Combattere la recessione. Parte prima: ritorno a Keynes

per nicola
Autore originale del testo: Nicola Boidi

di Nicola Boidi

« Alcune persone ciniche che hanno seguito fin qui il ragionamento concluderanno che soltanto una guerra può far cessare una grossa depressione. Perché fin qui la guerra è stata l’unico oggetto di stanziamenti statali su larga scala giudicato rispettabile dai governi. In pace, invece, essi sono timidi ,iperprudenti, poco convinti, privi di perseveranza o decisione, uno stanziamento è visto come una passività e non come un anello nella trasformazione in utili capitali fissi delle risorse in eccesso della comunità, risorse che altrimenti andrebbero sprecate».

J.M. Keynes

Il perseguire una politica economica che combatta e sconfigga la Grande Recessione persistente almeno qui da noi in Europa (mentre l’America di Obama se la sta lasciando alle spalle), da ormai sette anni, una politica che aspiri a una crescita economica in tempo di crisi, preliminarmente richiede che si assuma un concetto selettivo di crescita economica.

Se per recessione economica s’intende un processo grave e prolungato di crollo degli investimenti e della produzione di ricchezze, e conseguente crollo dell’occupazione, degli stipendi, dei consumi e a cascata la discesa ai minimi termini della spesa pubblica sociale a protezione di coloro che sono entrati in questa spirale recessiva infernale (dei sussidi di disoccupazione, della sanità gratuita, del diritto alla casa, della scuola pubblica e dei servizi collettivi di base), allora una politica economica anticiclica si deve prima di tutto prefiggere d’incidere su questo crollo generalizzato della domanda aggregata (della totalità dei consumi individuali) susseguente a questo tracollo della struttura portante di una società, la sua classe media e medio-bassa. E questo deve accompagnare, anzi precedere, gli interventi di stimolo economico all’offerta (agevolazioni fiscali per gli investimenti produttivi e per le nuove assunzioni, facilitazioni legislative nei rapporti di lavoro, immissioni di liquidità sotto forma di acquisto di titoli pubblici e privati da parte della Banca Centrale, etc.) pur ugualmente importanti e necessari.

La logica «macroeconomica» di fondo che dovrebbe essere ricercata, tanto dalle istituzioni dell’Unione Europea che a livello dei governi dei singoli Stati nazionali, non corrisponde a quella della ricerca ossessiva, fideistica,«fondamentalista», del pareggio di bilancio, della riduzione (e in prospettiva a medio-lungo termine, dell’azzeramento) del debito pubblico degli Stati, dell’osservanza intransigente del limite del 3% del deficit (differenziale tra la spesa e il Pil annuo di una nazione) degli Stati «ex-sovrani» (un parametro finanziario che oggi sappiamo non partorito da un brain storm di luminari dell’economia ma suggerito in modo casuale e fortuito da un ministro delle finanze francese e fatto proprio dalle istituzioni europee al momento della ratifica del trattato di Maastricht).

Quest’ultima logica, che è l’unica ahimè attualmente in vigore all’interno della Eurozona, si maschera da programmazione «macroeconomica» mentre in realtà persegue quelle dottrine «microeconomiche» di ascendenza neoliberale, che mirano al mantenimento ordinato dei conti, alla salvaguardia del bilancio, all’evitare il pericolo d’innescare un’inflazione galoppante dei prezzi e una svalutazione incontrollata della moneta, nell’assunto sottinteso che quelle strutture «macroeconomiche» dell’offerta e della domanda, delle imprese e dei lavoratori-consumatori, se lasciate al libero gioco del mercato economico, siano destinate sul lungo periodo, anche dopo crisi devastanti quale quella attualmente in corso, a ritrovare l’equilibrio di una piena occupazione.

Tale logica corrisponde al postulato che l’economia di mercato capitalistica sia in grado di autoregolarsi, di riparare da sè ai suoi stessi «guasti» ed «errori». Eppure questo dogma dell’austerity dominante nell’economia europea avrebbe dovuto trarre insegnamento dalla storia delle crisi cicliche dei processi di accumulazione del capitale, tanto l’ultima del 2008 che la precedente del 1929, e dai modi più efficaci con cui esse sono state affrontate, in particolare proprio nella patria, almeno di «elezione», del capitalismo: gli Stati Uniti d’America.

