ConSenso riflessioni a Sinistra

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Tommaso Sasso,
Url fonte: https://www.comitaticonsenso.it/sites/comitaticonsenso.it/files/consenso_riflessioni_centrosinistra.pdf

Documento elaborato e illustrato da Tommaso Sasso all’assemblea nazionale del 28 gennaio. Rappresenterà un punto di partenza per confrontarsi nei comitati, nelle assemblee e in ogni spazio di Consenso – 2 febbraio 2017

 

Riflessioni per un nuovo centrosinistra

Lo scorso 4 dicembre il Paese ha lanciato un netto segnale che deve essere interpretato e raccolto. Milioni di cittadini italiani non hanno soltanto bocciato il tentativo di distorcere l’assetto istituzionale del Paese. Non si sono limitati a esprimere un duro giudizio sulla classe dirigente che per quel progetto di riforma si è spesa in ogni dove. In tutta evidenza hanno allo stesso tempo, più o meno consapevolmente, radicalmente contestato il modello di sviluppo e di civiltà verso cui sono scivolate le democrazie occidentali. Si tratta di un modello frutto del divorzio non consensuale tra capitalismo e democrazia, che si è retto e si regge sulla crescita esponenziale della forbice delle diseguaglianze. Non a caso, è nelle diseguaglianze che va individuata la genesi della crisi che attraversiamo, non affrontata adeguatamente, quando non addirittura aggravata, dall’azione dei governi.

I processi di drastico impoverimento ed emarginazione del ceto medio danno i loro frutti su ambedue le sponde dell’Atlantico, dove crescono le destre e i populismi, aumenta la disaffezione e il distacco di ampie fasce popolari dalla vita pubblica. Sono tendenze che affondano le loro radici negli esiti della logica stessa del capitalismo finanziario: la progressiva compressione del pluralismo nei vari ambiti della vita sociale – cultura, morale, diritto, politica – vede infatti l’ordine economico modellare le altre sfere, creando un blocco solo apparentemente più compatto. In realtà, l’esaurirsi di alternative interne al sistema da una parte scoraggia la partecipazione e dall’altra apre la strada a contestazioni non mediate, distruttive dell’ordine dato.

Si tratta di un processo di lungo corso, che ha preso piede con la fine del trentennio postbellico e che si accompagna, in uno stretto rapporto causale, allo sviluppo della finanziarizzazione del capitalismo. È frutto di un capovolgimento del modello di sviluppo adottato nel secondo dopoguerra, fondato sulla centralità del lavoro, sul protagonismo pubblico in economia e su una partecipazione popolare organizzata alla vita pubblica. Tale capovolgimento, risalente ai primi anni ‘70, trova un’emblematica teorizzazione nel documento redatto dalla Commissione Trilaterale nel 1973. In esso, si denunciava un sovraccarico di democrazia e la conseguente necessità di comprimere gli spazi di partecipazione, verticalizzare i processi decisionali, slegare il mercato e l’iniziativa privata da ogni forma di vincolo politico.

Da allora, si sviluppò una controffensiva politica e culturale su vasta scala, dotata di una visione del mondo efficace e pervasiva. È forte la sua caratterizzazione antropologica, che condanna ogni forma di cooperazione e solidarietà. Il mondo viene diviso tra perdenti e vincenti. I perdenti (gli ultimi, gli emarginati, disoccupati e sottoccupati), si afferma, devono coltivare non un’aspirazione al riscatto dalla loro condizione, ma un sentimento di colpa. Non possono, infatti, far altro che riconoscere le ragioni obiettivamente fondate che fanno di loro un intralcio in una società dinamica, competitiva, meritocratica, che non ammette fallimenti, non ne indaga le cause, men che meno si pone il problema di rimuoverle. È elemento di intralcio, in questo schema, non solo chi rimane indietro. Lo è anche e sopratutto qualunque forma di organizzazione politica e sociale rallenti o peggio modifichi, con la sua iniziativa, il compiersi della legge di natura e il necessario soccombere dei deboli a fronte del giusto ascendere dei capaci.

Da una visione dell’uomo e delle cose del mondo, e da indicazioni programmatiche ammantate di scientificità, è derivata una conseguente azione di governo. Certo, la sua declinazione è stata diversa da Paese a Paese, ma accomunata da scelte strutturali. Progressivo ritiro dello Stato dalla conduzione della politica economica, detassazione dei redditi più alti, privatizzazione dei servizi pubblici, delegittimazione dei corpi intermedi, parziale dismissione del sistema previdenziale, abbattimento dei diritti del lavoro, ormai regredito a merce.

Se guardiamo al cuore della narrazione e dell’azione di governo che tirò la volata all’immorale aumento delle diseguaglianze nelle società occidentali, noteremo una marcata continuità con l’impianto ideologico tutt’oggi dominante. Nelle conferenze programmatiche dei governi ancora si insiste sullo stimolo dell’offerta, sulla necessità di rimuovere i lacci che legano il mercato, sulla riduzione della spesa pubblica. Negli USA, l’Amministrazione Obama ha provato a invertire la tendenza. Vi è riuscita però solo in piccola parte, e per l’opposizione repubblicana in Parlamento e per una risoluzione forse troppo timida del Presidente. Nel Vecchio Continente si è lontani anche soltanto dalla promozione di misure vagamente anticicliche. Tutti gli indicatori economici e la crescita di forze xenofobe e neofasciste dimostrano chiaramente l’insostenibilità democratica e sociale dell’indirizzo di politica economica trasversalmente adottato. Eppure si fatica a superarlo, invertendo radicalmente la rotta. È tempo di chiedersi perché. Un paradigma politico, economico, antropologico non si supera con qualche aggiustamento al margine, ma avanzando un’alternativa altrettanto capace di abbracciare più ambiti della vita civile. Che sia necessario un salto di qualità nell’analisi e nella proposta politica lo dimostra la cattiva prova data da parte delle forze socialiste e progressiste europee in questi anni. Esse si sono intestate la difesa di un paradigma in procinto di crollare. È sufficiente guardare all’azione di governo francese e italiana degli ultimi anni, o alla condizione di subalternità al centrodestra dei socialdemocratici tedeschi, per toccare con mano la dimensione del problema. Sembra che settori autorevoli del socialismo europeo, aderendo all’altrui idea di politica e società, abbiano smarrito le proprie ragioni d’essere. Ragioni che tocca a noi contribuire a riportare alla luce e a far rivivere nell’iniziativa politica. Anzitutto, attraverso l’adozione di un sistema coerente di interpretazione della realtà, che poggi su un’idea-forza adeguata alle sfide che ci fronteggiano. Essa pensiamo possa trovarsi nel nesso tra uguaglianza e democrazia. La seconda è infatti attuale se rimane fedele alla sua ragione fondativa, ossia la prima. Negli ultimi anni sono emerse a sinistra forze tra loro diverse, dentro e fuori la famiglia socialista, che su questo nesso hanno costruito la loro piattaforma politica e programmatica.

