Il pennarello giallo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Francesco Bonicelli

di Francesco Bonicelli

DEL CULTO DELLA MADONNA DELL’ARROSTO.

Se è degna di fede la credenza secondo la quale è il dio a mandare agli uomini le sventure affinchè ogni generazione abbia di che scrivere, dal momento che ogni storia vuole diventare libro e il mondo, più che di atomi, lo percepiamo e cogliamo come fatto di storie, di soffi che fanno parte di un più grande misterioso vento, che tende a un orizzonte che sempre si allontana, i cui effetti sorprenderanno i posteri, in un unico punto in cui memoria e fantasia concentrerano tutto il tempo, di ieri e domani, annullando la chimera del passato e del futuro, ebbene, se ancora possiamo credere, sebbene Dio non sembri più che una parola, che la parola abbia il potere di modificare il mondo, aprire mari e sprofondare montagne, allora daremo fede alla storia di un uomo di stirpe moresca, il quale fu catturato dai portoghesi mentre stava pescando polpi, tranquillo, nel mare che conosceva da quando era bambino, al largo di Tabarca, e che non aveva mai lasciato, non sognando altri mari.

Dopo innumerevoli e orribili torture subite da quello, nelle prigioni dell’Inquisizione, i cui generali dovevano ben dare qualcosa da fare alle pletore di parenti e amici di amici, cui Natura aveva dato forza bruta, creduloneria e crudeltà, al posto del ben dell’intelletto, quando nella Mancia vagava ancora il magnanimo Don Chisciotte, il nostro moro prestò fede alle formule magiche che gli aveva insegnato suo zio, potente mago del deserto, che sarà poi anche maestro di Jan Potocki, e nel giro di men che non si dica, inventando accuse, complotti e nascondigli fittizi, infiltrazioni islamiche nel cuore dell’Europa e personaggi carismatici e fanatici, quanto fantomatici, fu battezzato Alvaro de Andrade, con tanto di investitura e anello signorile al dito, e posto a capo di un piccolo esercito di sbandati e criminali comuni, pronti a riconquistarsi un posto in Paradiso come evangelizzatori.

Dopo aver scorazzato per tutta la penisola iberica e oltre, catturando ebrei, pseudo-maghi, prostitute, osti e fannulloni, accusandoli di essere al servizio di un complotto islamico segreto per conquistare l’Europa, furono spediti nel cuore del Marocco, dove giunsero dopo molti anni e dopo aver perso in un naufragio una imbarcazione, aver condotto un traffico di schiavi ed essersi intrattenuti a lungo con certe splendide e grasse sirene nei pressi delle Canarie, con le quali rimasero a vivere alcuni membri di quel piccolo esercito di improvvisati eroi.

Arrivato in Marocco, Andrade fondò un castello sulla costa, dove godette a lungo le delizie del mare e del sole, anziché combattere una crociata, tornando al suo antico mestiere di pescatore e battezzando molte belle donne.

La fervida fantasia di alcuni poeti e storici europei (anti-illuministi e anti-empiricisti) dell’epoca, inventò le più incredibili avventure cavalleresche per quei nobili cavalieri che si godevano la vita nel castello del Signore de Andrade e quando i sogni presero il sopravvento, allora giunse un’orda di mori arrabbiati per davvero, a causa della perdita delle loro mogli nel castello sul mare, e sorpresero i cavalieri di Andrade, intenti nei bagni e nell’abbronzatura. Alvaro e pochi altri tennero testa per qualche mese agli assalti dei mori, dietro alle loro possenti mura e torri, lanciando con violenza dalle finestre ogni oggetto prezioso e ricchezza che avevano accumulato in quei lunghi anni di scorribande. Poi il re del Portogallo decise di mandargli una imbarcazione e trasferirli in Brasile.

Quindi Alvaro sottomise un leviatano e gli legò il castello al collo, a guisa di rimorchio, e con castello, pochi compagni e quel poco che era rimasto, si fece traghettare dal mostro dei mari, attraverso l’oceano sorto dove nella più remota antichità sorgeva il sesto continente. Si trovarono sulle coste del Brasile e, seguendo la mappa e le indicazioni del loro sovrano, raggiunsero un luogo dell’interno, infestato da gigantesche zanzare e piranhas.

