ALTRO CHE RAZZE! L’AMERICA È SPACCATA DAL CONFLITTO TRA CLASSI

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Kenneth J. Heineman
Fonte: Limes

1. Negli Stati Uniti tutti gli schieramenti ideologici evocano il passato. I conservatori lo considerano la traccia aurea per un futuro più luminoso e associano il presente a un paesaggio infernale. I progressisti, invece, lo giudicano fonte di ingiustizie da sanare punendo gli eredi degli oppressori. Il passato può essere buono o malvagio. Di certo viene adattato ai programmi politici. E in nessun campo il suo abuso è più evidente che nel dibattito sull’assimilazione.

Il sociologo Ben J. Wattenberg ha descritto gli Stati Uniti come la prima nazione universale 1. In un paese che attinge da ogni cultura del pianeta gli attriti sono inevitabili. E il divario tra ricchi e poveri genera divisioni di classe. Nonostante ciò, Wattenberg pensava che il Credo americano offrisse una speranza: chi sceglie di abbracciare la libertà individuale e le pari opportunità, come stabilito nella Dichiarazione di indipendenza e nella costituzione, diventa americano. Oggi come allora, la maggior parte delle nazioni basa la cittadinanza sui legami di sangue. Occorre ricordare agli americani la loro speciale eredità.

2. Tra la fine della guerra civile e l’inizio del XX secolo, il Sud sconfitto era una regione impoverita, segnata da segregazione razziale, malnutrizione e privazione del diritto di voto. Il 90% dei neri e il 30% dei bianchi non potevano votare perché incapaci di pagare le tasse elettorali. Il reddito pro capite era la metà di quello del Nord. In questa regione metà degli 8,5 milioni di agricoltori era costituita da bianchi senza terra o da mezzadri e affittuari neri. Pochi nel Nord o nell’Ovest interagivano con i meridionali di entrambe le razze 2.

Tra il 1890 e il 1915 i centri urbani americani avevano assorbito oltre 20 milioni di immigrati. I loro abitanti erano segregati per classe, etnia e religione. Pittsburgh aveva la sua Polish Hill, New York City una Little Italy e Los Angeles una Little Tokyo. La maggior parte degli americani si sposava senza oltrepassare queste linee. Le scuole pubbliche imponevano l’assimilazione ed esortavano i figli degli immigrati a gettarsi nel melting pot. Dalla prospettiva degli insegnanti protestanti della classe media gli studenti dovevano abbandonare le abitudini tribali dei genitori. Ma in realtà furono pochi i figli di immigrati che anglicizzarono i loro cognomi e divennero protestanti. Questi erano orgogliosi di essere slovacco-americani o italo-americani. Nel 1919 il presidente Woodrow Wilson avvertì con sdegno che gli inaffidabili «hyphenated-Americans», ovvero gli «americani con il trattino», erano pronti a conficcare un «pugnale (…) negli organi vitali della nostra Repubblica» 3.

 

Carta di Laura Canali - 2008
Carta di Laura Canali – 2008 

 

Il Congresso temeva che gli europei meridionali e orientali fossero agenti del crimine e del comunismo. Così, nel 1921 e nel 1924 emanò leggi di restrizione all’immigrazione, che stabilivano quote di origine volte a bloccare gran parte degli arrivi di cattolici, ebrei, greci e russo-ortodossi. Prima del 1921, se si esclude il caso degli asiatici, gli Stati Uniti non avevano mai tenuto conto delle provenienze nazionali per determinare chi potesse entrare nel paese. Gli immigrati avevano subìto discriminazioni, ma il governo federale non ne era stato l’artefice.

Inoltre, le università pubbliche e private d’élite fissarono quote di ammissione. Dal punto di vista dell’establishment Wasp (white, anglo-saxon, protestant) che controllava la Ivy League, l’istruzione ad Harvard o Princeton serviva a costruire le reti sociali degli studenti, non a metterli alla prova intellettualmente. Gli ebrei, invece, consideravano l’istruzione superiore uno strumento per sfuggire alla povertà. Per questa ragione stravolsero la curva dei voti. La soluzione era ovvia. Harvard e Princeton furono le prime a stabilire quote per limitare il numero di ebrei ammessi. La prima la ridusse dal 27% al 15%, la seconda addirittura al 3%. Nel 1923 il presidente di Harvard, Abbott Lawrence Lowell, si vantò del fatto che le restrizioni imposte agli ebrei avevano ridotto il fenomeno dell’antisemitismo nel campus 4.

