I poveri in città erano “di chiesa”? 1/2

per Gian Franco Ferraris

di Grazia Nardi – 12 luglio 2014

Negli anni 50 questa era l’espressione “popolare” che indicava la relazione con la pratica religiosa: “l’è una ad cesa”, non casualmente al femminile.

Lo schema, non generalizzabile, ma diffuso, almeno nel mio ambiente, era: l’uomo, il capofamiglia non va in chiesa, fatta eccezione per i funerali dei consimili, i figli meglio in chiesa che in mezzo la strada, la donna sì ma solo nelle ricorrenze “giustificate”, con una predilezione, da donna a (Ma)Donna, per il “mese di maggio”. Il cosiddetto mese mariano era un’occasione, tollerata anche dai mariti più severi, in cui le donne si ritrovavano, parlavano prima e dopo la funzione pomeridiana, uscendo dall’isolamento invernale che le aveva rintanate in casa.

Dunque, poco spiritualismo. La religione era vissuta, passi la contraddizione, in maniera quasi “pagana” e personalizzata, ognuno aveva il suo rapporto diretto con Dio e con i Santi. La più evocata era Santa Rita, la santa delle grazie impossibili: trovare lavoro, guarire da “un mel brot”, far diventare buono un padre o un marito troppo autoritario e manesco….

In ogni caso il dovere terreno aveva la precedenza su quello religioso: badare alla propria famiglia, ai figli, agli anziani di casa, più semplicemente cucinare in orario per il marito che rientrava stanco dal lavoro, era più meritevole che andare a messa e c’era anche la presunzione assoluta che non solo Dio “avrebbe capito” ma avrebbe addirittura apprezzato! Come dire: sono i valori umani quelli autenticamente spirituali. Con questa ispirazione mio nonno Andrea, la domenica mattina riteneva di fare il proprio dovere di cristiano andando nelle corsie dell’ospedale ad assistere gli anziani soli, nelle piccole ma essenziali funzioni: mangiare, lavarsi, parlare.. oppure sistemando le tombe abbandonate, al cimitero.

Un rapporto umorale, quello con la Chiesa, non garantito da una fede pregiudiziale e che, proprio per questo, quando la grazia non arrivava, si raffreddava….

Anche l’aspettativa nell’aldilà non veniva mediata dai ministri del culto ma da una regola di vita terrena prevalente su ogni precetto: “male non fare paura non avere”.

Il parroco era considerato un mediatore tra il divino e le faccende terrene che si doveva guadagnare sul campo la considerazione, la stima e, non raramente, l’affetto dei parrocchiani. La visione, insomma, era sicuramente manichea: c’erano i preti “buoni”, quelli che non discriminavano i comunisti, che non facevano pesare la scarsa assiduità ai riti, che lasciavano ai chierichetti i soldi delle offerte in occasione delle visite alle famiglie per la benedizione pasquale…e c’erano gli altri…..

Era l’epoca in cui per “entrare” in banca, ovvero essere assunto, serviva il giudizio favorevole del prete……

Nella visione popolare (e, diciamo, di sinistra?), più difficile entrare nella cruna dei “buoni”, rispetto a quelli di campagna, per i preti di città, vicini alle gerarchie ecclesiastiche ed alle famiglie nobili (seppur di una nobiltà di fresca decadenza) e borghesi che, dietro consistenti elargizioni, avevano la panca riservata, con tanto di nome sulla targhetta. E di panche io me ne intendevo!

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Nei miei anni 50 il parroco di Sant’Agostino di cui nemmeno la Elsa ricorda il nome, era uno di quelli ”buoni”, sia pure di una bontà di tipo assistenziale. Convogliava i bambini che, disponibili a pulire e spolverare le panche, ricevevano in cambio la merenda giornaliera (pane e marmellata, castagne). A quel tempo non era cosa da poco. Il servizio naturalmente non veniva controllato ed a noi bambini, oltre il cibo, piaceva la familiarità che si stabiliva con il luogo sacro, la sacrestia, la sala giochi nel retro con il “biliardino”, le stanze private del parroco.
Per ridurre le “differenze” tra chi poteva permettersi “il rinfresco” e chi no, dopo la cerimonia della Prima Comunione, il parroco offriva ai comunicandi e “santoli”, ovvero padrini e madrine, cioccolata in tazza, biscotti e ciambella. Un’iniziativa che veniva colta con gratitudine dalle famiglie. Forte, invece, era la diffidenza verso le “dame di carità” che portavano il “pacco” di viveri alla famiglie povere, dove il pezzo forte era rappresentato dalle “gallette” di formaggio.

La mia famiglia non l’ha mai accettato non (solo) per orgoglio ma anche perché convinti che altri ne avessero più bisogno. La mamma si prestava a fare i lavori per le “signore”: lavare, stirare, pulire…ma la carità delle dame veniva mal digerita……

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