Fonte: Rimini Sparita
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di Grazia Nardi – 15 luglio 2014
….In genere ci mettevamo addosso quello che ci veniva regalato, usato da altri o “passato” dai figli maggiori. Era così raro avere qualcosa di nuovo che, nel caso delle scarpe, si tenevano come reliquie. Ne fiutavo l’odore tipico dei materiali “nuovi”, arrivavo anche, nei primi giorni, a pulire la suola dopo aver camminato per prolungare la sensazione del nuovo. La qualità però era proporzionata al costo, sempre il più basso possibile. I piedi immancabilmente freddi o bagnati dalla pioggia che filtrava. Ricordo la felicità del primo paio di scarponcini alti con i lacci intrecciati e la suola a “carroarmato”, cosiddetta per lo spessore e la forma a “carroarmato”. Finalmente piedi caldi e asciutti! Alla prima pioggia, per asciugarli la mamma li mise nel vano inferiore della stufa. Il calore mandò in tilt il “carroarmato” che in realtà era uno strato di plastica riempito con del sughero.
Da allora mi è rimasta la fissa delle scarpe “buone”. Al primo stipendio ricevuto, sono entrata da Pollini ed ho comprato un paio di scarponcini favolosi, durati dieci anni.
Il babbo amava vestirsi bene, era un bell’uomo ed aveva gusto nella scelta. Ricordo scarpe fatte su misura dal calzolaio, cappello di feltro, giacca in tweed, giubbotto di pelle. Tanto che, presa da un’infantile viltà, preferivo che ad aspettarmi fuori dalla scuola ci fosse lui anziché la mamma.
Comprava al Mercato le camice purchè di “flanella” e le maglie di pura lana, così pura che il prezzo veniva stabilito in base al peso. Il commerciante le pesava con la stadera. A più basso costo i residuati bellici, capi che testimoniavano il passaggio della guerra e degli americani. Ma alla fine l’espressione: du ta lè compre, ti straz americhen? si usava per qualsiasi indumento stravagante o di pessima qualità.
Il mio banco preferito era il Bazar Romagnolo. Già il nome era tutto un programma, esempio felicissimo di tradizione e fantasia, tipicità ed esotismo. Era situato a ridosso dell’attuale Palazzo Pelliccioni, all’altezza della Rocca. Vendeva di tutto: giocattoli di latta, tegami di alluminio, mastelli di legno, terrine e catini smaltati, ferramenta, attrezzi…ogni pezzo allo stesso prezzo. In genere ci andavo per guardare o per comprare le fedi per la mamma. Quando era alle strette, almeno una volta al mese, portava la fede d’oro al Monte dei Pegni di Via Angherà. Al Bazar Romagnolo, a cento lire, prendevo una “varghetta” cromata che la mamma infilava al dito finchè non riusciva a riscattare quella vera. Aveva un colore rossiccio molto diverso dal giallo dell’oro ma il babbo non se n’è mai accorto. E andava sostituita spesso perché la mamma, per racimolare, andava a lavare i panni nelle case dei “signori” ed il continuo contatto con la saponina (potente e corrosivo detersivo di allora) la faceva scolorire.
Ma oltre le merci, le occasioni ovvero la bagia, altri due elementi completavano l’atmosfera del marcato all’aperto: gli odori della estate, del sudore di corpi che ti strisciavano addosso, segnati da lavaggi parziali e frettolosi, non protetti dai deodoranti che non erano ancora in uso e quello dell’”ambra solare” lasciato dai turisti.
Ed il vocio che faceva parte della “spesa”. Essere chiamati, adulati dal venditore con gli apprezzamenti a doppio senso ma non volgari. E non c’era niente di più stabile e sicuro del mercato dove potevi coltivare il banco di fiducia, quello che a te, cliente da anni, figlia di clienti di vecchia data, non ti avrebbe mai dato la fregatura, quello che ti avvisava, strizzando l’occhio “per te oggi non ho niente” o quello fidelizzato che ti rimediava qualunque cosa su richiesta anche con possibilità di pagamenti rateali.
Il mercato non era solo il luogo della spesa, era un rito, una necessità anche per chi non poteva spendere. Duvett? A vag fè un zir sè merkè! Occasione d’incontri , di chiacchiere, di ritrovamenti: “da quanto tempo non ti vedevo!” delle bugie: “Tanc’è cambieda per gnint”, delle promesse. “At veng a truvè”, del gossip nostrano: “te vest quela chi lè cuncla s’è cunzeda?”
E degli affari. Per anni i sensel li trovavi solo nella Piazza del Mercato ovvero Piazza Cavour.
Per i bambini era meglio del Luna Park ed era anche istruttivo, imparavi i prezzi e, quindi, il valore del danaro, i trucchi. Ricordo i primi venditori napoletani che oltre i capi di finta pelle, senza banco e negli angoli della piazza vendevano dei cagnolini di plastica che si muovevano sul selciato azionati da un filo collegato ad un pompetta ad aria. Al movimento corrispondeva un suono simile all’abbaiare del cane. I turisti venivano indotti all’acquisto del cagnolino che “cammina ed abbia,” cosa d’effetto negli anni 50……. solamente che il suono era provocato da una sorta di fischietto nascosto nella bocca dell’ambulante.
Ma l’apice del divertimento…dell’autentica soddisfazione…. dell’orgoglio si raggiungeva quando si TROVAVA…..Finito il mercato tiravamo calci a scatole e scatoloni vuoti disseminati sulla piazza con la speranza di “trovare” qualcosa….pezzi e cocci da incollare per ripristinare una tazzina o un vaso, utensili rotti da riaggiustare. Una reale caccia al tesoro. Il godimento massimo arrivava quando s’incappava nell’oggetto integro, nuovo lasciato involontariamente dall’ambulante. Lì il fortunato lanciava il grido: HO TROVATO!!!!e tutti gli altri bambini intenti a dare calci, si fermavano assumendo un’espressione seria, tra ammirazione e delusione..sì perché difficilmente la fortuna in quello stesso giorno avrebbe baciato qualcun altro……
E non era solo un gioco..tornare a casa con un qualunque oggetto utile alla famiglia, rimediato onestamente…dava la sensazione di aver contribuito, di aver fatto la propria parte, anche da bambino, nella quotidiana lotta alla miseria.