COSA RIMANE DEL TERMINE EDIFICANTE AI GIORNI NOSTRI?
Da giorni un’idea emerge dall’ombra, si fa presente nella coscienza. È la reazione alla lettura superficiale dei titoli delle notizie quotidiane. La riassumono saggiamente i versi di W. B. Yeats:” Straripa la marea di sangue dappertutto. La cerimonia dell’innocenza è affogata. I migliori hanno perso ogni convinzione, invece i peggiori hanno passione e intensità.”
Mi chiedo: cosa rimane del termine edificante ai giorni nostri? Ha ancora il senso che gli attribuivamo nel passato, o ha perso il significato di buon esempio, di invogliare a compiere il bene? Certamente va esaminato e dibattuto il significato di edificante, se ancora ne possieda uno. La mia è una ricerca soggettiva e periferica, ma vorrei affrontarne certi aspetti.
Ricordo che per lettura edificante si considerava la didattica sacra per trasmettere contenuti religiosi in una forma didascalica. Lo scopo della letteratura edificante rispondeva all’esigenza di guidare l’anima verso un’elevazione di tipo spirituale. In questo senso si differenziava dalla letteratura teologica dogmatica o polemica.
La letteratura edificante si articolava in una produzione moralmente impegnata, il cui scopo è quello di condurre il credente verso un perfezionamento della propria vita.
La nostra anima è evoluta dal lontano passato. È sempre riservato a chi verrà dopo a vedere le cose in modo più radicale, più vero, rispetto a chi le deve pronunciare in un certo periodo storico. Chi vive in un determinato momento dell’evoluzione umana acquisisce determinate visioni, e solo chi verrà dopo potrà giudicarle e superarle. Oggi cerchiamo di essere una individualità etica, da soli e in piena libertà, perché l’evoluzione della coscienza procede insieme con l’evoluzione della conoscenza. Oggi useremmo altre parole e altri punti di partenza per edificarci contando sulle nostre forze.
Per esempio, la gentilezza. La gentilezza è un atteggiamento benevolo e rispettoso verso gli altri. Questa attitudine, radicata nel rispetto e nell’empatia, caratterizzata dalla considerazione e preoccupazione verso gli altri, è considerata una virtù in molte culture.
Alimentata dalla compassione, la gentilezza si riflette in un atteggiamento di riguardo verso la preziosità di ogni vita. E non si limita soltanto ai rapporti con gli altri, ma abbraccia anche il rapporto con noi stessi.
Essa rappresenta un’esperienza profonda che crea significato e scopi, alimentando considerazione e apprezzamento per la dignità di ogni essere vivente.
In un mondo sempre più distante e impersonale, la gentilezza assume un ruolo che non esito a dire edificante. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e mi risulta difficile essere gentile con persone a prima vista antipatiche, mentre proprio con quelle la gentilezza mi aiuterebbe per stabilire un ponte di mutua accettazione. Come dire, devo lavorarci sopra. Per esempio, devo augurare a chi sta per mettermi sotto con l’auto, di arrivare sano e salvo alla sua casa. A chi mi insulta, augurare la serenità e la pace che non ha ancora trovato.
Dare, invece di avere, edifica a suo modo. Invece di avere, di prendere, di possedere, di accumulare, c’è una energia nel dono spontaneo che ci è spesso ignota. L’avere, e il credere erroneamente di avere poco, alimenta l’invidia verso chi ha di più e ci spinge in una spirale senza uscita. Si percepisce una disparità tra ciò che si possiede e ciò che gli altri hanno, che si tratti di beni materiali, qualità personali o successi. Questo sentimento può essere fonte di rabbia e frustrazione, insoddisfazione, e perfino risentimento verso chi possiede ciò che si desidera. L’avere fagocita la coscienza dell’essere. L’essere è qualcosa in più, allude a valori e ideali che vanno costruiti autonomamente, quando la volontà personale ci innalza nei momenti di dare, che ha una valenza tutta sua, ben distinta dal regalare, che sembra aspettare una contropartita materiale. Dare insomma è una esperienza ineffabile tutta da scoprire. Cominciare a porre nella coscienza il significato del dare, può essere un buon inizio per intravedere la fine di una modalità di esistenza a cui si è affezionati, e percorrere il lento passaggio dalla personalità all’individualità.
Il volontariato. Conobbi anni fa l’attività delle Missionarie della Carità in Sud America. Le Suore erano impegnate nell’accudimento di pazienti maschili abbandonati e infermi. Forte della mia seconda professione e rispondendo a un impulso spontaneo di attrazione, mi dedicai spontaneamente ad alcune istallazioni di elettricità, aiutando come potevo. Sempre mi rimaneva l’impressione della loro dedicazione assoluta. Mai, dico mai, in quel clima caldo e umido le vidi mangiare, né bere un bicchiere d’acqua, né sedersi un momento, sempre con quei vestiti completi e adatti a climi temperati, io che sudavo e mi stancavo presto! Qui compresi quello che poteva significare l’amore altruista. Ricordo con viva emozione quelle ore passate a montare ventilatori per i dormitori e scaldabagni per i più anziani. Ne ho fatto tesoro quando poi ripresi il volontariato in Italia accompagnando diversamente abili o insegnando i primi rudimenti della lingua italiani a migranti. Il volontariato ha tante forme di realizzazione e impegno, per dedicare spontaneamente il proprio tempo e le proprie capacità un’attività di utilità sociale, con lo scopo di aiutare gli altri.