L’America era stratificata in classi e culturalmente segregata. I ricchi non interagivano socialmente con gli operai ma nemmeno con la classe media, che rappresentava circa un terzo della popolazione e la cui tenuta si basava sul debito: tre quarti delle automobili vendute negli anni Venti furono acquistate a credito. Nei «prosperosi» anni Venti il 60% degli americani viveva alla soglia (o addirittura al di sotto) del livello di sussistenza. Ciò che guadagnava era abbastanza per permettersi vestiti, cibo e alloggio. Meno della metà possedeva una casa di proprietà. Nel ceto operaio era consuetudine ritirare i figli da scuola perché potessero contribuire alle finanze domestiche. Non sorprende allora che gli americani che avevano conseguito un diploma di scuola superiore (17%) provenissero soprattutto da famiglie dell’alta e media borghesia.

3. Proprio mentre il boom degli anni Venti lasciava posto alla Grande depressione, tre americani diventavano adulti: Paul Mellon, Audie Murphy e Guy Gabaldon. Incarnavano le differenze di classe e culturali della nazione americana. E tuttavia entrarono in connessione con le forze storiche che contribuirono a creare un melting pot funzionante.

Andrew Mellon, il padre di Paul, fu segretario al Tesoro sotto tre presidenti repubblicani (1921-1932) e diresse un impero che comprendeva Alcoa e Gulf Oil. Il figlio, invece, era un playboy. Solitamente l’élite Scotch-Irish della Pennsylvania mandava i propri figli alla facoltà di Legge di Princeton. Tuttavia, Paul Mellon fu una tale delusione da essere esiliato a Yale e Cambridge, dove studiò storia dell’arte e letteratura 5.

Audie Murphy era uno dei dodici figli di mezzadri irlandesi cattolici in Texas. Quando il padre abbandonò la famiglia, fu costretto lasciare la scuola elementare per mantenere la madre e i fratelli. Lavorava come bracciante agricolo e cacciava conigli con una fionda – i proiettili dei fucili erano troppo costosi. Era gravemente malnutrito 6.

Nel frattempo, a Los Angeles viveva Guy Gabaldon, figlio di immigrati messicani. Anche suo padre abbandonò la famiglia. E sua madre morì giovane. Si trovò così a vivere per strada e a rubare cibo per sopravvivere. Lo accolsero i genitori giapponesi di alcuni suoi compagni di scuola 7.

Quando nel dicembre 1941 il Giappone imperiale lanciò il suo attacco alla flotta statunitense a Pearl Harbor, l’America entrò nella seconda guerra mondiale. Mellon, Murphy e Gabaldon si arruolarono. Il primo attirò l’attenzione di un’organizzazione in via di formazione a Washington, l’Office of Strategic Services (Oss), che cinque anni dopo sarebbe diventato la Central Intelligence Agency (Cia). Mellon, che conosceva la letteratura, la storia e le lingue europee, trovò il suo posto nella raccolta e nell’analisi di intelligence militare.

 

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Murphy fu inizialmente rifiutato da ogni ramo delle Forze armate a causa delle sue condizioni fisiche. Riuscì infine a entrare nell’Esercito e venne mandato in Nord Africa, Italia e Francia. Nel 1945 ottenne il più alto riconoscimento nazionale, la medaglia d’onore: il mezzadro texano, trovatosi a manovrare una mitragliatrice su un carro armato in fiamme, aveva ucciso o ferito da solo 50 soldati tedeschi, respingendo il loro attacco.

Gabaldon si arruolò nei Marines dopo che il governo aveva internato i suoi genitori adottivi quali stranieri nemici (enemy aliens). Era uno dei pochi americani senza origini nipponiche capace di parlare giapponese. Entrò così a far parte di un distaccamento speciale di ricognizione e nel 1944 venne inviato a Saipan, nel Pacifico. Gabaldon rimase sconvolto da ciò che vide. Prima della guerra sull’isola giapponese abitavano 26 mila civili. Ma l’Alto comando di Tōkyō, pur di non vedere donne e bambini catturati, aveva ordinato loro di suicidarsi.

Nel corso di una perlustrazione Gabaldon fece prigioniero un generale nipponico. Stremato dalla tensione per l’internamento dei genitori adottivi e per i suicidi cui aveva assistito, si convinse a parlargli in giapponese. La discussione si fece intensa e Gabaldon perse cognizione della situazione, finché non si accorse di essere circondato da duecento soldati nemici. Quando finì di parlare, quei soldati e i loro cinquecento assistenti si consegnarono nelle sue mani.