Tanto l’amministrazione Roosvelt negli anni 30 e 40 del novecento, che l’amministrazione Obama in questi ultimi sei anni, hanno indicato una strada diametralmente opposta alla via neoliberale, una «via keynesiana» alla lotta al «drago» dei cicli economici. La volta scorsa abbiamo visto come l’amministrazione Obama abbia portato avanti le sue politiche keynesiane di impegno pubblico in economia che da due anni in qua stanno dando finalmente i suoi frutti, riducendo i tassi di disoccupazione dal 10 % al 5,5% in questo inizio 20015, con 3 milioni di nuovi posti di lavoro nell’ultimo anno, (295.000 nuovi occupati nel solo mese di Febbraio appena trascorso). Ma lezioni di politica economica in tempo di crisi ci possono venire ancora da una rapida ricognizione del New deal di Roosvelt degli anni ’30 e delle teorie economiche di J.M. Keynes che l’hanno supportato, a rinfrescare la memoria di coloro che sono di memoria corta, anche se, come si sa, «non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere».

Prima ancora che la rivoluzione del governo dei processi economici promossa dalle teorie d’interventismo diretto dello Stato, del suo farsi promotore di investimenti, imprenditore «in prima o ultima istanza», garante di protezione sociale per chi era lasciato alla mercè della Grande Depressione, si organizzassero in un corpo definitivo e coerente di teoria economica nella celebre Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata solo nel 1936 da John Maynard Keynes, F.D. Roosvelt si era trovato obbligato ad essere keynesiano ante litteram, per spirito d’intuizione e urgenza pragmatica.

Infatti data dal giugno del 1933 la svolta nelle politiche sociali ed economiche della sua amministrazione, nel momento in cui il presidente americano si era reso conto che continuare a perseguire l’ortodossia neoclassica della riduzione della spesa pubblica, del governo del debito pubblico, dell’aspettare che l’economia si assestasse e rilanciasse da sé, non portava alcun frutto davanti alla marea montante di disoccupazione (in quell’anno aveva toccato il 25 % della popolazione attiva), al crescere conseguente delle proteste e dei disordini pubblici, al pericolo paventato di «sommosse rivoluzionarie». L’urgenza di fare qualcosa, d”intervenire per alleggerire una situazione sempre più insostenibile, fu la molla pratica che fece di Roosvelt e della sua amministrazione, un gigantesco esperimento di economia di mercato «raccattata per terra e rimessa in piedi» dall’interventismo statale; compagno di questa straordinaria avventura fu il nuovo presidente del board della Federal Reserve (il consorzio di banche private che fanno capo alla Banca federale), Marriner Eccles, magnate dello zucchero di barbabietola e di una grande catena di caseifici e segherie, nonché proprietario della First Security Corporation che gestiva ventisei banche (dunque non sospettabile di «inclinazioni comuniste») che grazie alla sua esperienza nel settore si era convinto che il Paese avesse bisogno di una grande spinta alla domanda.

Eccles invocava lavori pubblici finanziati dal deficit del governo federale: «Ci sono momenti in cui prendere in prestito soldi e momenti per restituirli. Dovete pensare ai disoccupati se non volete trovarvi una rivoluzione in questo paese». Eccles rimase presidente del board della Federal Reserve dal 1935 al 1949. In quegli anni il Tesoro americano acquistò i buoni governativi (titoli di Stato) a lungo termine per creare un forte mercato delle obbligazioni e ridurre il tasso d’interesse a lungo termine; furono spese enormi somme dal governo per dare lavoro ai disoccupati. I due più stretti collaboratori di Roosvelt, Harold Ickes ministro dell’interno, e Harry Hopkins, furono messi a capo di un serie di programmi di opere pubbliche, e rispettivamente il primo della Public Works Administration e il Civil Conservation Corps (un corpo specializzato nella riforestazione e ampliamento dei parchi nazionali) che coinvolsero un quarto di milione di persone in «lavori socialmente produttivi», il secondo della Civil Work Administration, un programma d’interventi di emergenza per creare quattro milioni di posti di lavoro.

