Fonte: facebook
di Antonio Napoletano 23 settembre 2014
<<Hic manebimus optime>>, così conclude Cuperlo l’intervista al “Corriere”.
E che ci stia ottimamente in questo PDr, del resto, lo si capisce subito, avendo dichiarato in premessa:<< Non dirò neanche mezza parola in polemica con Renzi, che è negli Stati Uniti, perché – precisa – non si polemizza con il premier mentre all’estero rappresenta gli interessi del Paese>>. Di quale ‘Paese’? verrebbe da dire, ma sappiamo fin troppo bene come egli non perda occasione, neppure questa, per testimoniare il suo alto senso di responsabilità, costi quel che costi. Perché è ormai evidente che il Nostro è e si considera a tutti gli effetti il Responsabile Emendatore delle porcate renziane.
Infatti, anche stavolta non si smentisce. Ed Emenda, responsabilmente.
Come se- s’intende – il PD a conduzione renziana e renzista fosse un partito normale, con organi normalmente funzionanti, un segretario normalmente eletto e in carica, un dibattito collettivo trasparente e approfondito, una dialettica interna inclusiva e rispettosa delle minoranze, una distinzione di ruolo e funzione tra governo e partito e così via elencando.
Sarà per questo che tutte le cose che dice di volere – molte delle quali condivisibili – messe insieme suonano improbabili. Una replica la sua, insomma, di quanto già sperimentato con il volenteroso emendare responsabilmente annunciato per la soppressione del Senato e dell’Italicum.
Il tutto, come sempre, condito con quel suo citazionismo da grande lettore, che non resiste all’idea d’informarci ogni volta sul suo ultimo livre de chevet, quando senza rossore afferma:<<Io non so che farmene di una sinistra rivolta al passato. Non leggo Marx, anche se lo trovo molto più attuale di Davide Serra. Ma Piketty…>>. Così d’apparire la versione corretta di quello che vorrebbe essere la Seracchiani, che, dei libri in classifica, legge solo i titoli.
E se Civati vorrebbe un referendum sulle proposte annunciate dal segretario/presidente, Cuperlo no, lui dice che preferisce discutere <<nelle sedi giuste>> e siccome chissà perché e per responsabilità di chi <<i tempi stringono>> lui fa <<appello a tutti al dialogo>>. Insomma, niente coinvolgimento di iscritti ed elettori, nessuna campagna di massa per chiarire e approfondire, ma, unicamente e responsabilmente, “emendare”. Come poi il partito cui pensa Cuperlo si faccia “comunità”, cessando di essere ‘ditta’ e/o ‘caserma’, questo Cuperlo, ovviamente non dice. Anche se con quel “Hic manebimus optime” sembra di capire si tratti sì di una ‘comunità’, ma di una ‘comunità di snob’.
—–
Ecco l’intervista di Gianni Cuperlo al Corriere della Sera
«Non vale la logica del prendere o lasciare. Chi vince il Congresso ha il diritto e il dovere di dirigere un partito, non di comandare. Però, per citare Don Milani, siamo in grado di sortirne insieme».
Gianni Cuperlo, anima di sinistra del Partito democratico, tra i protagonisti della ribellione al nuovo corso sul lavoro impresso da Matteo Renzi, fa una premessa, prima di cominciare: «Non dirò neanche mezza parola in polemica con Renzi. E’ negli Stati Uniti e non si polemizza col premier mentre all’estero rappresenta gli interessi del paese».
Sono riguardi un po’ da «vecchia guardia». Lei si sente un conservatore?
«Per nulla, io sono per una discontinuità coraggiosa. I panni del conservatore li lascio alla destra che teorizza la flessibilità spinta alla precarietà. Li lascio a chi usa gli incentivi pubblici per abbassare il costo del lavoro senza innovazione. A chi non dice una parola sul fatto che le nostre imprese hanno un patrimonio inferiore al risparmio delle famiglie».
Eppure l’immagine che rischia di dare la sinistra del Pd è quella, di non voler cambiare.
«Io non so che farmene di una sinistra rivolta al passato. Non leggo Marx, anche se lo trovo più attuale di Davide Serra, ma Piketty. La diseguaglianza è la radice di questa crisi».
L’articolo 18 è lo scoglio su cui rischia di infrangersi la riforma.
«L’ex articolo 18, vorrà dire, visto che è già stato cambiato e in modo non banale. È una discussione paradossale. Sono io che chiedo, per risvegliare l’Italia sono più importanti 5 mila cause all’anno sull’articolo 18 o il recupero anche solo di metà dei 120 miliardi di evasione? È più importante l’articolo 18 o ricordare che siamo fanalino di coda nell’occupazione femminile?».
Se è così marginale, perché ne fate una battaglia?
«Rovescio la domanda. Se è così marginale, perché farne il fulcro? E’ un depistaggio dopo che abbiamo perso il 25 per cento della produzione industriale? Perché non si parte dal fatto che la Germania per l’inserimento al lavoro spende 9 miliardi e noi 500 milioni? Perché non si mette al centro che l’accesso ai servizi per il lavoro oggi è un diritto di cittadinanza?».
Ma siete disponibili a parlarne?
«Io voglio trovare una soluzione. Lo scriviamo che la reintegra non si discute in caso di discriminazione per motivi religiosi, politici e sindacali, di etnia, genere, orientamento sessuale? E perché negare la possibilità per il giudice di valutare tra l’indennizzo e il reintegro? Sono numeri piccoli, ma questo anche perché la norma ha avuto un effetto deterrente. Anche lì c’è un pezzo della dignità del lavoro. Discutiamo di tutto, ma rispettando i principi».
Che emendamenti presenterete?
«Bisogna sfoltire la giungla dei contratti. Bisogna mettere sul tavolo le risorse per estendere tutele e formazione. E poi entrare nel merito del salario minimo per chi non ha un contratto e dei nuovi ammortizzatori».
C’è chi dice che lo scontro sull’articolo 18 è uno strumento di lotta interna nel partito.
«Spero che nessuno pensi a regolamenti di conti. Non mi sento un gufo né un guastatore. Sono stato il primo a riconoscere il successo di Renzi. Il nemico non è mai in casa e mi sento parte della scommessa per il cambiamento».
Se non si trovasse un accordo, accetterebbe la disciplina di partito?
«Un partito non è una ditta né una caserma. E’ una comunità. E non apprezzo gli appelli alla disciplina a stagioni alterne: alcuni di quelli che ora la invocano, sul Capo dello Stato hanno votato come gli garbava».
Civati agita l’arma del referendum.
«È uno strumento previsto, ma io sono per discutere nelle sedi giuste. I tempi stringono, faccio un appello a tutti. Meno battute, meno offese, più rispetto. Io mica dico che la riforma Poletti è la traduzione del liberismo. Non lo penso. La responsabilità di tutti è trovare una soluzione. Lo so, sono un uomo fuori contesto, ma sarei per adottare uno sciopero dei tweet per 15 giorni, come elemento di salute pubblica».
La scissione è fantascienza?
«Non voglio nemmeno evocare il termine. E non voglio pensare che ci sia chi lavora, magari implicitamente, perché qualcuno se ne vada. Hic manebimus optime».