Nel perimetro del socialismo europeo, i segnali sono positivi e incoraggianti. La sconfitta di Valls alle primarie in Francia, il sostegno del PSOE alle amministrazioni di sinistra non socialiste di Madrid e Barcellona, il vincente tentativo dei socialisti portoghesi di governare col sostegno delle sinistre, il Labour di Corbyn e non da ultimo il prezioso lavoro di elaborazione culturale e programmatica che viene svolto a Bruxelles, indicano la giusta risposta al dilemma davanti cui si trova il socialismo europeo. Esso deve essere coprotagonista, al seguito dei popolari, del disegno conservatore, provando tutt’al più a smussarne le spigolature? O deve, invece, battersi per l’apertura di una stagione politica che lo veda cambiare interlocutori, programmi e obiettivi?

Fuori dal suo perimetro, sono nati in questi anni partiti che hanno rinnovato e dato forza alla sinistra europea, come Syriza, Podemos o die Linke. Si tratta di forze che, se incluse in un comune progetto politico, ne costituirebbero un pilastro fondamentale. In breve, il campo largo della sinistra progressista europea è in movimento. Le esperienze che vi hanno preso piede, pur molto diverse tra loro, hanno il merito di ricordarci come l’uguaglianza non sia soltanto una perorazione intellettuale. Essa è una costruzione politica che crea una coalizione di forze che lottano per conquistarla. Si tratta certamente di esperienze da consolidare, sia per la condizione di isolamento di alcune delle forze nate al di fuori delle famiglie politiche tradizionali, sia per la fatica che, in alcuni importanti Paesi, fanno i filoni di pensiero critico interno ai partiti socialisti a egemonizzare il proprio campo.

Sono ragioni in più per costruire le condizioni per un cambio di passo anche in Italia. Questo chiedono gli oltre sei milioni di elettori del NO riconducibili all’elettorato storico della sinistra italiana.

Incontriamo, a questo proposito, un punto d’analisi nodale. Il NO referendario può senz’altro essere ricondotto alla sofferenza e al malessere che hanno portato Trump a Washington, alla vittoria della Brexit e che alimentano il lepenismo in Europa. Ma non si dica che tale malessere si traduce in blocco in pulsioni antisistema. In una parte considerevole (appunto circa sei milioni di italiani su diciannove), deve essere letto come un’accorata richiesta di una forza politica progressista, larga, plurale, radicale nella proposta e allo stesso tempo vocata al governo del Paese.

Che questa forza si chiami o meno Partito Democratico non è il fulcro della nostra discussione. A noi interessa anzitutto porre solide basi per contribuire a rompere l’isolamento delle esperienze positive fin qui nate. Vogliamo cioè dare rappresentanza, strumenti di analisi e di iniziativa a chi oggi non si sente, per niente o in parte, a casa in nessun luogo. È l’unica via praticabile, oltretutto, per non disperdere il senso, le ragioni di storie e culture politiche che hanno fatto grande l’Italia repubblicana. È una responsabilità che sentiamo molto, dettata da un’amara constatazione. Quei sei milioni di elettori non si riconoscono nella deriva tardo-blairiana, aggravata da una gestione proprietaria e a tratti eversiva del potere, di una stagione che lotteremo per archiviare definitivamente quanto prima. Allo stesso tempo, non si rassegnano a doversi rivolgere a formazioni politiche piccole, votate al minoritarismo e tagliate fuori in partenza dalla prova del governo. Per questo pensiamo che il patrimonio di energie e passioni che abbiamo raccolto attorno alla battaglia referendaria debba dotarsi di una struttura organizzata. Il fine sarà quello di promuovere, in parallelo e quando opportuno in collaborazione con i partiti del centrosinistra e le loro parti più consapevoli, elaborazione e iniziativa politica che abbiano chiari obiettivi, indirizzi programmatici e metodo.

L’obiettivo è svolgere un ruolo di primo piano nella costruzione di un nuovo centrosinistra. Nella nostra idea, centrosinistra non può e non deve corrispondere a un cartello elettorale, quali che siano i valori a cui si ispira e il programma che presenta. Centrosinistra oggi è due cose. La prima, un orizzonte programmatico che riconosca l’irriproponibilità di gran parte del programma dell’Ulivo su materie qualificanti e decisive. Non certo perché noi si voglia rinnegare quell’esperienza di governo, di gran lunga la migliore della Seconda repubblica, ma perché riconosciamo il passaggio di fase consumatosi in tutte le sue implicazioni. La seconda, secondo l’ispirazione di quella stagione, l’incontro di forze progressiste di diversa matrice, estranee a ogni forma di settarismo e che assumono il già richiamato nesso tra uguaglianza e democrazia come bussola per l’agire politico.

Un nuovo centrosinistra mette il lavoro al centro della sua elaborazione e della sua iniziativa politica, trovando in esso la leva per l’uguaglianza e la condizione per il libero esercizio dei diritti democratici. Qui sta forse il legame più profondo tra la battaglia condotta in difesa della Costituzione e il seguito che vorremmo darle. Se è vero che la Carta riconosce il diritto al lavoro e a retribuzioni che garantiscano un’esistenza libera e dignitosa, in essa troviamo allora un solido appoggio su due importanti versanti. Da un lato per sostenere ambiziosi piani per l’occupazione e un’estensione adeguata delle tutele, dall’altro per la realizzazione di una delle nostre più alte aspirazioni. Far tornare il lavoro, nell’immaginario collettivo, ad essere legato alla dignità della persona. Sarebbe un mezzo di mobilitazione, politica e sociale, formidabile. Forse, per la sinistra, addirittura indispensabile.