Il deficit del settore pubblico si aggravò di 6 miliardi di dollari nel giro di un anno. La Civil Work Administration avviò al lavoro milioni di disoccupati nel volgere di pochi mesi. Quegli occupati costruirono e ristrutturano una serie colossali di infrastrutture. Tra Cwa e Pwa furono costruite 160.000 Km di strade asfaltate, e ne ripararono 800.000 di strade sterrate. Costruirono 85.000 ponti, 40.000 scuole, crearono o migliorarono 10.000 areoporti. Il Ccc ( Civil Conservation Corps) impiegando sopratutto giovani, piantò 3 miliardi di alberi e migliorò la struttura dei parchi nazionali. Un altro ente costituito allo scopo, la Tennessee Valley Authority, costruì sul fiume Tennessee un sistema di 16 dighe e portò elettricità, scuole, parchi pubblici a uno tra i più poveri Stati del Paese. Un anno dopo l’altro, costantemente, la disoccupazione diminuì: dal 25 % del 1933 passò al 17 % del 1934 e nel 1935 era ulteriormente scesa al 14,3%. Nel 1936 la produzione a livello nazionale era ritornata ai livelli del 1929. Tanto che, quando nel giugno del 1937 produzione, profitti e paghe, erano ritornati ai livelli ante crisi, Roosvelt, Eccles e i consiglieri più fidati del presidente, furono indotti a ritenere che i progetti del New Deal avessero funzionato e che fosse giunta l’ora di invertire la rotta, riabbracciare l’ortodossia liberista, optare per i tagli alla spesa pubblica, per una stretta sul credito e per l’aumento delle tasse.

Di conseguenza le attività delle agenzie deputate alla creazione di posti di lavoro rallentarono. Ma l’America ripiombò nella recessione nel secondo semestre del 1937 e per tutto l’anno seguente, il 1938: crollò un terzo della produzione industriale, i prezzi diminuirono (deflazione) di circa il 3,5% e la disoccupazione risali di 5 punti, al 19%. Già nel gennaio del 1938 Roosevelt cambiò di nuovo rotta presentando al Congresso una legge relativa a stanziamenti per circa 5 miliardi di dollari per finanziare nuove iniziative per la creazione di posti di lavoro. Disse Roosevelt: «La stessa stabilità delle nostre istituzioni democratiche (facendo riferimento indiretto alla situazione politica in Germania e in Italia, Ndr) dipende dalla determinazione del nostro governo a dare impiego agli uomini inoperosi».

J.M. Keynes gli suggerì di concentrarsi sulla costruzione di nuovi alloggi «in quanto di gran lunga il miglior aiuto alla ripresa» e di limitare gli attacchi alle grandi imprese, imputati da Roosvelt della nuova ricaduta nella recessione, perché questo rendeva gli uomini di affari, a parere di Keynes, «perplessi, sconcertati, addirittura terrorizzati». «Se li fa sprofondare in un umore cupo, restio, terrorizzato… le merci della nazione non potranno essere portate al mercato». Sotto la minaccia del riarmo della Germania di Hitler Roosevelt ordinò un massiccio riarmo: nel 1940 la spesa per l’industria bellica raggiunse i 2,2 miliardi di dollari, e l’anno seguente toccò la cifra record di 13,7 miliardi di dollari.

Osservò Keynes: «se la spesa negli armamenti risolverà davvero il problema della disoccupazione, allora è iniziato un grande esperimento; potremmo imparare un paio di trucchetti che verranno utili quando arriverà il giorno della pace». L’effetto moltiplicatore di tanti soldi pubblici pompati nell’economia americana determinò un balzo del Pil di 25 miliardi di dollari (armi e stanziamenti per il ministero della difesa valevano da soli il 46% di questo aumento). Solo nel 1941 la disoccupazione negli Stati Uniti ritornò ai livelli del 1937, e poi le politiche di armamenti, le vicende belliche e postbelliche, contribuirono a completare il processo.

