Delocalizzazione: a volte ritornano

per Gabriella
Autore originale del testo: Chiara Organtini
Fonte: pagina 99
Url fonte: http://www.pagina99.it/news/economia/7730/Il-silenzioso-ritorno-delle-aziende-italiane.html

di Chiara Organtini da pagina99  21 dicembre 2014

All’estero non hanno trovato l’Eldorado. Ora molte imprese riportano qui la produzione. Un fenomeno che interessa anche le Pmi. Finora è stato fatto poco per stimolare i rientri. Ma il governo ha un piano nel cassetto

A volte ritornano. Tornano le aziende e le linee produttive in Italia dopo aver delocalizzato in Cina, Est Europa, Sudest asiatico. Nessun senso di colpa ma tanto pudore. Perché chi torna a produrre è come se dicesse urbi et orbi di essersene andato, d’aver fatto off shoring. E allora non stupisce che manchino i dati presso l’Istituto del commercio estero e Invitalia, che lavorano all’internazionalizzazione delle imprese italiane e agli investimenti esteri diretti sul territorio nazionale. Non esistono banche dati istituzionali perché è mancato il monitoraggio su chi ha fatto off shoring. Lo si sapeva, ma le briglie son rimaste sciolte.

Si è perso il 30% del manifatturiero per colpa della crisi e della delocalizzazione; senza però avere certezza se fosse solo il tracollo economico a determinare un incremento nella produzione off shore. La multilocalizzazione, va detto, è partita negli anni ’90. Due fatti, tuttavia, sono da subito limpidissimi: il back shoring esplodeva durante le due grandi recessioni (del 2008 e del 2011) mentre la new economy – l’industria dei servizi – perdeva la sua scommessa in Italia.

Così gli imprenditori italiani hanno fatto e – con picchi nel 2008 e nel 2013 – continuano a fare reshoring (alias, back shoring) ma non lo dicono. Lo dice però una ricerca del gruppo universitario Uniclub MoRe Reshoring (costituito dagli atenei de L’Aquila, Modena, Reggio Emilia, Udine, Bologna, Catania), che ha creato un database con circa 500 evidenze e ha analizzato i fattori determinanti per il ritorno, prendendo in esame, in particolare, 79 casi di rientro. Le motivazioni, principalmente economiche: a determinare il rientro per il 95% sono gli alti costi del trasporto dal Paese di produzione al mercato di destinazione; l’87% dichiara anche di essere rientrato per l’impatto positivo del Made in Italy e perché la qualità delle produzioni locali (cinesi ed est europee) si è rivelata scarsa. Gli incentivi alla rilocalizzazione hanno inciso solo per un 28% – più di un terzo delle aziende rientrate non hanno incontrato una politica favorevole al reshoring – mentre il 32% ha dimostrato di avere difficoltà nel gestire le attività offshore. E se non sono potute rientrare, le imprese si sono almeno avvicinate (near shoring).

Il Paese più abbandonato è stato senz’altro la Cina con un 36%; 26,7% Est Europa, 15% Sudest asiatico; 17,4% Europa occidentale. Se a questi casi si prova a dare consistenza, se si tenta di attribuire un nome a chi il reshoring l’ha fatto – elogiandone il coraggio per il ritorno come nel caso di Beghelli, Bonfiglioli, Faac, De Rica (Generali Conserve) – ci si imbatte in aziende che storcono il naso: alcune dissimulano, altre arrivano persino a denunciare per diffamazione. Prada ha fatto 2.000 assunzioni nel 2013 e aperto 4 stabilimenti: quanta produzione ha riportato in Italia? Difficile dirlo, non sono dati accessibili. Di certo c’è che siamo il secondo Paese manifatturiero dell’Ue, il primo a cui dovrebbe interessare la certificazione per il Made in Italy. Eppure il semestre italiano si sta chiudendo senza che tale certificazione sia arrivata da Bruxelles. Altro dato certo: siamo il secondo Paese al mondo – dopo Stati Uniti e prima di Germania e Francia – a registrare il più alto numero di rimpatri produttivi.

Insomma, produrre all’estero per gli imprenditori italiani non è stato così entusiasmante: la fabbrica Italia (forse) è ancora qui. I settori traino: la moda e l’abbigliamento in genere, il calzaturiero, l’elettronica, l’elettrotecnica e la meccatronica, ma anche l’automotive. E sbaglia chi crede che il rimpatrio della produzione sia un fenomeno che riguarda solo il lusso. Certo, i rientri dei grandi brand del lusso sono aumentati del 30% dal 2009 (Euromonitor International, 2014), ma un miglioramento della posizione sul mercato del marchio non è strettamente riconducibile alla produzione “Made in” e quindi al rientro (Deutsche Bank, novembre 2014). Chi torna infatti non ha davanti a sé una strada tutta spianata.