Riportare la tutela della dignità della persona al centro del nostro agire politico ha, inoltre, precise ricadute in altri due ambiti qualificanti. Quello del nostro indirizzo di politica economica e quello del nostro orientamento su un fenomeno di enorme portata quale quello migratorio.

È ora di riconoscere serenamente che il dettato costituzionale, che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che gravano sulle persone, è in aperto contrasto con una concezione dell’economia che esclude la guida politica dei processi, a partire dalla pianificazione di pubblici investimenti in settori strategici. È infatti impossibile garantire sicurezza sociale e redditi dignitosi se non si ha potere di indirizzo sufficiente a creare le risorse necessarie, attraverso politiche che contestualmente guidino la crescita e costruiscano migliori condizioni per l’impresa privata. Un’assunzione di responsabilità in questo senso è indispensabile anche su altri importanti fronti. Anzitutto, per mettere a punto una politica industriale che risollevi il nostro apparato produttivo. A questa priorità si lega la necessaria opera di riconversione di una parte consistente della nostra attività industriale, che tenga conto delle nuove frontiere dell’energia e di parametri severi in tema di sostenibilità ambientale. In secondo luogo, per trovare un punto di equilibrio avanzato tra lo sviluppo di tecnologie sostitutive della manodopera e l’obiettivo della piena occupazione.

In sintesi, la nostra idea per la crescita e l’occupazione si ispira a un principio irrinunciabile: il capitale deve tornare ad essere soggetto a responsabilità sociale e vincolato quindi a un equilibrio ragionevole tra profitto e soddisfazione dei bisogni delle comunità in cui transita. Ciò comporta il dovere di reinvestirvi parte degli utili ricavati. Ad essere garante di detto equilibrio non può che essere la politica. È un principio che non si limita, tra le altre cose, a garantire il rispetto dell’articolo 41 della Carta, tra i più violati degli ultimi anni. Traccia anche un modo diverso di guardare all’attività economica e di impresa, in cui la bandiera dell’efficienza non si innalza ammainando quella della giustizia. L’obiezione secondo cui un nuovo protagonismo politico in economia sarebbe insostenibile non ha alcun fondamento. È il modello che da decenni grava sulle nostre democrazie a non reggere più, sotto ogni aspetto. Basti ricordare che la mole di denaro pubblico impiegato per rimediare ai disastri della deregolamentazione della finanza, a cominciare dal salvataggio di ampi settori del sistema bancario, non è certamente inferiore a quanto necessario per finanziare creazione diretta di occupazione e piani di investimento di lungo periodo. Il mito dell’infallibilità privata insidiata dai disfuzionamenti del pubblico vive ormai solo nella stanca retorica degli editorialisti mainstream.

L’ostinato accanimento nel sostegno a un modello di sviluppo esausto e il conseguente aggravarsi degli effetti della crisi, rendono più difficile la gestione di un fenomeno di portata strutturale, innescato dalla violenta destabilizzazione di gran parte del Nord-Africa a opera di attori irresponsabili. La gestione dei flussi migratori rappresenta un tornante decisivo per il nostro Paese, sotto più profili. Si tratta anzitutto di una battaglia di civiltà. Chi fugge dalla guerra o dalla miseria non solo deve ricevere accoglienza e aiuto, ma deve aver garantita la propria incolumità durante la traversata. Per questo occorre un’iniziativa determinata per l’apertura di corridoi umanitari.

Se non si vuole però che questi propositi rimangano sulla carta, è necessario impegnarsi per una ricollocazione geopolitica dell’Italia, che renda un impegno sul versante migratorio funzionale a un progetto politico. Il Mediterraneo sarà uno dei crocevia nodali del XXI secolo, in quanto ponte tra il Vecchio Continente e l’Africa, terra con potenzialità di sviluppo formidabili. È innanzitutto necessario saldare il nesso possibile tra la crisi demografica e il bisogno di nuovi sbocchi di mercato in Italia, e la domanda africana di infrastrutture, cognitive come materiali. In un quadro di ripresa degli investimenti e di politiche di crescita espansive avremo sempre più necessità, nel medio periodo, di manodopera e professionalità che supportino lo sviluppo produttivo e che contribuiscano a finanziare il nostro welfare e il nostro sistema previdenziale. Allo stesso tempo, in Africa aumenterà la domanda di servizi. Oggi, essi si vedono soddisfatti in misura crescente dal gigante cinese, dalla condivisione dei saperi alla progettazione delle infrastrutture, fino all’investimento di risorse umane ed economiche in centri di formazione professionale. Si tratta di un mercato enorme. Se l’Italia sarà in grado di intercettare parte del flusso economico che il Continente nero promana, sarà a buon titolo tra i protagonisti della progressiva industrializzazione di vaste aree, strategiche su tanti versanti, tra cui quello cruciale della produzione energetica non fossile. È evidente che si tratta di scenari che scommettono sulla pacificazione dei conflitti oggi dilaganti. È questo un terreno dove l’Italia potrà tornare a esercitare fino in fondo la sua vocazione di pace e cooperazione tra popoli. Una ricollocazione geopolitica del Paese implica un indirizzo di politica estera all’insegna della stabilizzazione di aree oggi in subbuglio. Non c’è forse Paese più indicato del nostro per contribuirvi risolutamente, vista la tradizionale capacità di dialogo anzitutto con il mondo arabo, espressa in fasi e da personalità tra loro molto diverse, da Fanfani a Craxi a D’Alema.