Se Roosvelt ed Eccles non furono allievi diretti delle lezioni, degli insegnamenti, delle dottrine e delle teorie di J. M. Keynes, non così fu per diversi tra i più stretti collaboratori della loro amministrazione: tra questi Felix Franfurter, professore di diritto amministrativo a Harvard, capo del brain trust presidenziale; il ministro del lavoro Frances Perkins; il vice del presidente della Fed Eccles Lauchlin Currie, un economista istruito alla Lse e a quella che ormai era diventata la «testa di ponte» della dottrina keynesiana nel sistema universitario statunitense: l’università di Harvard. Eccles e Currie si impegnarono ad arruolare una schiera di giovani economisti che la pensavano come loro alla Fed e in altre agenzie del governo. L’obiettivo era quello di avviare un serio reclutamento di keynesiani negli uffici chiave di Washington.

Il frutto di questo parto fu la cosiddetta National Planning Association, a cui presero parte gli entusiasti giovani economisti di Harvard tra cui: l’econometrista e esperto di Statistica Kuznets, i futuri premi nobel per l’economia Tobin e Galbraith, Samuelson futuro autore del celebre manuale di economia Fondamenti di analisi economica, il non più giovane Hansen, un economista classico che si convertì al keynesismo e diventò celebre per aver formulato, insieme ad John Hicks (un allievo«pentito» di Von Hajek) in forma grafica il complesso rapporto sviluppato da Keynes tra tassi d’interesse, offerta di liquidità, investimenti-risparmi e reddito nazionale, con il cosiddetto modello IS-LM( Investment Saving/Liquidity preference Money supply).

Tutti costoro contribuirono in maniera determinante a trasferire le teorie economiche di Keynes dalle aule delle università americane alla prassi politica dell’amministrazione Roosvelt. Ma quali furono queste teorie diventate in pochissimo tempo il nuovo vangelo della lotta alla Depressione economica? Innanzitutto va rammentato il cosiddetto «moltiplicatore di Kahn » (dal nome del più geniale allievo britannico di Keynes che ne diede la formula matematica compiuta): lo sfondo generale di questa teoria è dimostrare che l’aumento degli investimenti di mano pubblica alimenta la domanda aggregata senza una crescita catastrofica dell’inflazione (dei prezzi dei beni di consumo primario); su questo sfondo il «moltiplicatore» intende dimostrare che gli investimenti pubblici, persino se aumentano il debito, possono rientrare rapidamente dei costi perché riducono drasticamente la disoccupazione. Più precisamente gli investimenti pubblici si ripagano da soli perché riportano al lavoro i disoccupati; i nuovi posti di lavoro a loro volta incoraggiano le imprese a investire per approfittare della nuova domanda da parte dei neoassunti e di conseguenza i nuovi posti di lavoro creati dal governo sarebbero presto accompagnati da nuovi posti nel settore privato per fornire merci e servizi ai nuovi assunti pubblici.

Lo stimolo nuovo dato ai commerci creerebbe nuove attività, perché le forze della prosperità, come quelle della depressione (o recessione) operano con un effetto cumulativo. Sia Kahn che Keynes intendono dimostrare che il costo dell’investimento pubblico viene pareggiato da varie contropartite: l’aumento delle entrate fiscali, il risparmio pubblico in sussidi di disoccupazione, l’aumento del surplus d’ importazioni rispetto alle esportazioni, l’aumento dei risparmi privati derivanti da profitti e il cambio nel tasso d’interesse dovuto all’aumento dei prezzi. Sul meccanismo del moltiplicatore osserva Keynes:« Se le risorse del paese fossero già al livello di pieno utilizzo, allora questi acquisti aggiuntivi (derivanti dagli stipendi dei nuovi assunti e dai sussidi di disoccupazione o retribuzioni previdenziali supplementari elargite, Ndtr.) si rifletterebbero principalmente nei prezzi più alti e nell’aumento delle importazioni. Ma nelle attuali circostanze (Sud Europa 2015?, Ndtr.) ciò si verificherebbe solo per una piccola quota del consumo addizionale dato che la sua maggioranza netta sarebbe soddisfatta senza particolari cambiamenti nei prezzi grazie alle risorse interne che al momento non sono utilizzate. I nuovi assunti che forniscono le merci aggiuntive acquistate dagli assunti nelle nuove opere a loro volta spenderanno di più favorendo in tal modo l’impiego di altri lavoratori e così via».

