Gianni Cuperlo: “oggi la destra che adesso governa ha chiuso i porti. Ma domani? e dopo?”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gianni Cuperlo

di Gianni Cuperlo – 12 giugno 2018

Ieri, a commento del post, Massimo Migliavacca mi ha posto una questione seria e mi ero ripromesso di dedicarvi una replica un po’ meno sbrigativa delle due righe. Provo a farlo, sapendo che viviamo ore segnate da una dose insopportabile di propaganda quando invece servirebbe ragionare sul merito, che vuol dire dati, statistiche, ma anche vite, volti, drammi. Lo ha fatto di recente Stefano Allievi in un lavoro per Laterza (Immigrazione. Cambiare tutto) che dovrebbe stare sulla scrivania del Viminale. Ma che di certo oggi lì sopra non c’è.

Allora, intanto questo è il commento postato da Massimo: “Gentile Cuperlo, considerato che con questa accoglienza l’Italia si ritrova sola, e valutato che le risorse sono limitate, altrimenti non avremmo tanti poveri e disoccupati, bisogna quindi stabilire fino a dove si può arrivare. In pratica, senza creare disagi, esasperazione di tutti compresi loro stessi, manodopera per tutto tutto, ed inevitabili e pericolosi scontri sociali, secondo Gianni Cuperlo, a quante navi ancora si può permettere l’arrivo nei nostri porti?”

Caro Massimo, cominciamo dai numeri. Non raccontano tutto, ma orientano. Nel minuto che avete impiegato (più o meno) a leggere i due paragrafi qui sopra 24 persone in qualche parte del mondo sono state costrette a lasciare casa loro. E così per ogni minuto da ora in avanti. Circa 880 milioni di esseri umani vivono in cosiddetti slums, luoghi per definizione invivibili. Rispetto al 2000 la quota di “migranti” è impennata del 40% e oggi sono calcolati in 243 milioni.

La formula “aiutiamoli a casa loro” sarebbe del tutto giusta se effettivamente noi li aiutassimo a casa loro. Ma le cose non stanno proprio così. Nel 2015 (cito il dato conosciuto) l’Italia ha speso 4 miliardi per l’aiuto allo sviluppo (per inciso, meno del 2005). Di quella somma 1 miliardo era rubricato alla voce “aiuto ai rifugiati nel paese donatore” (che tradotto vorrebbe dire che li aiutiamo ma a casa nostra). Per aiutarli effettivamente a casa loro spendiamo lo 0,1-0,2 del Pil (il corrispettivo di 2 euro mensili su un salario di 2mila euro).

Aiutarli a casa loro significa cooperazione vera, canali di ingresso legali in Europa con quote nazionali, un controllo europeo delle frontiere, la redistribuzione dei migranti nell’ambito dell’Unione (cioè esattamente quanto si rifiutano di fare gli amici internazionali della Lega, mai come su questo punto “amici” di Salvini e “nemici” degli interessi dell’Italia), infine euro-bond per finanziare il tutto.

Provocatoriamente (ma nemmeno troppo) dovremmo aggiungere che il modo migliore per aiutarli a casa loro è farli venire a casa nostra. Non vi sembri una bestemmia perché le cifre delle rimesse parlano chiaro. Nel 2016 gli immigrati regolari hanno spedito a casa loro rimesse per 66 miliardi di dollari (tenete conto che gli investimenti stranieri sono 58 miliardi e la cifra complessiva degli aiuti allo sviluppo ammonta a 51 miliardi di dollari). Ovviamente cooperazione e rimesse dovrebbero intrecciarsi in progetti finalizzati anche a formare persone (risorse umane) che intendono tornare nel loro paese (almeno dove ciò è possibile).

Una parentesi (notissima) sui nostri immigrati regolari. Versano circa 8 miliardi di contributi sociali e ne ricevono 3 sotto forma di pensioni e prestazioni sociali. Rappresentano l’8,9% del nostro Pil (il 18,4 nell’alberghiero, il 17,4 nelle costruzioni, il 16,7 in agricoltura, il 10 nella manifattura). Hanno un reddito medio di 7.500 euro annui inferiore al reddito degli italiani. Sono il 10,5% dei lavoratori e guidano 675mila imprese.