Qui si pone cogente il tema della partecipazione italiana al processo di integrazione europea. Un’attenzione profonda al Mediterraneo non è in contraddizione con l’appartenenza all’Ue. Ne è anzi il logico complemento. Non solo. È anche la base di una battaglia politica che porti l’Europa intera, a partire dai Paesi rivieraschi, a ripensare se stessa in relazione al suo mare. Quel che è certo, è che l’Italia può svolgere un ruolo di avanguardia che forse nessun altro è in grado di interpretare. È un ruolo in cui ad essere tutelati sono a un tempo gli interessi nazionali e, quando ve ne saranno le condizioni, dell’UE nel suo complesso. L’Europa di Maastricht ha il suo baricentro a Nord, dove si era consumato il fatto politico più rilevante di quella stagione, ossia la riunificazione delle Germanie a seguito del tracollo del blocco sovietico e dell’apertura di uno spazio politico a Est. Oggi, quel baricentro è sempre meno in grado di garantire un equilibrio soddisfacente. Il progetto politico europeo o si ripensa o muore, sia in termini di collocazione geopolitica, sia nei suoi meccanismi di funzionamento. A questo proposito, i tempi sono maturi per riconoscere serenamente che l’Europa di Maastricht è stata impostata male. O meglio, è stata costruita in modo tale da essere strutturalmente favorevole ad alcuni a danno di altri. Esistono ragioni storiche precise. Il timore che il vuoto di potere apertosi ad Est potesse distogliere la riunificata Germania dalla comunità europea, indusse in primo luogo la Francia a vedere nel progetto di unione monetaria un più forte vincolo europeo dei tedeschi. Gli altri Paesi seguirono. La contropartita fu una moneta unica di fatto ritagliata sulle misure della Germania e degli Stati rientranti nella sua orbita di influenza. L’Unione monetaria si fonda sulla lotta all’inflazione e sul mantenimento della stabilità dei prezzi. Il senso complessivo dei Trattati è che esclusivo compito della politica economica europea è rendere l’Eurozona un ambiente non-inflazionistico. La crescita economica e l’aumento dell’occupazione non fanno parte degli obiettivi di politica economica dell’Europa di Maastricht. Essi restano in capo ai singoli Stati, ai quali però è non soltanto precluso l’uso della politica monetaria, ma anche, in larghissima misura, quello delle politiche di bilancio. Non a caso, nei Trattati non si fa alcuna distinzione tra spese di investimento e spese correnti, a riprova che la spesa pubblica non è ritenuta utile alla crescita e allo sviluppo. Coerentemente, non è stato istituito alcun organo incaricato di formulare indirizzi di politica economica da sottoporre al Parlamento, quale ad esempio sarebbe potuto essere l’Ecofin. In questo impianto, è necessario riconoscere lucidamente quali interessi sono tutelati e quali no. Il contrasto all’inflazione, l’annullamento quasi completo dei margini di politica di bilancio, i vincoli anacronistici e arbitrari che limitano l’intervento pubblico in economia, avvantaggiano gli Stati creditori e i possessori di grandi capitali finanziari e peggiorano le condizioni materiali di vita di chi vive da reddito da lavoro.

Esiti ben diversi ebbe l’integrazione europea pre-Maastricht, che non indebolì, ma rafforzò, le democrazie e le economie europee. Tale fase, fin dagli anni ‘50, si fondò sulla libera cooperazione tra Stati, costruita su basi paritarie.

L’Italia prese parte a Maastricht in una condizione in cui la crisi del suo sistema politico le limitava drasticamente il margine di potere contrattuale. L’adesione dell’Italia all’Unione Europea è un processo sotto molti aspetti riconducibile alla categoria dell’internazionalizzazione passiva. Una classe politica giunta al capolinea (al netto dei diversi giudizi che su di essa si possono esprimere) vide in un vincolo esterno la possibilità di “forzare” il Paese verso la realizzazione di riforme allora ritenute necessarie. Nell’adesione all’ultima fase del processo di integrazione comunitario, la classe dirigente italiana non ha saputo definire e tutelare adeguatamente gli interessi del nostro Paese e del suo tessuto produttivo, né definire una sua collocazione strategica nell’UE. La responsabilità di questo esito risiede in larghissima parte nella dissennatezza della destra. All’Ulivo bisogna riconoscere il merito di essersi assunto la responsabilità di onorare un impegno preso da una classe dirigente scomparsa e di aver messo un freno allo sfascio della finanza pubblica.

Complessivamente, dobbiamo purtroppo riconoscere che l’Italia non solo non ha contribuito attivamente a determinare il corso del processo politico europeo. Lo ha anzi, nel tempo, prevalentemente subito. Si è così via via aggravata la condizione del Paese, su cui negli ultimi anni hanno pesato una sfavorevole congiuntura economica e i disastri imputabili ai governi Berlusconi.

Oggi, le scelte necessarie a fare dell’UE un’Unione politica, fiscale e di trasferimento sono rese enormemente più difficili dalla diffidenza, quando non ostilità, sviluppatasi tra le opinioni pubbliche europee. Lo si vede nella crescita, tra gli elettorati del Nord, di un’insofferenza quasi istintiva verso i Paesi del Sud. Questi si sono ormai solidamente affermati nell’immaginario collettivo dell’Europa settentrionale come genesi del rallentamento delle economie “virtuose”, fiaccate dallo scempio di finanza pubblica e dall’inoperosità di popoli latini pigri e inconcludenti. Altre e altrettanto solide ragioni portano a ritenere che il salto quantico necessario al completamento del processo di integrazione politica europea non avverrà nel breve periodo. Nel frattempo, non è irrealistico ritenere che l’Unione europea possa sfasciarsi. Che il processo di integrazione viva una crisi profonda, lo prova la clamorosa decisione dell’elettorato britannico di abbandonarlo. La conquista del governo di un Paese chiave dell’Eurozona da parte di una forza xenofoba e nazionalista potrebbe accelerare la disgregazione dell’Unione. Dinnanzi a un quadro la cui gravità va coraggiosamente riconosciuta, un nuovo centrosinistra, in Italia, è preso tra due fuochi ed è chiamato a giocare una partita difficile. Da una parte non può più permettersi di essere percepito dai ceti che vorrebbe rappresentare come il difensore di uno stato di cose considerato ostile e che indubbiamente mortifica i bisogni dei meno abbienti, danneggiandone gli interessi. Né può cavarsela limitandosi a indicare prospettive di cambiamento che non prevedano anche risoluzioni immediate. Dall’altra, non può certo intestarsi la posizione di chi spinge per un unilaterale abbandono della moneta unica, processo che senza alcun ragionevole dubbio vedrebbe alla sua guida forze reazionarie.

Deve dunque fare quanto possibile per disincagliare l’Europa dalle secche ideologiche in cui è arenata, e allo stesso tempo impedire che i vincoli comunitari spezzino l’ormai flebile connessione sentimentale residua tra il progetto europeo e il popolo italiano.