Fu loro ordinato di costruire una chiesa e di evangelizzare ogni essere vivente che vi trovassero. Dopo aver battezzato anche l’ultima farfalla e l’ultimo pappagallo, morto il santo cavaliere Alvaro de Andrade, gli eroici cavalieri iniziarono a costruire una chiesa sopra la sua tomba, eretta ad altare, e fecero tanta fatica, nutrendosi di cavallette, bevendo acqua marcia, morendo dal caldo umido e grattandosi ovunque per le maledette zanzare, che a un certo punto cominciarono spontaneamente a pregare piangendo dal loro cuore, il loro santo vate e condottiero trapassato e senz’altro assunto in Cielo, di inviar loro qualcosa di buono da mangiare.

Consumarono tanto i loro ginocchi, nelle suppliche, che un bel giorno apparve loro una bellissima madonna, con sembianze indigene, recante un arrosto di vitello e un fiasco di vino rosso corposo, e ne mangiarono e bevvero tutti fino ad averne le pance piene. Benchè molti gesuiti insinuarono che quei doni arrivassero da una comunità indigena vicina, i cui abitanti si erano impietositi di quei poveri diavoli, i cavalieri di Andrade sostennero di aver civilizzato loro per primi una zona completamente disabitata ed effettivamente la resero tale, quando furono finalmente incaricati dal papa di colpire e disperdere le comunità intorno, che i missionari gesuiti avevano fondato con pazienza e devozione.

Liberata l’area, finalmente diedero il via al lucroso culto della Madonna dell’Arrosto (o del Rosmarino) e della tomba del Santo Martire Alvaro, le cui ossa venivano di tanto in tanto mostrate a folle di coraggiosi pellegrini provenienti dall’Europa, che consumavano per chilometri piedi e ginocchia, per poter veder quel luogo, sperando di ricevere un arrosto celestiale. I monaci, discendenti di quei primi cavalieri provenienti dall’Europa e dal Marocco, oltre ad essere rinomati allevatori di vitelli grassi e coltivatori di timo, alloro e rosmarino, rimasero noti per la loro scandalosa condotta con le pellegrine, questione sulla quale però tutti tacevano lasciando un alone di accattivante e mitico mistero.

La via per raggiungere il santuario era molto pericolosa e infestata da selvaggi, finchè l’imperatore d’Austria, Leopoldo, non inviò un gruppo di pastori hutsuli, seguaci di Zoroastro, spaventati dal dio aratore Ekatlos, a disinfestarla e renderla sicura e praticabile. A poca distanza da lì, fra il ventesimo parallelo e il sessantesimo meridiano, all’incirca, quelli stessi hutsuli fondarono lo Stato di Dunajska, riconosciuto solo da Moric Benyovszky, primo re slovacco del Madagascar, e da Francisco de Miranda, per il quale quegli hutsuli combatterono slealmente, sognante liberatore dell’America Latina, tradito e ucciso dai suoi stessi alleati.

Gli hutsuli presero in mogli le schiave negre che fuggivano dalle colonie intorno o le amazzoni masticatrici di coca.

Ma le storie sono ramificazioni che vivono in chi le ascolta e le ricorda, attraverso nuove immagini, nuove parole e nuova materia. Ogni vita è confluenza di eternità e risultato di tutta la vita di tutto l’universo.

DI COME IL POETA UFFICIALE (CADUTO IN DISGRAZIA) DEL GLORIOSO STATO DI DUNAJSKA, INCONTRO’ UN FANTASMA E DI COME CONVERSARONO DELLA STORIA DEL LORO PAESE.

È mai possibile che tutti gli scrittori con un minimo di talento, nel marasma generale che è il mondo, anche nelle più impensabili circostanze, debbano trovare tempo per qualche scrittore alle prime armi, pronto a importunarli con le sue pagine raffazzonate, convinto che qualcuno debba scoprirlo, persuaso di avere un reale talento, su cui però ancora nessuno si è soffermato?! Come un nigeriano che scopre la neve.