L’esperienza bellica di Mellon, Murphy e Gabaldon fu parte di un mosaico più ampio. Durante il conflitto il distretto di Pittsburgh produsse più acciaio di Germania, Italia e Giappone messi assieme. La rovina dei principali concorrenti globali permise agli Stati Uniti di godere di una prosperità eccezionale nel dopoguerra. I sindacati del settore privato, che negli anni Cinquanta rappresentavano il 32% della forza lavoro nazionale, contribuirono all’aumento dei salari. Il 61% degli americani riteneva di appartenere alla classe media. Quasi due terzi possedevano una casa di proprietà. E nel 1960 il 41% aveva conseguito il diploma di scuola superiore.

Nel contesto di quella che gli storici hanno definito «cultura della vittoria» (victory culture) e «American High», tutte le battaglie e la disunione che avevano preceduto la Grande depressione scomparvero dalla memoria collettiva 8. La cultura popolare era ormai dominata dalle immagini trionfali dei soldati americani che sconfiggevano il Terzo Reich e innalzavano la bandiera a Iwo Jima. Gli otto presidenti che si sono succeduti tra il 1953 e il 1993 avevano indossato l’uniforme tra il 1941 e il 1945. All’inizio degli anni Sessanta, sette membri del Congresso su dieci erano veterani. Film e programmi televisivi raffiguranti la seconda guerra mondiale riempivano gli schermi.

La sconfitta del Giappone imperiale, ferocemente razzista, e della Germania hitleriana spinse gli americani a riconoscere i propri fallimenti interni e a fare ammenda. La Ivy League abbracciò test standardizzati e iniziò ad ammettere gli studenti in base al merito e non alle origini. Nel 1964 il Congresso approvò la legge bipartisan sui diritti civili e l’anno successivo quella sul diritto di voto, provvedimenti che garantivano un accesso senza vincoli alle urne. Anche il Sud si integrò nella società americana. E nel 1965 l’Immigration and Nationality Act annullò le quote di provenienza nazionale stabilite nel 1921 e nel 1924, oltre che il Chinese Exclusion Act del 1882. Di conseguenza, tra il 1965 e il 2015 arrivarono negli Stati Uniti 59 milioni di immigrati, soprattutto dall’Asia e dall’America Latina 9.

4. Proprio nel momento in cui l’America trionfava sulla discordia e sulla discriminazione, tutto sembrò disfarsi. A differenza della seconda guerra mondiale, il conflitto in Vietnam non attraversò le linee di classe. L’80% dei soldati che partirono per il Sud-Est asiatico proveniva dalla classe operaia e il rinvio della leva per gli studenti universitari assunse la forma di un privilegio di ceto, giacché solo il 17% degli iscritti proveniva da contesti proletari o medio-bassi. Per questo motivo gli storici hanno parlato di «guerra della classe operaia» 10.

Alcuni americani che riuscirono a sottrarsi alla guerra del Vietnam divennero in seguito sostenitori dell’invio a combattere di giovani della classe operaia bianca e delle minoranze – certo, non dei loro figli. Col tempo divennero noti come neoconservatori. Altri appoggiavano invece il libero commercio e la delocalizzazione della produzione e furono identificati come libertari o neoliberali. Queste etichette non avevano importanza. Poiché quando si trattava di economia e di interventi militari, le visioni di neoconservatori e neoliberali erano intercambiabili. Di fatto, le élite economiche e politiche si stavano allontanando dagli americani che curavano i loro prati e garantivano la loro sicurezza. Non è un caso che nel XXI secolo la percentuale di veterani al Congresso sia scesa al 17% 11.

La crescente concorrenza della Germania occidentale e del Giappone, ormai rivitalizzati, sollecitò i produttori americani a ridurre il costo del lavoro. La soluzione poteva essere l’aumento dell’immigrazione di lavoratori a basso reddito e la delocalizzazione all’estero degli impianti di produzione. Tra il 1979 e il 1982 il Michigan perse circa 250 mila posti di lavoro ben retribuiti e sindacalizzati nell’ambito automobilistico. E nel 1984 l’ultima acciaieria del distretto di Pittsburgh chiuse i battenti. Da quel momento, disoccupazione e posti di lavoro a basso salario nel settore dei servizi hanno contraddistinto le comunità deindustrializzate. Di conseguenza è anche crollata l’adesione ai sindacati del settore privato – fino all’attuale 6%.