L’unico tentativo possibile di mettere l’Unione sui giusti binari sta in una convergenza tra socialisti e sinistra europea. Tale convergenza va costruita sul campo di un coraggioso progetto di riforma delle istituzioni comunitarie e di ridefinizione dei loro compiti, con cui incalzare le altre forze politiche. Centralità del Parlamento, trasformazione della Commissione in un effettivo Governo politico responsabile davanti all’Assemblea di Strasburgo e dotato di ampi margini di politica economica, archiviazione dei vincoli di bilancio, unione fiscale, previsione di meccanismi di trasferimento tra Stati, solo per accennare ad alcuni degli obiettivi massimi a cui un’iniziativa del genere dovrebbe tendere. All’opinione pubblica europea non va però sottoposto soltanto un programma di riforma istituzionale. Agli europei, la sinistra deve indicare una nuova missione per il Vecchio Continente. Essa deve essere frutto di una lettura attenta dei processi che stanno ridisegnando gli equilibri politici, economici, demografici del pianeta. Dovrà essere una missione che tenga conto del progressivo ridimensionamento dell’Alleanza atlantica a fronte della graduale affermazione di attori globali destinati a pesare sempre più nel governo delle grandi decisioni. Ma dovrà anche essere una missione consapevole che dall’Europa potrà venire un contributo decisivo, che pochi altri potrebbero dare, su almeno tre fronti fondamentali. Il riferimento è: ƒ

alla riforma del capitalismo finanziario; ƒ

alla definizione di una strategia di medio-lungo periodo, su cui incalzare le altre potenze regionali del pianeta, per il superamento dell’altra grande crisi globale in corso, quella ambientale; ƒ

alla ricerca di un punto di equilibrio adeguato a contenere le spinte centrifughe di un mondo ormai multipolare.

Un fronte largo della sinistra in Europa deve indicare all’Unione la via di una proposta coraggiosa, su cui portare quanti più Paesi possibile, per porre vincoli e tasse alle transazioni finanziarie, per impedire la produzione di denaro da parte di istituzioni finanziarie private, per ristabilire un legame indissolubile tra operazioni di investimento finanziario e sviluppo della cosiddetta economia reale. Deve dunque dimostrare che mettere le briglie al capitale, dopo circa quarant’anni di crescente e irresponsabile libertà è oggi, a differenza di ieri, interesse di ogni Stato sovrano. Muovendo da questa constatazione, sarà possibile costruire convergenze e centrare l’obiettivo. Rispetto a dieci anni fa, è probabile che il numero dei grandi Paesi disponibili a ragionarne sia aumentato. I danni della globalizzazione deregolamentata sono infatti tangibili ovunque. Non solo. In alcuni interlocutori, l’Europa può trovare ispirazione per riscoprire le sue antiche e ormai abbandonate vocazioni. La crisi del progetto europeo può essere misurata, ad esempio, nel fatto che dalla rivoluzione scientifica del ‘600 (verosimilmente) non era mai accaduto che l’Europa fosse seconda all’Asia negli investimenti in ricerca. È un primato dovuto in larga parte alla Cina, la stessa che investe in Africa e in Sudamerica, è all’avanguardia nelle nuove frontiere della ricerca energetica e tecnologica, sostiene la propria crescita con fiumi di denaro pubblico. È innegabile la difficoltà che un’organizzazione economicosociale a trazione individualistica come quella euro-anglosassone sconta a fronte di quella gerarco-organicistica cinese. Quest’ultima è certo per noi in larga parte irricevibile, ma la capacità di pensare lo sviluppo in relazione alle proprie scelte strategiche di lungo periodo serve all’Europa, questa sì, per gettare le basi di un nuovo umanesimo, capace di coniugare libertà e dignità della persona.

Il dominio del capitale finanziario e delle sue logiche si spezza, infatti, se si reintroducono programmi di crescita e sviluppo che sfuggono ai suoi parametri. A patto, certo, che essi siano capaci di sottrarsi all’accusa di infertilità economica. Ma chi, oggi, avrebbe coraggio, dopo più di 10 anni di crisi, di sostenere, ad esempio, che un investimento in deficit in ricerca e formazione porta meno benefici di un bilancio in pari? Volendo semplificare, non è difficile argomentare che l’elevazione spirituale della persona umana, se perseguita con intelligenza in un quadro di sviluppo pianificato, è economicamente più vantaggiosa della corsa al dividendo degli ultimi decenni.

La ridefinizione di un modello di sviluppo può già di per sé rappresentare una risposta all’altra grande questione sollevata recentemente, tra gli altri, da Papa Francesco. I danni inferti al pianeta dalla torsione predatoria dell’attività dei grandi gruppi di interesse, non sufficientemente limitata quando non incoraggiata dall’azione dei governi, mette in discussione, secondo molti osservatori, la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra. Non in tempi brevi, certo. Qui non si vogliono alimentare narrazioni catastrofistiche. Ma il  problema della sostenibilità dell’accesso al modello di consumo occidentale di centinaia e centinaia di milioni di persone, oggi lontane dai nostri standard di vita, prima o poi si porrà. E chi se non l’Europa dovrà essere in prima linea quel giorno, a tracciare gli spazi e i limiti di un modello di sviluppo sostenibile per il pianeta, offrendoli all’altrui riflessione e battendosi per la loro accettazione?

Quel che è certo, è che dovrà fare questo e altro in un mutato quadro dei rapporti di forza internazionali. La fase di forte instabilità globale, che seguì al crollo dei blocchi nel ‘91 e successivamente all’irresponsabile politica unipolare adottata dai neocon americani, non è ancora superata. Le tensioni che ne derivano, aggravate dalla natura rapace del capitalismo contemporaneo, hanno spinto addirittura il Pontefice a parlare di una Terza guerra mondiale in corso. Affinché l’Europa dia un contributo determinante a una necessaria opera di stabilizzazione, occorre innanzitutto prendere atto della conformazione ormai multipolare del pianeta. Ciò riconosciuto, è necessario domandarsi se una delle principali difficoltà all’individuazione di soluzioni e punti di equilibrio dei conflitti che esplodono in più aree del mondo, non risieda nell’inadeguatezza di istituzioni sovranazionali disegnate sui rapporti di forza del secondo dopoguerra. Se vorrà giocare un ruolo credibile, l’Europa dovrà rifiutare la logica dell’arroccamento a difesa dello status quo e battersi per una sua riarticolazione, contestuale alla necessaria dotazione, in primis delle Nazioni Unite, di strumenti di intervento davvero idonei a garantire, per quanto possibile, equilibrio e pace nel mondo.