Credo che questo pensasse Filisberto Sapieha, quando un fantasma iniziò ad infastidirlo nella sua cella puzzolente, implorandolo di leggere il suo romanzo. Se Dio ci parla nel silenzio e nel riposo, forse Sapieha, fra un sogno e l’altro, stava anche parlando con Dio.

Il conte Sapieha si trovava in prigione perché era stato arrestato dopo l’ennesimo golpe militare avvenuto a San Robustiano, capitale andina dello stato eminentemente agrario di Dunajska (che nel suo scudo aveva un dito mediano alzato sopra una latrina), staterello dimenticato, in Amazzonia, fondato nel 1795 (anno in cui Stanislao Poniatowski donava al Regno di Polonia la prima costituzione liberale d’Europa), da una banda di hutsuli gauchos, ubriachi, nati sulle sponde del Danubio e andati a morire in Sud America, per la causa del generale Francisco Miranda, alla ricerca di un posto nella Storia, al quale però preferirono una vita appartata, semplice e disonesta.

Ai piedi del maggiore massiccio montuoso dello stato, città caotica, nonostante lo schema ippodameo, di svettanti e fatiscenti palazzoni moderni, in periferia, circondati da baracche, con qualche casa coloniale, qualche chiesetta barocca e alcuni storici palazzi inneggianti al neoclassicismo europeo, ampi boulevard alberati, in centro, dove si trovano le ambasciate e le scuole private più esclusive, pochi campi da golf, tram sferraglianti e autobus sovraffollati, in un continuo saliscendi di strade, San Robustiano era stata colonizzata, poco dopo la sua fondazione, da masse di migranti italiani, spagnoli, polacchi e irlandesi, dai loro santi e dai loro dialetti, arricchendo la carità pelosa di tutti gli enti benefici religiosi e laici, che da allora si infiltrarono nella politica e nell’economia del Paese, per non uscirne mai più.

A quell’epoca le donne avevano poche pretese, i nobili consumavano ogni cosa a credito, tutto era carico di sensualità, il sole brillava e il vento soffiava ogni giorno e gli uomini si capivano perché non c’è migliore conversazione che tra chi parla lingue diverse e non si capisce. L’uomo torna alla sua essenzialità, fatta di gesti ed espressioni facciali. La lingua è inessenziale e superflua in qualsiasi conversazione autentica, ma abbiamo bisogno del superfluo come del respiro.

Gli abitanti di Dunajska si erano dati quindi una lingua simile al cocoliche o al lunfardo, una panlingua: un miscuglio di genovese, gallego, portoghese, yiddish, guaranì e yoruba (la lingua degli ex schiavi negri fuggiti dai latifondi degli stati vicini).

Dunajska aveva iniziato bene, ripudiando la schiavitù e garantendo scuola pubblica e divorzio. Il motto dei suoi primi capi, che avevano avuto in dono dal Cielo una fede profonda e viva, era: Che Dio ci liberi dalla religione della superstizione! Fuggendo la compiacenza e il razionalismo cieco, cercando la verità, perseguendo il dovere di vivere felici e il diritto degli uomini qualunque di essere buoni e generosi, vivendo una vita dignitosa, governavano secondo questi ideali.

In seguito, tuttavia, i loro successori avevano fatto di tutto, nel secolo successivo, per rimediare al liberalismo dei padri fondatori e riconquistarsi la fiducia della Reazione. Di colpo di stato in colpo di stato, di guerra civile in guerra civile, le cose erano andate sempre peggio e se una cosa deve andar male lo farà.

Le città marcivano e sulle loro macerie sorgevano sempre nuovi bordelli e nuove case da gioco, per gli uomini d’affari, le spie e i turisti che attraversavano di passaggio il brutto stato e volevano divertirsi per cifre irrisorie.