Ora passiamo ai rifugiati. Circa 67 milioni di persone sono costrette alla fuga. Di queste 22 milioni sono riconosciute come rifugiati. In Europa nel 2015 sono entrati illegalmente 1 milione e 12mila persone. Nel 2016 la quota si è dimezzata a 503mila. Nei primi 4 mesi del 2017 gli arrivi sono calati dell’84% sull’anno precedente. Parliamo degli effetti dell’accordo contestato con la Libia (che ha prodotto un calo degli arrivi in Italia e un aumento in Grecia e Spagna).

Sul tema della paura per l’invasione, del “ci portano via il lavoro e i posti nelle scuole e nelle case popolari”, il capitolo decisivo si chiama demografia. L’Europa è destinata a perdere da qui al futuro 3 milioni di lavoratori attivi ogni anno. Vuol dire da qui al 2050 più o meno 100 milioni. Senza una gestione regolata dei flussi di ingresso in Europa di “nuovi cittadini” l’intero sistema economico e sociale (il famoso modello sociale europeo) potrebbe non reggere l’urto.

Quanto alla distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo, è tema assai difficile (nel senso di capire dove termina una sfera e inizia l’altra). Il punto è che se gestiti dall’Europa i numeri di cui stiamo parlando sono del tutto compatibili. Ovviamente senza mesi di attesa per verificare i requisiti di asilo, con corsi di lingua e integrazione. Ma – e siamo al nodo decisivo anche per rispondere alla domanda di Massimo su quante navi può accogliere l’Italia – servono canali di ingresso legali, Serve una agenzia europea per la gestione di quel processo. Servono pratiche più rapide sull’asilo e serve la famosa redistribuzione con quote vincolanti (sottolineo: vincolanti) per ciascun paese.

La realtà è che le richieste di rifugiati aumentano anche per l’assenza di canali legali di ingresso. Nel senso che quelle domande arrivano anche da paesi che prima sceglievano altre strade, ma se tu per anni chiudi quella valvola (gli ingressi regolari e regolati) otterrai solo di intasare (e alterare la natura) dell’altra (l’asilo).

Bene, ora cosa accade dopo che i migranti arrivano in un porto italiano? Subito dopo lo sbarco dovrebbero arrivare in un CPSA (centri di primo soccorso e accoglienza) per le cure mediche e la foto segnalazione. Da lì il passaggio nei CDA (centri di accoglienza) se non si tratta di richiedenti asilo, oppure nei CARA (centri di accoglienza per i richiedenti asilo). Entrambe queste strutture sono state pensate con un carattere temporaneo, questo in teoria. A seguire, la modalità di integrazione dovrebbe essere il sistema SPRAR (sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati) in collaborazione con cooperative e enti di gestione pensati come seconda accoglienza (l’idea era di iniziare qui la conoscenza della lingua e l’avviamento al lavoro). Il punto è che l’accoglienza diffusa tanto diffusa non è stata dal momento che solo 1.100 comuni hanno aderito alla proposta (su un totale di 7.978).

A quel punto si sono inseriti i CAS (centri accoglienza straordinari), definiti da Allievi l’incubo dei sindaci: sono queste realtà a recepire la maggioranza dei 205mila migranti in strutture di accoglienza (a luglio 2017 solo 31mila erano gestiti tramite il sistema SPRAR). A volte queste strutture funzionano, ma sono anche divenute simbolo del disagio (con le prefetture subissate di richieste e da lì la ricerca affannosa di posti letto, appartamenti sfitti, cascine, ex pensioni, scuole, caserme). La “bulimia acquisitoria”, le frasi oscene sul guadagno da quel business (“meglio della droga”) e la stessa mafia capitale hanno quella radice. Cose naturalmente da stroncare penalmente.

Infine i CIE (centri di identificazione ed espulsione) dovevano accompagnare solo l’atto finale in caso di risposta negativa alla domanda di status di rifugiato. Minniti dal febbraio 2017 li ha trasformati in CPR (centri di permanenza per il rimpatrio), fissandone uno per regione.