I progressisti sono diventati sempre più scoraggiati. La rivoluzione dei diritti prometteva pari opportunità, non uguali condizioni. Nel tempo, per dar ragione degli scarsi progressi registrati, in alcuni gruppi minoritari iniziarono a farsi strada spiegazioni onnicomprensive: i test standardizzati, intesi a porre fine alle discriminazioni, erano in realtà influenzati dalla razza. Di più, gli Stati Uniti erano strutturalmente razzisti. Questo ha reso d’un tratto inefficaci tutte le precedenti riforme sui diritti civili.

Come risultato, è stato necessario abolire i test standardizzati e introdurre quote fisse di ammissione per le università e di assunzione per le aziende. Eppure, i figli degli immigrati asiatici erano rappresentati in modo sproporzionatamente ampio nelle università pubbliche e private d’élite. Ciò ha portato ad avanzare una nuova teoria razziale, secondo cui gli asiatici sono «bianchi adiacenti» (adjacent white) e quindi non una minoranza a tutti gli effetti. Per lo stesso motivo, gli immigrati latinoamericani e i loro figli che rifiutavano tale visione e mettevano l’accento sulla criminalità e sulla concorrenza degli immigrati a basso salario sono diventati «ispanici bianchi» (white hispanics). Paradossalmente, le nuove quote di ammissione hanno penalizzato gli asiatici-americani e gli ebrei, anch’essi sovrarappresentati nei campus.

Le università d’élite hanno giocato con il processo di ammissione. Intenzionate ad aumentare le iscrizioni dei neri, hanno inserito nella categoria degli afroamericani gli studenti provenienti dall’Africa e dai Caraibi, i quali spesso appartenevano all’establishment dei loro paesi d’origine. Ne è un esempio proprio Claudine Gay, laureata ad Harvard e prima presidente nera dell’università, figlia di ricchi immigrati haitiani: la sua famiglia controlla tutto il cemento utilizzato per le costruzioni nel paese caraibico.

Queste distorsioni nelle ammissioni e nelle assunzioni sono il prodotto del pensiero progressista e neoliberale, il quale sostituisce alla classe la razza. Perlomeno i progressisti sono sinceri nel rivendicare la loro contorta classificazione razziale. Non si può dire lo stesso dei neoliberali, che trovano semplicemente utile segnalare la propria virtù per massimizzare i profitti aziendali e per nascondere la dipendenza dalla manodopera sfruttata in Cina. I progressisti non riescono a comprendere il significato delle classi a causa delle loro origini elitarie e della perdita di contatto con i lavoratori. Sono distanti dagli operai bianchi quanto lo sono da quelli «di colore». Posti di fronte ai sondaggi e ai dati elettorali che mostravano un sostegno notevole degli ispanici nei confronti di Donald Trump, si sono limitati a rispondere con la negazione e l’incomprensione. Ai loro occhi il magnate newyorchese è soltanto un razzista. Sottovalutano così il peso di problemi come la criminalità e la diminuzione del tenore di vita12.

I progressisti sono privi della capacità di comprendere i conflitti di classe a causa delle loro origini di classe, ma sono anche eredi degli anni Sessanta. Quindi del lasso di tempo in cui la sinistra ha sperimentato un cambiamento radicale nell’ideologia e nei riferimenti economici. Prima della seconda guerra mondiale gli esponenti della sinistra negli Stati Uniti provenivano perlopiù dal ceto operaio e consideravano i sindacati industriali quali agenti di cambiamento. La vecchia sinistra degli anni Trenta, pur troppo propensa a giustificare Stalin, era focalizzata sullo sfruttamento di classe. Rimproverava agli americani di non essere all’altezza del loro Credo. Citava Il capitale e la Dichiarazione d’indipendenza.

Negli anni Sessanta, la nuova sinistra raccolse adesioni tra le fasce professionali più istruite. Lo storico Christopher Lasch ha descritto questa trasformazione come La rivolta delle élite. Dalla prospettiva della nuova generazione di attivisti, i bianchi della classe operaia erano razzisti anticomunisti che sostenevano la guerra del Vietnam e resistevano all’integrazione nei loro quartieri. I membri dei sindacati del settore privato sfruttavano il loro «privilegio bianco» per eleggere razzisti in patria e sfruttare le persone di colore all’estero. Insomma, il Credo americano era una menzogna13.

Così, i progressisti non hanno provato a convertire gli iscritti ai sindacati bianchi del settore privato. Si sono ispirati alle idee dei radicali italiani e tedeschi e hanno iniziato una lunga marcia attraverso le istituzioni. Non sorprende perciò che la sinistra degli anni Sessanta, nata nelle università, sia riuscita col passare del tempo a ottenere il controllo dei campus e a diffondersi nei mass media, nell’istruzione, negli uffici delle aziende, nei sindacati del settore pubblico e, con risultati non sempre soddisfacenti, nei partiti politici consolidati.