Di fantasmi si sente parlare ormai pochissimo, come scrisse all’inizio del secolo scorso il grande scrittore anarchico ceco, Jaroslav Hašek. Oltre ad alcuni spiritisti ne parlarono anche Oscar Wilde, più di recente Roald Dahl, ma escludendo le tradizionali fiabe per spaventare i bambini, considerando che fino a qualche anno fa si aggirava ancora il senatore Giulio Andreotti, nel Parlamento italiano, davvero sembra che questo non sia più un mondo per fantasmi.

Il fantasma Ughetto, che approcciò Sapieha, non era infatti un vero fantasma, era un povero spirito che era stato perso dal suo “padrone”, il quale forse aveva corso troppo.

Ughetto stesso era stato cresciuto con Aristotele e non avrebbe mai creduto di potersi staccare dal corpo e condurre una vita autonoma. Sentiva una minima nostalgia, ma per come veniva trattato ultimamente, non avvertiva troppa pena per la sorte sconosciuta di quel recipiente che per lunghi anni lo aveva compresso e contenuto.

Anzi, il fantasma, una volta fuori da quella prigione in qualche angolo recondito dello stato (dove ora il corpo senza spirito si dibatteva, rotolava e dava testate senza ragione, rovesciandosi e facendosi tutto addosso come un neonato), aveva raccolto un pennarello giallo per la strada, forse perso da un bambino timido e distratto, e con quel pennarello giallo, il fantasmino, aveva iniziato a scrivere, sentendone la necessità irrefrenabile, il suo sognato romanzo. Aveva scritto sui tovagliolini e ai margini di alcune vecchie riviste, al tavolo di un pub, poi si era messo alla ricerca di qualche scrittore affermato al quale farlo leggere.

Sapieha non poteva certo essere lo scrittore preferito di un idealista, anzi, probabilmente Ughetto non ne aveva mai letto nemmeno una riga.

Uno scrittore allineato sempre con il potere di turno, che per tutta la vita aveva coltivato con tenacia un culto per i dittatori internazionali. Stava con i guerriglieri della foresta quando questi sembravano prendere il sopravvento, con i militari quando riprendevano il potere, riuscendo sempre a sopravvivere alle purghe e alle proscrizioni dell’una e dell’altra parte, e delle diverse fazioni che si avvicendavano al loro interno. Sapieha conosceva troppe cose di tutti e tutti sapevano che era un codardo che sotto tortura avrebbe rivelato tutto per filo e per segno, senza lasciare nulla al caso. Ma solo i veri codardi possono permettersi il lusso del coraggio, almeno una volta nella vita.

Ogni anno la prima università di Dunajska, La Scemenza, cultori della più vasta ignoranza, eleggeva Sapieha Gran giurato del concorso Miss Università, nel quale venivano triturate le tasse versate dagli studenti per comprare il loro “diritto allo studio”.

Sapieha aveva concepito una sua particolare e retrograda antropologia nazionalista, aveva mostrato alla sua gente, dopo molti studi, l’unica via ortodossa per essere veramente sé stessa, razza di Dunajska, miscuglio di Danubio, Paranà e Congo, e aveva insegnato ad onorare anche con il sangue le proprie radici, disprezzando ogni altro popolo, predicando l’odio in nome di un Cristo Re, pagano e sanguinolento, rifiutando il Logos. Predicava di resistere al pensiero, di respingere il Logos, quel luogo in cui gli uomini nuotano sempre, senza poterne fare a meno, volenti o nolenti.

In pose solenni sul suo cavallo, discendente dai nobili destrieri importati e allevati dalla sua famiglia per generazioni, Sapieha, baffi arricciati all’insù, stretti occhi grigi e zigomi unni, fronte tempestosa, sguardo torbido e petto estremamente lanoso, seduto come un indiano, senza sella, con un certo dolore ai testicoli, sapeva parlare alle folle coniugando demagogia socialista e revanscismo fascista, semplificando ogni problema (come nei suoi romanzetti rosa), facendo sentire tutti superuomini, legati da un’unica origine e vincolati da un unico destino, un popolo scelto dal Signore per “purificare il continente”, facendo parlare il coltello e tuonare il fucile, come incitava a fare dalle colonne del suo giornale Sangue e Nazione, che nel sottotitolo recitava: “Il miglior nemico è il nemico morto!”.

