Inutile piangere sul latte versato dalla secca sconfitta negoziale subita dal nostro Governo sul tema delle regole che governeranno il contratto sociale degli Stati membri per almeno il prossimo decennio, che non prevedono nessuna “golden rule” per esentare gli investimenti pubblici dal computo del deficit su PIL a cui convergere.
Varrà la pena solamente ricordare come altre aree federali come gli Stati Uniti hanno regole alquanto diverse che permetteranno loro, con tutta probabilità, di guadagnare ulteriormente in dinamicità rispetto all’Europa. Tra il 2020 ed il 2024 gli Usa cresceranno il doppio dell’area dell’euro (circa 8% rispetto al nostro 4%) grazie a deficit su PIL che sono il doppio di quelli europei. Nel medio periodo la musica non cambierà, anzi: gli Stati Uniti fino al 2033 prevedono di lasciare il deficit su PIL al di sopra del 6%, mentre questo Patto di Stabilità e Crescita approvato ci spinge verso il target ben più austero dell’1,5%.
E’ evidente che gli USA hanno bene in mente le drammatiche sfide che li attendono nel prossimo decennio – ambientali, tecnologiche, geopolitiche – mentre l’Europa della valuta comune pare inviluppata in una battaglia di retroguardia che non potrà che stimolare populismi e estremismi, mettendone a rischio la stabilità tanto cara, paradossalmente, ai falchi dell’austerità, risultati vincitori nella lotta sulla riforma del Patto.
E se è vero che il paragone con gli Stati Uniti ha le gambe corte, non avendo l’area euro una analoga unione fiscale capace di aiutare dal centro i singoli stati nei momenti di difficoltà, è anche vero che mai, nella loro lunga storia, i singoli stati americani sono stati lasciati sprovvisti di un centro decisionale da cui poter effettuare politiche fiscali controcicliche, soprattutto espansive nei momenti di crisi. Se infatti nel XIX secolo e fino ai primi decenni del secolo scorso erano i singoli stati ad avere il potere di effettuare deficit durante le recessioni, dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta è dalla capitale Washington DC, dal centro, che l’aiuto è da quel momento sempre arrivato. L’Europa dell’euro si trova invece, con il Patto appena approvato, senza nessuno strumento di politica fiscale espansiva, né dal centro (con Bruxelles senza poteri per una unione fiscale), né nei singoli Stati membri, obbligati a convergere verso l’austero 1,5% di deficit-PIL.
Non dovrebbe dunque sorprendere il consenso generalizzato tra i previsori economici che il 2024 dell’area euro sarà un anno di politica fiscale restrittiva, con gravi conseguenze sulla crescita attesa per il 2024 – la cui stima si è più che dimezzata durante il corso del 2023 – e con una BCE che ha da poco aggiornato la crescita 2024 a un misero 0,8% dall’1% precedente.
Proprio per l’esistenza di questi temporali così minacciosi all’orizzonte l’Italia, più di qualsiasi altro Paese, deve interrogarsi urgentemente sul da farsi. Più di altri perché le regole asimmetriche assurdamente approvate dal Consiglio europeo con l’ok finale italiano chiedono al nostro Paese di fare gli aggiustamenti di bilancio maggiori. L’impatto sul PIL sarà dunque, in assenza di altre politiche, quanto mai rovinoso, specie a partire dal vicino 2027 quando sia l’auspicabile (ma ancora invisibile) effetto PNRR sia gli sconti sulla spesa per interessi saranno terminati.
Il da farsi appare obbligato: i prossimi governi dovranno infatti fare da soli quello che un’Europa sospettosa non ha consentito e cioè trovare, ma non a deficit, risorse per finanziare le necessarie e inevitabili spese per lo sviluppo per il tramite degli investimenti pubblici. E dove trovare tali risorse se non in una spending review che non tagli la spesa ma solo quella parte di essa rappresentata dagli sprechi? Per farlo, ogni Governo responsabile avrà innanzitutto il bisogno e il dovere di dotarsi di una classe di dipendenti pubblici all’altezza del compito: personale giovane, capace, da strappare al settore privato per il tramite di appropriate remunerazioni competitive.
E’ l’unico modo per uscirne, anche se va preso atto che questo Governo in carica non ha creduto nella spending review come carta negoziale per ottenere dall’Europa un Patto di Stabilità e Crescita che potesse aiutarci invece che affossarci, e che anche l’opposizione, con i precedenti Governi, si è eclissata su questo tema. Colpo di reni cercasi!