Altri temi dovranno essere affrontati in diverse materie, ma pensiamo che a questa altezza debba collocarsi il disegno che un fronte largo della sinistra europea dovrebbe proporre ai popoli dell’Unione. È un processo che, se si avrà modo di innescare, avrà bisogno di tempi tutt’altro che brevi, anzitutto a causa della diversità di analisi, in taluni casi molto marcata, tra i partiti socialisti. Nel frattempo, è utile riflettere su come un nuovo centrosinistra si debba relazionare non a quell’Europa, ma a questa, qui ed ora. Ad oggi, gli effetti dei vincoli comunitari favoriscono chi propone un disimpegno dal processo di integrazione, penalizzando chi continua a indicare la giusta via nel suo cambiamento. Le ragioni sono chiare. Spesso, rispettare quei vincoli peggiora o impedisce di migliorare le condizioni materiali di vita dei ceti più bisognosi. A questo proposito va onestamente riconosciuto che l’adesione al processo di integrazione europea ha nell’elettorato una forte connotazione di classe. I redditi medio-alti sono generalmente meno scettici circa la meta del cammino comunitario. Non è un caso, dal momento che fino ad oggi l’Unione non è certo stata uno stimolo alla crescita e all’occupazione, cosa che è stata pagata in primis dai meno abbienti.

Se qui ed ora, piani per l’occupazione, la tutela dei diritti sociali, la messa in sicurezza del territorio nazionale, l’infrastrutturazione del Mezzogiorno, la cura dei servizi, a partire da sanità e formazione, sono impediti o irragionevolmente ridimensionati dal patto di stabilità o dalle disposizioni dei Trattati, un nuovo centrosinistra non può sottrarsi a una discussione sull’ordine delle proprie priorità. Il problema del grado di compatibilità tra le precise indicazioni programmatiche contenute nella Carta costituzionale e alcuni dei vincoli comunitari va posto per una ragione. È forte e diffusa la percezione secondo cui la sinistra, largamente intesa, è parte integrante dell’ordine dato. È necessario tornare ad accreditarsi come luogo di rappresentanza e lotta politica presso coloro che dei meccanismi della globalizzazione selvaggia, non mitigati e in parte tutelati dall’Europa di Maastricht, sono vittime.

Il senso profondo di queste considerazioni è che va individuato il modo più efficace per non abbandonare a forze anti-sistema il nostro elettorato di riferimento. Non possiamo permettercelo non solo a tutela dell’interesse nazionale, ma anche e sopratutto per il bene del processo di integrazione. È evidente che la proposta alle forze progressiste europee di tracce utili per la riforma dell’Unione e l’indicazione di un suo ruolo forte per i prossimi decenni, debba essere contestuale all’apertura di una riflessione in Italia. Se Europa federale dev’essere, è indispensabile che ci sia sintonia tra i popoli europei su questa lunghezza d’onda. Ad oggi, questa sintonia è debole, addirittura inesistente nei ceti più in difficoltà. Comprensibilmente, è arduo convincere quella parte di elettorato, costitutivo di una parte politica come quella che ci proponiamo di costruire, dell’opportunità di investire nel cambiamento di un progetto se allo stesso tempo non si agisce sugli effetti nocivi che quel progetto produce così come oggi è. In caso contrario, è assai più facile che quell’elettorato valuti come più aderenti ai suoi interessi i discorsi irresponsabili di chi vorrebbe riacquisire domattina e da solo la sovranità monetaria.

È in poche parole necessario trovare una strada percorribile per recuperare fiducia in milioni di italiani che, in virtù della loro condizione, sono oggi scettici e facilmente vittime delle narrazioni di chi vorrebbe una cesura irragionevole con Bruxelles.

Qui non si propongono soluzioni, si solleva però una questione che sarebbe forse utile dibattere, per maturare una posizione quanto più possibile articolata e approfondita, quanto meno possibile traumatica, nelle sue conseguenze, per il Paese.

In sintesi, l’Italia, nella visione di un nuovo centrosinistra, deve giocare un ruolo di avanguardia. Da una parte nell’indicare una via di salvezza all’Europa contestandone radicalmente le disposizioni suicide, dall’altra assumendo già iniziative su cui auspica (e prepara) una convergenza europea, ma che rispondono anche, nell’immediato, all’interesse delle parti più sofferenti del Paese. Pensiamo alle politiche economiche fin qui accennate o al progetto euromediterraneo delineato.

A questo proposito, non sfugge il nesso tra la ricollocazione geopolitica dell’Italia e la Questione meridionale. Tornare a proiettare le prospettive di sviluppo del Paese verso il Mediterraneo vedrebbe il Mezzogiorno svolgere la funzione nazionale che gli spetta, in un quadro in cui comunque il Sud deve, secondo quanto detto finora, tornare ad essere teatro di investimenti e creazione di poli di ricerca e innovazione. Se pensiamo a una proiezione a sud del nostro Mezzogiorno, si potrà anzitutto progettare attorno ad essa un piano strategico per la costruzione di infrastrutture e il rinnovo di quelle esistenti. I plurimi sbocchi portuali potranno essere riorganizzati e potenziati, moltiplicando i flussi commerciali. Il rinvigorimento dei trasporti interni, dall’incremento delle autostrade allo sviluppo delle ferrovie, accompagnerebbero la crescita di tali flussi assieme a un rilancio organico degli asset turistici. Un rilancio, questo, parallelamente al quale promuovere una strategia per la cultura, dalla valorizzazione dei suoi beni alla promozione delle sue attività.

Strategia che non deve solo limitarsi alla pur indispensabile tutela dal degrado della porzione di patrimonio meridionale che ne è vittima o all’adeguato finanziamento di manifestazioni che arricchiscano la vita di paesi e città. Essa deve svolgere una funzione di supporto al progetto politico di cui si vuol rendere protagonista il Paese. Un dialogo tra popoli si fonda su due pilastri: comuni interessi materiali e il riconoscimento reciproco dell’arricchimento proveniente da un confronto, anche critico, tra diverse visioni del mondo. In particolare il secondo, chiama in causa il Mezzogiorno. Le sue energie intellettuali migliori dovranno tessere rapporti e organizzare occasioni di confronto con la classe dirigente dei Paesi mediterranei e africani, accompagnando lo scambio di professionalità e progetti di sviluppo che dovrà contraddistinguere il nostro rapporto con essi.