Tra le altre cose Sapieha era stato anche uno sceneggiatore di film porno, alcuni di vasto successo come Gli uomini-falena superdotati e le donne chupacabras, donando a certe ex SS, in fuga dall’Europa, la possibilità di riciclarsi come pornoattori per una prestigiosa casa produttrice di film pornografici, erotici, hardcore. Nel tempo libero alcuni di loro suonavano in una orchestra itinerante che girava per il mondo per suonare ai funerali di nazisti. I viaggi li pagava la figlia di Himmler, guru del veganesimo.

Anche Sapieha ormai pareva in effetti essere ridotto a un fantasma. Il Paese sembrava non averne dunque più bisogno, non aver più bisogno dei suoi versi ampollosi e bislacchi, ridondanti e forbiti, dei suoi sguardi sagittabondi, lanciati da migliaia di fotografie. Il suo giornale stagnava nelle edicole, benchè non fosse ancora nella lista di quelli che dovevano essere chiusi per compiacere quel generale o quell’altro. Egli era stato l’unico parlamentare (e nessuno se lo sarebbe aspettato), a rifiutarsi di votare presidente dell’assemblea l’uomo proposto dalla nuova giunta, il più ignorante e arrogante di tutti, che da ministro dell’Ambiente aveva disfatto un quarto delle foreste del Paese, diventando il maggiore esportatore di legname. In realtà Sapieha semplicemente lo disprezzava a pelle e aveva dichiarato che gli era epidermicamente impossibile votarlo.

Il generale Mendoza-Moczulski, apparentemente comandante della Giunta, flaccido discendente di una famosa famiglia di doppiogiochisti, non si era nemmeno scomodato a fucilare il conte Sapieha o a farlo scomparire, e nessuno d’altro canto lo andava a trovare in prigione, tranne ragni e scolopendre.

Nei suoi romanzi egli aveva per tutta la vita dimostrato un verace e schietto disgusto per il senso pratico, la tecnica, il lavoro manuale, i giudei, i sassoni, gli italiani, la logica, il mercato e i traffici di ogni genere e altre simili barbare mediocrità.

Probabilmente ora invece i generali chiedevano soldi capitalisti per tentare di riparare ai loro danni, rempiendosi le tasche e aderendo a un anti-semitismo mal celato ma di stampo più moderno. Sapieha non aveva né il coraggio di fuggire nella foresta, né la certezza e la fiducia che i guerriglieri lo avrebbero voluto fra i piedi o si sarebbero ancora fidati di lui, dopo tanti voltafaccia. E forse gli stessi guerriglieri, le Tigri della Giungla, non si sarebbero più lasciati incantare dalla sua retorica superata dalle gioie onanistiche più intense della modernità. La rivoluzione è cosa che oggigiorno si fa sui social network e su youtube.

Il nonno di Filisberto Sapieha, generalissimo Robustiano Sapieha, allievo del fotogenico e monocolato generale von Seeckt (che era stato anche istruttore dei soldati di Chiang Kai-Shek contro Mao), principe della caccia e della spada, discendente di quel San Robustiano, fondatore della città capitale, mezzo guaranì, un quarto tirolese e un quarto polacco (messo in croce da un rabbino, secondo la leggenda), amava il nipotino, portava la barba come una bandiera e mostrava le ferite sul petto come medaglie, conservava i libri come urne, convinto che ogni uomo d’ingegno lasci alcuni libri alla Storia, i quali contengono la vita del loro autore e salvare e custodire i libri significa salvare quelle vite e quindi l’umanità, salvare i suoi ingegni migliori e le vite, vere e immaginarie, di coloro che li hanno incrociati, che hanno abitato le loro menti e le loro penne per un po’, che li hanno letti, eccetera. Con questo spirito il generalissimo conservava i libri e si commuoveva leggendoli e rileggendoli. Al nipote insegnò a fumare e a fare la guerra, ma Filisberto seppe solo predicarla la guerra e non volle mai farla, faceva parte di quella generazione che ha solo fumato, e dissipato fortune. Si sa, le generazioni e le fortune sono cicliche.

