Fonte: facebook
Lo stato normale
di Alfredo Morganti – 2 gennaio 2015
Il nuovo Presidente della Repubblica sarà eletto dai medesimi (all’incirca) grandi elettori della scorsa volta. Ma con una differenza essenziale: stavolta i centouno hanno il bastone in mano e vorrebbero menare le danze. Curioso (e paradossale): ci troviamo nella situazione in cui siamo, perché dapprima (con Marini) non si votò secondo la linea di maggioranza, e poi (con Prodi) scattò un’imboscata politica bella e buona da parte di chi aveva ben altro obiettivo che l’elezione di un Presidente, piuttosto il colpo finale a un presunto candidato azzoppato. Oggi le carte si sono ribaltate, ma la situazione eccezionale permane. A proposito. Secondo quel giurista, «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione». Si badi, non dice ‘nello’, ma ‘sullo’: la decisione non è successiva all’eccezione, non viene dopo, ma la instaura, decide della sua esistenza, in qualche modo ne determina la costituzione. Non si ‘cade’ in uno stato d’eccezione ‘oggettivo’, non ci si trova dapprima in una bufera e quindi ci si sfida in termini di sovranità, ma c’è chi decide sul suo instaurarsi. Almeno in un ambito squisitamente politico. Lo stato d’eccezione apre le porte alla più secca dialettica di amico e nemico, senz’altre mediazioni o regole: questa dialettica, sempre secondo quello stesso giurista, sarebbe la vera essenza della politica. Se ciò è vero, i 101 sono gli effettivi responsabili dell’eccezionalità in cui stiamo navigando da mesi. Non il risultato elettorale, non le proporzioni percentuali sorte dal voto, non l’esistenza di un candidato ‘azzoppato’ avrebbero generato lo stato d’eccezione, ma la decisione di creare scompiglio, di sparigliare, per ragioni di mera lotta politica e di ambizioni personali (amico contro nemico, appunto, e non fa niente se dello stesso partito).
L’attuale sovranità, e quindi l’attuale leadership, nascono dunque in quella primavera 2013. Hanno lavorato per rompere le righe e produrre lo stato d’eccezione che oggi persiste, e ora ne godono i frutti dopo aver battuto i loro ‘nemici’ sul campo (Letta e Bersani in primis). Utilizzando tutte le armi, anche il tradimento. Ma la loro miopia sta nel ritenere che quella frattura, quei 101 franchi tiratori, quel ‘colpo’ portato al cuore della Repubblica possano essere davvero sufficienti a tenere in mano e ben salda la barra del governo (e delle istituzioni). La miopia è ritenere che DAVVERO la natura della politica si riduca a una lotta acerrima tra amico e nemico, che tutto sia ‘manovra’, tattica, scontro tra fazioni, battaglia personale, congiura, stato d’eccezione appunto. E a questo null’altro segua o debba seguire, se non la presa del potere e poi forme edulcorate, sondaggistiche, pubblicitarie, comunicative quali surroghe della politica-politica. L’errore di fondo è ritenere che la sovranità sia semplicemente il prodotto di una ‘conquista’ del potere, di un magistrale scompiglio (quello dei 101) a cui segua, poi, la ‘presa’ finale della poltrona (#enricostaisereno). Chi punta tutto sullo stato d’eccezione, non capisce che la sovranità si legittima soprattutto nella percentuale di rappresentatività reale che esprime. Che non è quella indicata dai sondaggi di popolarità, e dalle azioni di comunicazione-politica affidate a una ‘brava’ agenzia. “Rappresentare” è trovare una connessione effettiva col popolo, è sanare il baratro che discosta le istituzioni dai cittadini, i partiti dalla base sociale, i discorsi e le idee dal mondo reale. Ma quanto del renzismo ‘rappresenta’ davvero il popolo? Quanto si riduce invece a magistrale ‘eccezione’? Quanto è manovra, e quanto è davvero rappresentanza di una base reale, e non solo opinioni carpite con un tweet? Ecco il punto. Ed ecco l’origine della crisi attuale. Almeno nelle sue radici più prossime.
A chi decide sullo stato d’eccezione (e conquista il potere dopo aver battuto il ‘nemico’) poco importa della propria rappresentanza. Preferisce l’azione dei sondaggi, la comunicazione e la massima possibile (e inebriante) verticalizzazione del potere; ultramaggioritario, presidenzialismo, antiparlamentarismo. È una semplice conseguenza logico-deduttiva: chi sceglie la manovra, chi riduce tutto all’osso del confronto amico-nemico come se questa fosse solo un’arena e non un Paese, sottovaluta il peso della società e dei fili che debbono sempre essere tesi tra base, figure sociali e politica. E sceglie, invece del ‘presidio’ sociale, un hashtag o una presenza asfissiante sui media, che ‘costa’ meno ed è più simile alla menzogna comunicativa piuttosto che alle solide verità politiche. Si abbandona l’autostrada della rappresentatività per scegliere la fulminea scorciatoia della comunicazione-politica. Ovviamente, costoro hanno ingenerato un tale stato d’eccezione che prima o poi ne resteranno avvolti come in una ragnatela. La realtà prenderà di nuovo il sopravvento. Ma sino ad allora? Come se ne esce? Semplicemente cambiando strada, non verso. Scegliendo un altro percorso, più lento ma più sostanzioso che ci faccia uscire subito dalla eccezionalità e ponga di nuovo il problema dei cittadini reali, delle istituzioni rappresentative, della rappresentanza appunto, e non consideri soltanto i risultati di un sondaggio, gli utenti di una campagna di comunicazione o l’audience di una qualche apparizione Tv. Cambiare strada, non verso. Prima che l’eccezione non divori soltanto gli attuali ‘sovrani’ che l’hanno decisa, ma quelli che vorrebbero vivere nella normalità di un Paese normale, dove la politica rappresenta i cittadini e non i poteri, dove la trasparenza è meglio della segretezza, dove essere realisti in politica non vuol dire tramare come un agente segreto, dove i partiti sono ben più considerati dei patti, dove il finanziamento è pubblico e la quota dei privati non condiziona la politica delle leadership. La semplicità difficile a farsi, insomma.