di Alfredo Morganti – 3 dicembre 2015
Scriveva Montale che nell’attendere è gioia più compita. E io amo Montale al punto di aver colto (e cogliere) in questo verso una specie di suggerimento morale, quasi il senso di uno stile di vita. Mi piace tuttavia scrivere e pensare l’attesa come un ad-tendere, un tendere a qualcosa (questa è una suggestione cacciariana), e dunque un movimento seppur cauto verso la cosa attesa, prudente certo ma non meno radicale, semplicemente non isterico, non affrettato o, tanto meno, fuori sincronia coi tempi giusti, col kairos, col momento opportuno, quello supremo, con il tempo debito insomma. Ecco. Il mio vigile senso dell’attesa, tuttavia, pur così potente, non sconfina mai in quella vana di Godot, nel muoversi e ritrarsi continuo di chi attende, nel punto e daccapo di chi aspetta senza costrutto ma non ad-tende per davvero, non tende-a, non fa nulla perché qualcosa possa accadere, non si prodiga. Semplicemente è lì, fermo, impalato, incapace di restare o andar via, ingessato, sperando che un giorno Godot si faccia davvero vivo. Come un miracolo. E mentre Esterina, grigiorosea nube, si tuffa in mare, noi restiamo lì a guardarla, noi, la razza di chi rimane a terra (ancora Montale).
Questa metafora dell’attesa è una cartina al tornasole di quanto sta accadendo oggi a sinistra. Godot è l’uomo (l’idea, il progetto, la cosa) che si sta attendendo con cocciuta pazienza. Il Godot anti-Renzi, o il Godot post-Renzi, o l’uno e l’altro assieme. O di più. Ma è un’attesa fatta di stop ‘n go, è un muoversi e un ritrarsi assieme. Un passo avanti e uno indietro. Il neologismo che è stato coniato nella circostanza è “penultimatum”. L’immagine è quella di chi, granitico, sta concentrato sul pezzo, mentre il terreno attorno si sbriciola, mentre il mondo (il tuo mondo) getta la spugna pian piano. Si ritrae. Si sgretola silenzioso dopo anni di trambusto storico. Se, e quando, verrà Godot (ma esiste Godot?) cosa resterà? Si saranno dimenticati di noi? Di coloro che sono stati lì ad attendere per un appuntamento che forse non c’era mai stato? Ci sarà ancora tempo e modo di serrare le fila? E le fila da serrare ci saranno ancora? O ci restituiranno un marchio svalutato, un contenitore sforacchiato, delle idee sfiorite, dei progetti ridicoli, delle donne e degli uomini rassegnati?
(Mi chiedo: ma se certe volte, per ad-tendere, fosse necessario ‘strappare’ davvero, sferrare un colpo d’ali, scartare, scrollarsi di dosso le titubanze, le ragnatele, gli incubi, le paure, e assumersi la responsabilità non di star fermi, ma quella di muoversi, di alzare la testa, di mettere in campo una nuova avventura? Attesa è movimento, d’altronde. Movimento ad-teso, a tempo debito, ma movimento. Ma c’è ancora spazio per le avventure a una certa età (storica, personale), oppure Godot è proprio il cartello segnaletico finale di una strada interrotta, anzi finita? Mi domando: e se si tornasse invece ad avere speranza, a incutere speranza, non solo a parare la sfiducia che cresce? E se cessassimo di essere fatalisti per essere finalmente concreti? Cosa vogliamo insegnare oggi ai più giovani, la resa, la sfiducia, l’attesa immobile, lo svuotamento, il vuoto stesso? La vecchia classe dirigente è nata dalla Resistenza e si vedeva. Quest’ultima invece aspetta Godot, e trema forse a immaginare che Godot possa non venire mai, ma resta lì, come in Beckett, a marcire al bordo di una strada).