Certo, tutto questo non basta per risollevare il Mezzogiorno. È precondizione importante, ma insufficiente. Il Sud deve tornare a formare e crescere una classe dirigente in grado di farsi interprete di una stagione di riscatto politico e morale. Sull’accezione di moralità bisogna intendersi: qui non si fa soltanto riferimento all’indisponibilità a ogni forma di contatto con la criminalità organizzata o più in generale all’onestà del personale politico. Il riferimento è più alto, ed è a una comunità che deve tornare a riconoscersi come tale, trovando le ragioni di un impegno condiviso per risollevarsi.

Una classe dirigente pubblica e amministrativa cresce nella gestione di agenzie per lo sviluppo che seguano la destinazione degli investimenti, monitorino i risultati, sottopongano al Governo correzioni o nuovi progetti realizzabili. Si forma, inoltre, nell’organizzazione dei servizi, nella cura del territorio, nell’impegno quotidiano per il corretto funzionamento della macchina pubblica, sfiancata da tagli e ipertrofia legislativa. Nulla di inedito nel panorama italiano. Pensiamo alla classe manageriale dell’industria pubblica degli anni ‘50, braccio destro dell’azione di governo che costruì i presupposti del boom. Era una classe manageriale dotata non solo di grande professionalità, ma di un orgoglio del pubblico smarritosi poi in buona parte negli anni della lottizzazione e del CAF. In tutta evidenza, condizione indispensabile per l’innesco di un processo rigenerativo della classe dirigente amministrativa passa dalla ricostruzione di quella politica.

Essa cresce su un altro terreno, quello dell’organizzazione della democrazia. In altre parole, sul terreno dell’organizzazione di bisogni e interessi che hanno necessità, per acquisire peso politico, di essere riconosciuti e coalizzati come parte in lotta con altre. Con una distinzione, valida per la sinistra. Lottando per la difesa e la tutela di una parte, infatti, essa si fa allo stesso tempo carico dei destini della comunità nazionale nel suo complesso, indicandole una prospettiva di progresso capace di difendere interessi particolari promuovendo a un tempo quello generale.

Una classe dirigente di un nuovo centrosinistra si misurerà, dunque, nella sua capacità di essere forza di governo e a un tempo soggetto che tesse una trama mobilitante capace di condizionare l’iniziativa politica contingente, spingendola quanto più possibile in avanti. È questione eminentemente meridionale e nazionale a un tempo.

I singoli non acquisiscono certo l’esperienza e la sensibilità necessarie in TV o partecipando a cicli di conferenze. Le acquisiscono invece nelle fila di un soggetto politico organizzato, che li forgi facendo sentir loro il peso della responsabilità del miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone.

È un discorso di cui può fare a meno la destra, che all’organizzazione sostituisce ora mezzi economici e comunicativi soverchianti, ora l’agitazione di un nemico (i comunisti, l’immigrato, i governi stranieri) contro cui costruisce mobilitazione e identità. Al pari della destra, ne possono fare a meno le forze impropriamente dette populiste, che cavalcano il rifiuto della politica nel suo complesso, a partire dunque dai suoi corpi (i partiti, i soggetti sociali, talvolta le istituzioni). La sinistra no. La sinistra vive dell’impegno e del coinvolgimento della porzione militante del suo elettorato e da essa trae la sua legittimazione e la sua forza. Per questo sta a noi anzitutto rigettare l’idea per cui si possa fare a meno dei partiti. In Italia, la loro sostanziale abdicazione alle funzioni proprie di un soggetto politico è stata ben più profonda che altrove. La responsabilità di questo esito va ricercata anche nella nostra parte del campo. La subalternità al “nuovismo” e all’antipolitica che segnò il PDS di Occhetto, mettendo in secondo piano la questione sociale, dette ulteriore legittimazione alla guerra santa della cosiddetta “società civile” (quella stessa società civile che ha portato Berlusconi al governo del Paese) contro il sistema dei partiti. A distanza di 20 anni, il saldo di quella stagione è addirittura drammatico. Siamo un Paese in cui quasi il 50% degli aventi diritto non vota e in cui la maggioranza del restante 50% vota per partiti proprietari privi di vita democratica interna. Il mito di una partecipazione popolare alla determinazione della vita democratica italiana, pronta a rifiorire non appena abbattuto l’odioso dominio dei partiti di massa, si è rivelato una grottesca chimera. È ora di affermare, senza tema di smentite, che la ricucitura del tessuto democratico italiano passa per la ricostruzione del sistema dei partiti. Non possiamo però pensare che basti una pur importante presa di coscienza. Dobbiamo riconoscere senza ambiguità il nesso stringente che lega il sistema politico e il modello di legge elettorale di volta in volta vigente. Questa considerazione impone un bilancio sul ventennio maggioritario e una posizione chiara per il futuro.

