in aria e ideavo meccanismi per prenderli in contropiede».

Che orrore.
«Lo so. Non che sia una giustificazione, ma sono pensieri che hai quando devi battere una concorrenza. Io dovevo creare mine che avessero un surplus. Se avessi lavorato per un arsenale di Stato, probabilmente sarebbe stato diverso. Le armi non dovrebbero mai farle i privati: le guerre le fanno gli Stati, perché le armi le devono produrre i privati?».

 

Ci sono stati governi italiani più solerti nel chiedere armi?
«No, tutti hanno rispettato le programmazioni quinquennali dell’approvvigionamento. E tutti si sono ugualmente adoperati per lo sminamento».

Lei crede in Dio?
«Sì. Prima per forma, ora convintamente».

Dorme?
«Faccio moltissimi incubi».

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