Avevo intenzione di aggiungere la bellezza come altro mattone metaforico per edificare, ma mi sono accorto ben presto che occorre la disambiguazione di un termine divenuto equivoco e incerto. In parole approssimative, la bellezza di un oggetto o di una esperienza si dà se esso suscita in noi attrazione, affezione, simpatia. Il contrario di bruttezza ci indica una percezione negativa, sgradita, antipatica. Siamo quindi nel gioco di simpatia ed antipatia, nel regno dei sentimenti, e so molto bene quanto pesino le abitudini di pensiero che accompagnano tali sentimenti. Per me, trovarmi di fronte a qualcosa di bello mi spinge a pensare, a riflettere su quell’esperienza, ad arricchirmi eventualmente. Sento la necessità di riflettere, di accogliere o respingere. I sentimenti certamente sono molle motrici dell’agire e reclamano i loro diritti. Ma non creano da soli la ragioni per accogliere o respingere. Ho bisogno delle mie idee, perché il pensiero è il padre del sentimento. Faccio un esempio. Come giudichiamo l’artificiale?
Viviamo in una società in cui l’artificiale ha ormai superato la dimensione naturale. Viviamo, ci “nutriamo” e ci vestiamo di artificiale. Basta uno sguardo alle nostre case, al nostro abbigliamento, ai trasporti, ai farmaci, per strada, nei luoghi di lavoro, nelle città.
Abbiamo l’illuminazione artificiale, la neve artificiale, i tessuti artificiali. L’inseminazione artificiale, l’arto artificiale, l’operazione chirurgica fatta dal robot, l’intelligenza artificiale. Tutte conquiste che destano ammirazione, gradimento, accettazione entusiasta.
La civiltà tecnologica è cresciuta a dismisura, caratterizzata da una sempre più fantasmagorica materializzazione di idee. I dispositivi hanno effetti controllabili, sono progettati ad arte, con caratteristiche scritte in linguaggi scrupolosi e dettagliati. Sono belli a loro modo. Non si può negare che siano meraviglie della tecnologia, ma mi chiedo: l’artificiale non è il perfetto incantesimo contemporaneo dal quale siamo ammaliati? Un’arma da guerra ultima generazione, un dispositivo ultra-perfezionato per dare la morte, non sono frutto di disegni che possono suscitare gradimento e approvazione in taluni? La matematica, che certamente ha una sua bellezza intrinseca a detta degli esperti, c’è dentro fino ai capelli!
L’apprezzamento della bellezza è quindi assolutamente soggettivo. Io mi limito alla contemplazione della Natura e di certe opere artistiche, ai libri di poesia. E poi all’ascolto musicale, che è per me una esperienza unica, che non posso paragonare a nessun’altra. È quel momento di intimo rifugio, l’affiorare dei ricordi, il volo dell’immaginazione, la sensazione di elevarsi pur stando seduto al solito posto. È quel sentirsi trasportati in un altro spazio dove scorre un tempo diverso con leggi proprie. Sono quei momenti in cui non più tiranneggiano le abituali leggi della materia, perché siamo arrivati alla soglia di altri mondi. In poche parole, l’ascolto musicale può rivelarsi una esperienza spirituale.
È dunque una prova facilitata dai suoni, ma a ben vedere non è una esperienza sensoriale, lo è solo apparentemente. I toni udibili non sono ancora la musica, ma solo i viatici dell’esperienza che, ribadisco, si svolge al di là della soglia del sensibile. È l’inaudibile reso udibile. L’ascolto comune di rumori e suoni ci riporta sempre agli oggetti e alle cose, mentre la Musica non rappresenta nulla di ciò che appartenga al mondo fisico. La musica non ci conduce a oggetti specifici, sebbene le note udite meccanicamente ci riportino agli strumenti. Ma l’esperienza musicale va al di là della sensazione sonora immediata. Parte del mistero è che la musica non risiede nei toni specifici ma nelle relazioni dinamiche tra i toni, la musica nella sua vera essenza è ciò che sperimentiamo tra i toni. Con l’udito certamente ascoltiamo le note nel loro dispiegamento, ma la musica non l’udiamo con l’udito perché la immaginiamo, è una reale esperienza immaginativa che ci porta inconsapevoli all’altro lato della soglia.
La musica, infatti, ci appare come una forza che si muove in avanti, un vettore che avanza, piuttosto che un edificio statico di note. Si potrebbe anche dire che la melodia è sempre già presente e già in movimento mentre sceglie i toni che via via la manifesteranno.
FILOTEO NICOLINI
Immagine: William Butler Yeats.