Innanzitutto, è necessario chiedersi: ha il ventennio maggioritario realizzato le promesse di stabilità del sistema politico? Indubbiamente no. L’unica legislatura relativamente stabile è stata la XIV, in cui ci si limitò al rimpasto che portò alla nascita del Berlusconi III. Nelle altre quattro, in due casi si sono sciolte anticipatamente le Camere e negli altri due sono cambiati Presidenti del Consiglio e maggioranze a loro sostegno nel corso dei cinque anni. Apparentemente, gli esiti non sono dunque diversi da quelli che si sarebbero determinati con leggi elettorali proporzionali. Esiti, per inciso, del tutto normali per una democrazia parlamentare. In realtà, le leggi maggioritarie hanno effetti collaterali devastanti sulla qualità della vita democratica nazionale. Possiamo individuare tre principali degenerazioni: la progressiva declassazione dei partiti a comitati elettorali permanenti, coerentemente organizzati in filiere di potere prevalentemente basate sul consenso personale di singoli capibastone divisi per bande; l’imbarbarimento del dibattito pubblico; la crescente disaffezione al voto e la crescente sfiducia nella politica. Vediamoli con ordine. Se il fine ultimo del momento elettorale non è la rappresentanza di idee e programmi per il Paese ma la designazione di vincitori e sconfitti, i partiti hanno comprensibilmente meno interesse a consolidare progetti di lungo periodo di radicamento, composizione degli interessi, organizzazione del conflitto, e conseguentemente di selezione di una classe dirigente all’altezza di tali compiti. Sono, al contrario, da un lato limitati alla produzione di slogan e di strategie di comunicazione quanto più possibile aderenti agli umori del momento, incuranti dell’assenza di un disegno per il Paese capace di guardare oltre la contingenza. Dall’altro, specularmente alla ricerca del consenso mediatico, si attrezzano alla corsa al consenso territoriale. Essa non sarebbe certo di per sé un male, anzi. È però doveroso riconoscere che quando non è legata all’affermazione complessiva di un progetto politico coerente, ma alla sola massimizzazione del risultato in vista della conquista di un collegio uninominale o peggio di un premio di maggioranza fuori misura, può facilmente prendere forme clientelari o peggio, come dimostrano recenti e poco edificanti episodi avvenuti in un’importante Regione del Mezzogiorno. Inutile aggiungere che si tratta di fenomeni che hanno una ricaduta diretta sull’organizzazione dei partiti, dove più che ai congressi su tesi o mozioni politiche si finisce per contarsi alle elezioni sul numero di voti portato o di preferenze totalizzato.

Non sfugge inoltre come, nel momento stesso in cui ogni voto può rivelarsi decisivo per vedere non aumentare, ma moltiplicare, la propria rappresentanza parlamentare, il rispetto dell’avversario passi in secondo piano in ogni occasione utile a delegittimarlo di fronte agli elettori. I dossier e il gossip finiscono quindi per contare più dei programmi, in un circolo vizioso in cui la qualità del dibattito pubblico scade sempre più. La combinazione tra le prime due degenerazioni, sortisce l’evidente effetto di disgustare l’elettorato, che oltretutto sarà spinto ad alcune semplici considerazioni. Se il voto più che a dare rappresentanza serve ad investire un capo che, stando all’esperienza degli ultimi anni, una volta divenuto dominus non può mantenere gran parte delle mirabolanti e immaginifiche promesse fatte nei talk show a cui ha partecipato, ci si chiede perché mai continuare a recarsi alle urne. Il legame evidente tra legge elettorale e sistema politico, impone dunque a un nuovo centrosinistra di spendersi per una riaffermazione politica e culturale del principio della rappresentanza proporzionale. Esso può certo essere leggermente corretto attraverso un premio che faciliti la formazione dei governi, ma a condizione che questo premio non preveda l’assegnazione automatica della maggioranza assoluta a colui che lo conquista e che anzi sia di dimensioni molto ridotte, nell’ordine di poche decine di parlamentari.

Parallelamente alla lotta per il recupero della missione e del senso profondo dei soggetti politici organizzati, va assunto un impegno determinato per allargare il perimetro dell’elettorato tradizionale del centrosinistra di questi anni. È un passaggio cruciale della nostra riflessione, questo. È un punto di metodo e sostanza. Potenzialmente, già oggi possiamo rivolgerci a quei milioni di elettori di centrosinistra che dentro e fuori il PD hanno votato NO. Essi rappresentano un punto di partenza irrinunciabile. Dobbiamo però, facendo leva su quella forza, guardare oltre, fissando un ambizioso obiettivo di mediolungo termine. Tornare cioè a coinvolgere nella vita pubblica quegli ampi strati popolari impoveriti dalla crisi e che, in una parte consistente, faticavano a votarci da ben prima del 2013. Nel nostro Paese urge un’opera di rialfabetizzazione democratica di milioni di persone. È una sfida che deve vedere la sinistra protagonista per due ordini di motivi.

Innanzitutto, perché le sue ragioni costitutive attecchiscono assai meglio in un contesto democratico sano, solido, altamente partecipato. In secondo luogo, il fatto che i diretti destinatari di una proposta politica la riconoscano e sentano propria al punto da prendere parte alla sua definizione e al suo sviluppo, rappresenta un avanzamento inestimabile per la qualità della proposta stessa, rafforzandone la capacità di penetrare nel senso comune.

Una visione alternativa delle cose del mondo, infatti, deve essere in sintonia con il sentire di larghe masse che la diffondono e la solidificano. Porsi il problema di come rendere protagoniste forze latenti è non solo utile, ma necessario. La crisi ha smosso in quegli strati sociali risorse da organizzare, e sta a un nuovo centrosinistra farlo. Un solido punto di partenza potrebbe risiedere nella saldatura, in un blocco sociale riconoscibile, dei tanti nessi nascosti nella società italiana. Ad oggi, esiste in Italia ostilità e diffidenza tra categorie i cui interessi sono, contrariamente alle apparenze, convergenti. Pensiamo solo a un piccolo commerciante o imprenditore che vede nel pubblico impiegato un parassita a cui è giusto blocchino gli avanzamenti. A quel commerciante va spiegato che senza quel giusto aumento della mensilità, uno o più articoli in meno saranno acquistati nel suo negozio. Allo stesso tempo, è facile che quel pubblico impiegato guardi al commerciante o all’imprenditore come a un evasore da sanzionare. Non comprende, dunque, che se questi chiude la sua attività, non pagherà più tasse che sarebbero potute essere destinate proprio all’aumento delle retribuzioni della pubblica amministrazione. Questo è solo un piccolo esempio. Se guardiamo al fossato che oggi divide il mondo del lavoro autonomo e delle partite iva da quello dei lavoratori dipendenti, possiamo comprendere a fondo la portata del fenomeno.

In Italia c’è chi oggi, con successo, compatta indistintamente i cittadini contro una casta politica i cui privilegi e i cui sprechi vengono additati come causa del malessere diffuso. Anziché scendere su quel terreno, è necessario compattare gli interessi di settori della società italiana che non riconoscono il proprio comune destino, in un blocco di alleanze che faccia della lotta alle diseguaglianze la sua missione. Alle diseguaglianze, non a un qualunque capro espiatorio. In altre parole, occorre recuperare quella capacità di fare popolo, in cui il PCI si è a lungo distinto nella storia repubblicana. Fare popolo, tenere cioè insieme interessi sociali differenziati sulla base di un immaginario politico. La pratica politica e militante che ci consentirà di farlo, è in buona parte da sperimentare.

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