5. A che punto sono oggi gli Stati Uniti? Può darsi che dopotutto l’unità e la prosperità del secondo dopoguerra siano state l’eccezione e non una nuova regola. Si potrebbe anche sospettare che gli americani si trovino ora al punto in cui si trovavano cento anni fa. Ma le differenze sono significative. Come ha osservato lo scienziato sociale Joel Kotkin, il tasso di matrimoni tra etnie e razze diverse non è mai stato così alto nella storia statunitense: tra il 1967 e il 2015 è passato dal 3 al 17%. Restano tuttavia meno comuni le unioni che attraversano le classi sociali. Eppure, dal momento che questi dati non supportano la percezione di un razzismo intrattabile, molti progressisti li hanno semplicemente ignorati 14.

L’altra differenza è l’odierna mancanza di una sinistra (e di una destra) in grado di affrontare le questioni culturali ed economiche con sguardo riflessivo. Le élite del nostro paese hanno dimostrato di non essere disposte ad accettare che tutti gli americani meritino comprensione. Purtroppo emulare Woodrow Wilson e infierire retoricamente sui propri connazionali non eleva la loro sensibilità morale.

Forse le più profonde divisioni d’America non sono quelle tra i vari gruppi etnici e razziali. La discordia è il prodotto di tensioni di classe tra l’establishment e tutto il resto. Se le cose stanno così, la soluzione è semplice. Le élite dovrebbero aspirare a non far danni. Se non altro perché potrebbero avere bisogno dei diseredati la prossima volta che qualche maniaco genocida tenterà di conquistare il mondo. Paul Mellon lo sapeva. E aveva capito anche l’importanza per la classe agiata di mettere da parte i propri privilegi e promuovere il bene comune.

(traduzione di Giacomo Mariotto)

Note:

1. Cfr. B.J. Wattenberg, The First Universal Nation, New York 1990, The Free Press.

2. Cfr. D.W. Grantham, The South in Modern America: A Region at Odds, New York 1994, HarperCollins, p. 92; R. Biles, The South and the New Deal, Lexington 1994, University of Kentucky Press, pp. 18, 36.

3. W. Wilson, «Address at the City Hall Auditorium in Pueblo, Colorado», The American Presidency Project, 25/9/1919.

4. M.G. Synnott, «Anti-Semitism and American Universities: Did Quotas Follow the Jews?», in D.A. Gerber (a cura di), Anti-Semitism in American History, Urbana 1987, University of Illinois Press, pp. 233-271.

5. Cfr. P. Mellon, J. Baskett, Reflections in Silver Spoon: A Memoir, New York 1992, William Morrow and Co.

6. «Audie Murphy, War Hero, Killed in Plane Crash», The New York Times, 1/6/1971.

7. R. Goldstein, «Guy Gabaldon, 80, Hero of Battle of Saipan, Dies», The New York Times, 4/9/2006.

8. Cfr. T. Engelhardt, The End of Victory Culture: Cold War America and the Disillusioning of a Generation, Amherst 2007, University of Massachusetts Press; W.L. O’Neill, American High: The Years of Confidence, 1945-1960, New York 1989, The Free Press.

9. N. Lemann, The Big Test: The Secret History of the American Meritocracy, New York 2000, Farrar, Strauss, and Giroux; «Modern Immigration Wave Brings 59 Million to U.S., Driving Population Growth and Change Through 2065», Pew Research Center, 28/9/2015.

10. C.G. Appy, Working-Class War: American Combat Soldiers and Vietnam, Chapel Hill 1993, University of North Carolina Press.

11. D. Desilver, «New Congress Will Have a Few More Veterans, but their Share of Lawmakers is Still Near a Record Low», Pew Research Center, 7/12/2022.

12. «Them vs. Us: The Two Americas and How the Nation’s Elite is Out of Touch with Average Americans», Committee to Unleash Prosperity, gennaio 2024; R. Teixeira, «The Evidence Mounts: Hispanics are Drifting Toward the GOP», The Washington Post, 5/7/2023.

13. Cfr. C. Lasch, The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, New York 1996, W.W. Norton, and Co.

14. J Kotkin, The Next Hundred Million: America in 2050, New York 2010, Penguin Press; Id., «The Multiculturalism of the Streets», The American Interest, 1/3/2006; G. Livingston, A. Brown, «Intermarriage in the U.S. 50 Years After Loving v. Virginia», Pew Research Center, 16/5/2017.

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