Gramsci in cerca d’autore

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora...
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C’è questa compagnia teatrale che sta per cominciare la prova del secondo atto della commedia Il gioco delle parti. Il primo attore non ne vuol sapere di stare in scena con un cappello da cuoco mentre sbatte le uova, ma d’altra parte – si lamenta l’adirato capocomico – cosa possono farci, dalla Francia non arriva più nulla di buono, “ci siamo ridotti a mettere in inscena commedie di Pirandello.” Come avrete capito quella prova non si svolgerà, interrotta dall’arrivo di sei personaggi “in cerca di un autore.” Non è solo il gioco letterario del grande drammaturgo siciliano, che prende in giro le astruserie delle sue commedie, quel testo esiste davvero, è stato rappresentato un paio d’anni prima dalla compagnia di Ruggero Ruggeri. Per molti il solito verboso Pirandello, la solita commedia in cui gli attori parlano, parlano, parlano, ma gli spettatori non ci capiscono nulla.
Immagino che il drammaturgo non abbia letto la critica apparsa sull’edizione torinese dell’Avanti! il 6 febbraio 1919, a seguito della rappresentazione al teatro Carignano di questa sua commedia: “Il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico. L’incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza finestre, incomunicabili e incoercibili: l’autore, i personaggi e il pubblico.”
Il giovane critico del giornale socialista non ama le commedie di Pirandello: ne ha recensite più di una decina, ma l’unica che l’ha davvero convinto è stata Liolà, per la sua forza da dramma satiresco. E infatti questa commedia viene ritirata dal programma del teatro Alfieri solo dopo due repliche, a seguito delle rumorose proteste di gruppi organizzati di giovani cattolici, sostenuti da alcuni giornali della stessa parte.
Certo Luigi Pirandello non si cura dei giudizi che vengono espressi su quel “fogliaccio” bolscevico da Antonio Gramsci. I due più grandi intellettuali italiani della prima metà del Novecento non sono destinati a conoscersi, né ovviamente a capirsi. Eppure entrambi credono molto nel teatro. Pirandello affida al teatro le sue riflessioni in un gioco di specchi, che raggiunge il proprio culmine nella trilogia del teatro nel teatro. Ma Gramsci non riuscirà a recensire i Sei personaggi: nel 1921 è impegnato a fare delle altre cose. Ha lasciato il posto di critico letterario del giornale a Piero Gobetti. Il politico sardo ha deciso di dedicarsi con impegno alla critica teatrale non solo perché personalmente ama questo genere, ma perché è convinto del suo valore sociale, perché il teatro parla alla collettività e non all’individuo, perché l’opera teatrale è capace di offrire “una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo.”
Certo Gramsci è un intellettuale marxista e nelle sue critiche questo pesa, anche se non sarà mai una fonte di pregiudizio. Pirandello racconta un mondo borghese che non potrebbe essere più lontano da lui. Nessuno dei personaggi del Gioco delle parti ha bisogno di lavorare per vivere, sono borghesi che vivono di rendita, il cui unico impegno pare quello di “gestire” la propria rispettabilità, magari attraverso il rito del duello. Nelle settimane in cui sta per scoppiare il biennio rosso chissà che effetto ha fatto a Gramsci vedere in scena un ricco che cucina per hobby, senza averne bisogno, perché verosimilmente mangerà quello che gli ha preparato il cameriere. Per Gramsci Pirandello racconta un mondo inutile, che la rivoluzione dovrà presto spazzare via, non c’è nessun insegnamento possibile per il popolo da queste commedie.
Dal suo punto di vista Gramsci ha probabilmente ragione e certamente Pirandello non lotta sulla sua stessa barricata, ma forse il filosofo avrebbe dovuto fare uno sforzo in più per capire che quelle commedie raccontano un mondo ormai finito, svuotato, come i gusci d’uovo di cui Leone Gala parla continuamente nella commedia. Nessuno come Pirandello ha la forza di denunciare la crisi e la morte di quel mondo, a cui pure egli appartiene. Ma Gramsci questo non riesce a sentirlo: quelle di Pirandello sono solo parole, che non servono, che non educano. Non è così ovviamente, ma non possiamo pretendere che un uomo come Gramsci riconosca il valore positivo dell’apparente indifferenza di Leone Gala.
Qualche mese prima, l’11 giugno 1918, Gramsci recensisce la rivista satirica Arsenalaide, messa in scena dagli operai dell’Arsenale della città piemontese. Ecco uno spettacolo che gli è piaciuto.
“I lavoratori di una maestranza si sono trovati insieme per un fine che non era solo utilitario. Hanno riso insieme. Vi par piccola cosa? È più facile piangere e lamentarsi insieme, che gioire: il riso è esclusività per sua natura, e perciò quando scoppia spontaneo da una società, che non fa di esso il suo scopo, indica un grado superiore raggiunto nella comunione degli spiriti. Hanno sentito questi operai, nella loro collettività, una capacità nuova: la capacità di creare, di istruirsi con le proprie forze, con i mezzi dati da loro stessi. Hanno sentito la propria “intelligenza”, il proprio “gusto”. Perciò specialmente piace l’iniziativa degli operai dell’Arsenale. Essa indica un alto grado di progresso raggiunto attraverso l’organizzazione. Indica che necessariamente l’organizzazione come forma nuova di civiltà dà luogo, nella sua evoluzione, a tutte le manifestazioni della vita di relazione degli uomini. La cultura e l’arte finiscono col trovare anch’esse il loro posto nell’attività proletaria, non come esteriore dono della società già esistente, ma come energia vitale del proletariato stesso, come sua attività specifica. Si presentano grezze e confuse all’inizio, ma attraverso l’esperienza si affinano e chiariscono.”
Probabilmente a Pirandello questo spettacolo non sarebbe piaciuto, ma forse quell’idea che ridere insieme è importante, che è più facile piangere che gioire l’avrebbe potuta sottoscrivere.
E comunque, anche nello scrivere di questo spettacolo frutto dell’impegno di un gruppo di lavoratori, Gramsci non dimentica che il teatro è anche il lavoro di chi scrive, di chi mette in scena, di chi recita. Perché l’aspetto sociale del teatro non nasce solo da un fattore ideologico o dalla sua capacità di essere uno strumento formativo, ma dalla capacità di qualsiasi prodotto artistico di portare bellezza nel mondo.
Gramsci fa politica anche quando fa il critico teatrale: e non potrebbe essere altrimenti. Perché affronta il teatro non solo per quello che è, ma anche per quello che può diventare. Perché per lui il teatro ha valore politico, ovviamente non in un senso volgarmente propagandistico, ma nel suo essere motore di conoscenza, di trasmissione di valori, nel suo essere uno degli strumenti che servono alle donne e agli uomini a crescere, a pensare. Qualcosa che il teatro – tutto il teatro, anche quello borghese che Gramsci non amava – riesce ancora a fare.

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