Sono tante le piccole e medie imprese che rientrano o almeno contano sulle filiere del back to Italy, come testimonia il successo dei distretti toscani di Scandicci, Pontassieve, Valdarno, dove lavorano pelletteria e calzature. Fortunatamente Confindustria i numeri li mette in mostra. Il settore dell’elettronica, nella federazione confindustriale Anie (1.200 aziende associate), rappresenta il 20% del back shoring. Un buon numero di imprese se ne sono andate, è vero, ma son anche tornate. A patto però – secondo le 107 aziende intervistate dall’Anie – che il governo riduca il cuneo fiscale (30%), semplifichi la burocrazia (25%), e detassi gli investimenti soprattutto in Ricerca e Sviluppo (18%). E anche per un settore come il calzaturiero in cui il 68% ha delocalizzato, il 70% delle imprese in off shore, ha cambiato idea: anche con il near shoring.

Il fenomeno dei rientri è apparso evidente solo nel 2010, prima della seconda recessione: a rientrare, le linee produttive dei Balcani ed Est Europa, metà dalla Cina. Il problema delle maestranze locali non si è posto perché il calzaturiero aveva trasferito i propri tecnici di fiducia. Il professor Luigi Fratocchi, portavoce e coordinatore del gruppo UniClub che ha contribuito agli studi sul back shoring prodotti da Anie e Assocalzaturifici – secondo classificato per rimpatri – ammette chiaramente che del fenomeno e dei suoi numeri si dibatte molto. L’European Economic Social Committee (Eesc) lo aveva infatti coinvolto per presentare i dati della ricerca di UniClub, in un’audizione pubblica tenutasi a Bergamo, a febbraio. Il back shoring è uno degli strumenti per incrementare il manifatturiero del 20%, secondo l’obiettivo Ue con la strategia 2020. Per la Commissione il rimpatrio produttivo, oltre a essere un driver importante per la crescita economica Ue, deve diventare un asset di politica industriale di ogni Paese membro; anche perché l’off shoring non è ancora morto e i posti lavorativi rimpatriati non saranno mai pari a quelli delocalizzati, per tipologia e professionalità.

Ma cosa ha fatto l’Italia per attivare questa politica industriale? Fondamentalmente ci si è barcamenati tra gli annunci di grandi riforme (semplificazione della burocrazia, cuneo fiscale, lavoro) e il timore di penalizzare chi invece in Italia è rimasto. Nel piano Destinazione Italia, creatura del governo di Enrico Letta, si volevano creare tavoli sulle crisi occupazionali ai quali affiancare – tramite dati da un centro di ricerche Ue – politiche attive pro-reshoring. Ma evidentemente qualcosa non ha funzionato: quei tavoli non ci sono.

Giampaolo Bruno, ricercatore dell’Ice, preferisce un approccio realistico per spiegarne il fallimento: «Siamo al 15% del Pil sugli investimenti esteri diretti; contro il 36% e il 42% di Francia e Germania. E noi, così, possiamo riportare gli imprenditori in Italia? Come Paese siamo stati più bravi a delocalizzare le produzioni: le condizioni del contesto sono tuttora difficili e il reshoring in Italia resta un fenomeno atomistico». Ma anche qui, mancano i dati: il Fraunhofer Institute tedesco svolge uno studio ogni due anni sull’off e il back shoring, con tanto di saldi e suggerimenti di azione. L’Ice, in collaborazione con il Politecnico di Milano lo farà quest’anno per la prima volta: una banca dati, resa pubblica a febbraio 2015. E nel frattempo?

Ci pensa Carlo Calenda, vice ministro allo Sviluppo economico, delegato da Palazzo Chigi a gestire la patata bollente: o si riscrive il Destinazione Italia o al piano si rimette mano, soprattutto nella sua parte attuativa ancora monca (i decreti). E Calenda, infatti, non nega che ci si stia lavorando ma vorrebbe mantenere il massimo riserbo, anche perché – finché non si trovano tutte le risorse, si rischia “l’annuncite”. E lo sanno bene dalle parti di Invitalia che considerano lo Sblocca Italia un superamento del piano Letta: quei 130 milioni, o forse più, destinati all’Ice, dal Destinazione Italia, ma su cui avrebbe mantenuto le competenze Invitalia, non ci sono. E chissà se ci saranno mai.

Da fonti governative pare però che la creatura di Domenico Arcuri, ad di Invitalia, dovrebbe svolgere nel 2015 insieme all’Ice un progetto pilota per attrarre investimenti, tra cui una parte anche destinata al reshoring. Ma anche qui, con quali numeri? Il ministero dello Sviluppo economico ha licenziato un provvedimento per attrarre più investimenti (forse con l’autoimprenditorialità della legge 185/2000), favorendo anche il reshoring, ma è tutto fermo al Mef. Che già in passato bloccò alcune risorse sul Destinazione Italia.

Insomma, il rischio che “non si possa contare sui numeri” è serio e reale. E forse a poco servirà la riduzione del costo del lavoro sull’Irap, concessa dal governo Renzi, accusa Andrea Gemme, presidente di Anie: «La detrazione sull’Irap è una goccia nel mare: è una tassa iniqua, va cancellata. La politica ha tempi troppo lunghi e diventa incompatibile con l’industria. Se gli Stati Uniti diventano energeticamente indipendenti, incrementando il back shoring (minori costi per l’energia), noi abbiamo concentrato tutta l’attenzione sui mercati esteri. Se il Paese non fa sistema, allora il futuro è fuori da questo Paese. In assenza di un vero piano, io imprenditore, che torno a fare?».

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