I costi sostenuti per salvataggi e accoglienza corrispondono allo 0,22 del Pil per l’emergenza e allo 0,02 da spendere nei paesi di origine o transito. Queste sono le vere dimensioni. I respingimenti e i rimpatri costano e sono pochi. E’ vero che non possiamo far entrare tutti ma la risposta non è in una chiusura a riccio. La risposta – insisto – è selezionare gli ingressi con quote condivise.

Servono accordi di riammissione (i nostri governi vi hanno lavorato) e in cambio offrire aiuti allo sviluppo, sostegno al controllo delle frontiere e addestramento delle polizie nel pieno e assoluto rispetto dei diritti umani.

Una via da percorrere e implementare è quella (ne abbiamo spesso parlato anche qui sopra) di corridoi umanitari. L’idea nasce e si sperimenta come iniziativa dal basso rivolta a richiedenti asilo selezionati alla partenza (donne e minori su tutti). E’ ciò che non ha fatto l’Europa. Sarebbe la logica rovesciata: andarli a prendere (facendo entrare in condizioni di assoluta sicurezza chi ne ha diritto). I primi 300 arrivati da noi tramite questo canale sono giunti a inizio 2016 da Beirut (dai campi profughi in Libano). Le città coinvolte nell’accoglienza sono state Torino, Milano e Roma: nessuna polemica si è levata. In questa logica (che è sempre tesa a evitare di far arrivare navi di disperati) serve la citata agenzia europea con personale volontario e qualificato. Non è l’unica soluzione ma va nella direzione di regolare i flussi e convince l’opinione pubblica.

In conclusione la prima cosa da fare è cambiare scala (se assumiamo il mare come confine europeo e quote distribuite equamente, 300mila arrivi all’anno si governano). Se l’Europa non lo farà il suo futuro è segnato: tornerà a essere una zona di libero scambio.

Non so se la descrizione ha risposto nel merito al tema posto, spero di sì (e ripeto, il merito nel caso non è certo mio ma di Stefano Allievi e di chi la materia studia e conosce da tempo). La somma delle cose dette si può anche concentrare su pochi punti:

1. Apertura di canali legali di ingresso: anche a compensare i 3 milioni all’anno destinati a uscire dal mercato lavoro.

2. Contestuali politiche per lo sviluppo (la via della vera cooperazione è la più seria e giusta per limitare gli arrivi. Col punto 1 si legittima il 2: altrimenti paghi come abbiamo fatto con la Turchia (e forse la Libia) per tenerli lontani da noi, ma domani toccherà a Marocco, Egitto, Tunisia, Libano. In una crisi giocata sul terreno decisivo dei diritti umani. Meno di questo ed esponiamo l’Europa al ricatto di quelle che sono state battezzate “armi di migrazione di massa”. Questa è anche la via per superare la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici, però (insisto fino alla noia) serve l’azione forte dell’Europa (riportando le richieste di asilo a dimensioni del passato).

3. Va incentivata la cooperazione come forma di contrasto alle diseguaglianze globali (percorsi di sviluppo nei paesi di partenza).

4. Giusto un Piano Marshall per l’Africa: con una struttura europea dedicata al continente sotto di noi (e capace di lavorare sulla triade pace – sviluppo – diritti umani).

Non credo di avere taciuto anche i nostri limiti di questi anni. Io però rivendico (l’ho sempre fatto e sempre lo farò) la scelta di andare a salvare vite in mezzo a quel tratto di mare. Se non lo avessimo fatto avremmo mancato a un principio di civiltà. La destra che adesso governa pensa di gestire il dramma chiudendo i porti. Questa volta è intervenuta la Spagna. Ma domani? E dopo? Forse la domanda vera allora non è quante navi possiamo far attraccare nei nostri porti, ma cosa può e deve fare la politica (e l’Europa) per prevenire quelle traversate tragiche. Capirlo, e agire di conseguenza, è necessario per molte ragioni. Ma una su tutte: perché dalla risposta che daremo dipenderà la nostra natura e identità.

Se siete arrivati in fondo perdonate la lunghezza, grazie e buona giornata

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