Il nonno di Filisberto Sapieha andava ancora nelle sue terre, a dare ordini ai braccianti, sotto il sole cocente, con il sacchetto del catetere legato al collo, mentre i suoi nipoti si occupavano dell’influenza del canarino e i suoi figli seminavano figli illegittimi, il vecchio si spegneva di giorno in giorno, cercando di attirare in tutti i modi la loro attenzione.

Poco prima di morire, in preda alla febbre, in piedi sul pozzo in cortile, aveva profetizzato che Hitler e Stalin erano gli ultimi eroi atlantidi, gli angeli dell’Apocalisse, dopo i quali il male non avrebbe più avuto un volto, nessuno scopo, esso si sarebbe aggirato nel mondo, fra uomini ignari e illusi di essere al culmine del benessere, attraverso un brulichìo di gente con le mutande fuori dai pantaloni, che avrebbe picchiato e incendiato i barboni nelle città, per divertimento, poi per riempire il tempo e trovare un’occupazione si sarebbero arruolati nella guerriglia terroristica islamista e negli spaccavetrine dei partiti estremisti di ogni dove. E allora il mondo avrebbe rimpianto i tiranni più sanguinosi e crudeli, perché contro il deserto umano non si può combattere. L’uomo avrebbe rimpianto i grandi nel male danteschi, come un moderno oncologo potrebbe rimpiangere colera, tifo e vaiolo. Nessuno dopo di lui e la sua generazione, avrebbe più saputo che cos’è la bella vita, come aveva profetizzato Talleyrand.

In realtà oggi avremmo tutti gli strumenti per vivere meglio, ma non sappiamo più come farlo.

Il generale Sapieha, nonno dello scrittore, aveva una mira infallibile con ogni arma da fuoco, amava prendere il sole come le lenzuola stese in cortile, sgridare i suoi cani, contemplare la magnificenza dei suoi galli e insegnare sempre qualcosa a qualcuno, godendosi la vedovanza fra i suoi alberi, come un selvaggio. Aveva anche un gusto sadico nel colpire e uccidere i suoi pavoni, con un pugnale, quando ne coglieva qualcuno alla sprovvista, da dietro un cespuglio, come un puma. La nonna era scomparsa in Tibet cercando di sostituire lo yoga al fumo.

Torniamo ora, dopo questa inutile digressione, nella cella, con il nostro fantasmino Ughetto e il nostro Filisberto Sapieha, illustre poeta.

Ughetto era un piccolo spirito perduto, non è detto che ciò che è piccolo sia brutto, anzi! Per gli antichi greci solo i barbari erano grandi e grossi. Ughetto entrò nel sonno di Sapieha come una vocina interiore, ripescandolo dai suoi abissi, come un pesce.

Il conte Sapieha giaceva con i baffi stropicciati, sognando donne bionde e mulatte che si muovevano verso di lui, insieme alla carrozza dell’ispirazione, mentre egli proclamava la sua bellezza al mondo e stava per cogliere un verso poetico, come nella sua vecchia testa, ormai arida, non ne sbocciavano più da tempo, quando ecco il fantasma lo fece spaventare e svegliare di soprassalto, nel suo angusto giaciglio.

-Chi diavolo osa disturbare il sonno del poeta? Mostrati se hai coraggio! Disse scostandosi la ruvida coperta di dosso e inforcando le ciabatte nel buio.

Ughetto, poco più grande di un’unghia, gli svolazzò sotto il naso, facendolo starnutire violentemente.

Gli spiegò che egli era sgusciato fuori dal corpo che lo aveva contenuto per anni, perché il suo padrone aveva corso troppo, occupandosi di narcotraffico e alcool. Però questo non gli sembrava comunque sufficiente per confermare che esistesse vita dopo la morte, infatti il corpo dove era stato, riteneva a ragione, viveva ancora, incurante di aver perso la sua parte più preziosa.