Conclude Keynes che non il pareggio di bilancio ma la dimensione della domanda aggregata della nazione, il «reddito nazionale», è ciò che va prefissato e perseguito. «Non vi è alcuna possibilità di riportare in pareggio il bilancio se non aumentando il reddito nazionale (la somma dei redditi dei singoli lavoratori occupati) , sinonimo di aumento dell’occupazione».

Altro caposaldo della rivoluzione keynesiana consiste nello smontare l’assunto della teoria economica neoclassica, derivante dalla legge di Say, secondo cui «l’offerta crea la propria domanda».«La legge di Say dà per implicito che un risparmio individuale porta inevitabilmente a un parallelo atto di investimento, o che se la gente non spende i suoi soldi in un modo li spenderà in un altro». Keyens contrappone alla legge di Say il concetto di «preferenza per la liquidità», il motivo per cui i risparmi non si traducono automaticamente in investimenti. Alla base di quella legge economica (autentica pietra angolare dell’edificio teorico neoclassico) sta l’assunto che il costo del denaro o tasso d’interesse deriva dal rapporto tra risparmio e investimento: se troppa gente risparmia i tassi cadono, incoraggiando a investire nelle imprese per massimizzare il rendimento; se viceversa troppo pochi risparmiano, i tassi d’interesse salgono per attirare più risparmiatori. Keynes rovescia questo rapporto ed è convinto che abbastanza spesso i risparmiatori invece di piazzare i soldi in banca o investire in Borsa preferiscono tenere i risparmi liquidi (in contanti) per approfittare delle circostanze in rapida trasformazione.

La «preferenza per la liquidità» rovescia il classico rapporto tra risparmi e investimenti, perché se un risparmiatore fosse convinto di aspettare per avere un’occasione più favorevole, manterrebbe i suoi risparmi in contanti o li «tesaurizzerebbe» in gioielli o in oro. A causa della preferenza per la liquidità i tassi d’interesse vengono mantenuti più alti del necessario affinchè le banche possano offrire ai risparmiatori un bonus per convincerli a separarsi dai loro soldi. La preferenza per la liquidità vanifica, a giudizio di Keynes, il concetto «sensato» di maggior valore del risparmio rispetto alla spesa, tipico dell’economia neoclassica: «L’idea assurda anche se quasi universale, che un atto di risparmio individuale è positivo per la domanda effettiva quanto un atto di consumo individuale, è errata». «E’ un errore difficilissimo da sradicare dalla testa delle persone. Nasce dalla convinzione che il possessore di una ricchezza desideri il capitale in quanto tale, mente quello che desidera realmente è il suo rendimento futuro».

Alle accuse che gli furono rivolte in quegli anni da parte dei liberisti di volere progettare un ‘economia e una società totalitariamente governate e controllate dal potere politico centrale, Keynes controbattè che si trattava solo di comprendere quando le circostanze richiedevano di limitare o viceversa di allargare il libero gioco delle forze economiche. Keynes era convinto che una società prospera in cui tutti avevano un’occupazione era la garanzia migliore per l’indipendenza di pensiero e azione individuali, condizioni indispensabili per una vera democrazia. E concludeva: «Se gli investimenti statali nelle opere pubbliche riescono a favorire un volume aggregato di produzione corrispondente a un pieno impiego per quanto è possibile, allora la teoria (dell’economia neoclassica, Ndtr.) da qui in poi torna ad essere valida. A parte la necessità di controlli centrali per favorire un aggiustamento tra la propensione a consumare e quella a investire, non vi sono più ragioni di prima per socializzare la vita economica».

Se queste sono le lezioni di economia che ci provengono dalle teorie keynesiane (pur necessariamente esposte qui in modo sommario e rozzo) e dalle prassi politiche economiche tanto del New Deal di Roosvelt negli anni trenta e quaranta del secolo scorso che dell’America di Obama oggi, quali sono le possibilità di metterle in pratica nel contesto europeo, il contesto dell’impossibilità di manovre in sovranità monetaria e conseguente impossibilità di investimenti in spesa pubblica in deficit degli Stati (ex) sovrani? E’ possibile ipotizzare uno spazio di manovra che fuoriesca dalla soffocante presa dell’ Austerity e del Fiscal compact? E’ ciò che dovremo esplorare la prossima volta.

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