Il conte non poteva credere che l’anima potesse essere anche così piccola, ma Ughetto disse che riteneva essercene di tutte le taglie. Purtroppo il conte non era nelle condizioni di offrire un caffè al suo ospite, date le circostanze. In prigione servivano solo ratti e scarafaggi e minestre piene di moscerini, osservò con disappunto, ricordando nostalgicamente le sue mangiate imperiali dei tempi andati.

Ughetto spiegò che aveva deciso di rivolgersi al conte per fargli leggere un suo scritto (che finalmente aveva potuto metter giù, essendosi liberato del suo contenitore) dato che tutti i talenti letterari migliori avevano lasciato da tempo il Paese, vivevano negli Stati Uniti, in Canada, o in Nord Europa, dove gli unici a curarsi di loro erano stati alcuni nostalgici fascisti e rari trotzkisti, dato che i generali di Dunajska e i generali russi e americani, invece, si scambiavano onorificenze e si gonfiavano reciprocamente il petto di medaglie. Sua Eccellenza, il Tenente Generale Don Jorge Rafael Primo Sidonio Mendoza-Moczulski O’Hara, dipinto dalla stampa internazionale come buon padre della patria (solo Graham Greene aveva osato dissentire dal coro), era stato foraggiato anche dalle banche belghe per poter deporre il suo predecessore e proclamare, dal suo cavallo bianco, fra centinaia di pennacchi e anacronistiche baionette, che tutta la storia del mondo si era svolta per regalare agli uomini la sua illuminata reggenza, in nome dei Sacri Vangeli e dei timorati costumi di Dunajska, per eliminare tutti coloro che la pensavano diversamente da lui, poi tutti gli amici e collaboratori di questi ultimi e finalmente tutti i timidi. Il figlio di sei anni aveva ricevuto per il suo compleanno un’alta uniforme da Ammiraglio degli ammiragli, con la quale seguiva il padre nei viaggi diplomatici, trascinando la lunga e pesante spada, autentica, appesa alla cintura, fra gli applausi compiacenti di certi ebeti politici europei e americani.

Sapieha stesso affermò di odiare tenacemente i timidi, la maggiore disgrazia della avventurosa razza cosmica di Dunajska. Ughetto invece disse che, se valeva la pena vivere per qualcosa, valeva la pena vivere per difendere le ragioni più timide. Solo i coraggiosi sono timidi.

Dunque Sapieha disse che intanto non gli importava più niente. Fuori lo credevano già tutti morto. Perché ogni fatto personale, a Dunajska, diventava pubblico, ogni cosa era sentita come un fatto collettivo, nessuno aveva mai avuto diritto alla sua privatezza, alla sua soggettività, al suo spazio, a vivere in solitudine ciò che lo riguardava nel bene o nel male, la morte, la nascita, il matriomonio. Il popolo di Dunajska era in realtà una piccola tribù dove tutti erano pronti a mettere al rogo chiunque volesse vivere privatamente. Con ciò tuttavia non poteva accadere che qualcuno si preoccupasse della sorte altrui o volesse prendersi la responsabilità della felicità altrui o si sacrificasse per il suo prossimo senza pensare a chi fosse, banalmente tutti amavano mettere il naso nei fatti più privati solo per il gusto di farlo: per poterne parlar male ed emettere i loro giudizi vuoti e stupidi, sputare le loro sentenze cretine, e a questo si veniva educati dalla più tenera età.

Se anche inoltre qualcuno sentiva il bisogno di fare qualcosa per gli altri, ignorava che il mondo si possa salvare a due passi da noi e andava a fare viaggi in disgrazie lontane mantenute tali da un sistema che desiderava avere a disposizione una grande lavatrice collettiva, un sistema mostruoso che inghiottiva tutto e dava la parola soltanto a chi non aveva niente da dire, che odiava l’istinto autoconservativo degli uomini e svuotando gli individui di ogni autonomia e dignità li illudeva poi di poter salvare il mondo andando in un qualsiasi luogo disgraziato per poter poi tornare a fare cene di gala, in onore della fame che avevano visto, alle quali invitare conoscenti da intrattenere con storie commoventi.

Ma torniamo al dialogo fra Ughetto e Sapieha.

-E allora perché lei non se ne è mai andato via e anzi è rimasto qui a contribuire a questo stato, contribuendo con le sue opere, mi scusi, a renderlo sempre più frivolo, ignorante, bigotto e incattivito?- domandò il fantasmino.

-Se tutti gli scrittori avessero abbandonato questo Paese non sarebbe più rimasto nessuno a difendere la nostra lingua, la nostra letteratura, la nostra cultura. Non avrò avuto il coraggio forse, ma se Dunajska ha ancora una letteratura e molti libri sono stati salvati dalle fiamme apocalittiche dei messia della Rivoluzione e della Reazione, è forse stato anche grazie a me! E l’unico modo per farlo era galleggiare in questa palude, lusingare i capi di turno, cercando di dare forma all’idea di stato e di nazione più vuota e becera possibile, che potesse sempre accontentare gli uni e gli altri-

-E già, proprio questo è il fatto, che i nostri capi sono lo specchio più fedele della nazione, purtroppo. Quanto è più stupido e illusorio e controproducente è continuare a vederli come dei marziani lontani e diversi da noi. Ci deve essere tutta una società compatta nel tollerare, se non addirittura promuovere, sostenere e approvare, certi governi e certi governanti, ci vuole un’intera società che accetti di vivere nella paura e di fare quotidiano esercizio di demolizione della propria soggettività e della propria libertà. E poi finisce per essere un circolo vizioso, che si autoalimenta per sempre-

-Come dice bene caro spirito! Certo nulla dev’essere evidente e chiaro come quando lo si vede in maniera lucida fuori dalla carne, non è vero?-

-Ma… non direi proprio, sono come in una nebbia e non vedo quasi niente! Riesco a malapena a rubare qualche sigaretta. Queste cose le so perché le ho pensate e ragionate dentro di me prima di uscire dal corpo. Però questi ragionamenti hanno portato la persona in cui mi trovavo a darsi all’alcool, poi al narcotraffico, per non ascoltarmi più, forse per paura, come succede nei grandi amori. L’anima si costruisce nella vita, di piccola verità in piccola verità. Le grandi verità di questa scimmia nuda che si prende troppo sul serio, in realtà servono solo ad offuscare le piccole verità quotidiane, i doveri di ogni giorno, soffocati dai diritti. Il giusto si intuisce sperimentando le cose e ogni volta ci esplode davanti agli occhi, anche senza avere nessuna idea chiara di Giustizia, credo-

-Credo anch’io. Ma mi angoscia pensare che diventare puro spirito non mi farà vedere più lucidamente, né essere convinto delle cose-

-La convinzione è una cosa da mortali-

-Evidentemente. Ora mi fa pensare alla fine che hanno fatto certi uomini che hanno rifiutato le convinzioni e le catene dei pregiudizi, volendo vivere l’autenticità della vita, quello che i più non riescono a fare essendo più facile rassegnarsi alla morte che alla vita, essendo più facile essere tristi che scoprirsi di naufragio in naufragio, dovere al quale la vita chiama ciascuno di noi-

-Avanti, racconti-

-Il migliore governo di Dunajska fu quello di Don Boludo Prst, nel ’60, ucciso da mio nonno. Avendo egli un cognome impronunciabile ed amando solo leggere, disse che lui non voleva essere ricordato per nulla di particolare, se non per la tenerezza. Si fece eleggere presidente promettendo a tutti soltanto di non rompere le scatole e che sua intenzione sarebbe stata solo quella di sorvegliare sul regolare svolgimento della costituzione. Fu un grande esempio per tutti, non si faceva mai vedere o fotografare senza libri intorno o in mano. Lo rimproveravano di non aver mai scritto sue memorie come tutti gli altri suoi concorrenti in politica avevano prima o poi fatto, e lui rispondeva tranquillo: perché sprecar tempo a scrivere, quando nello stesso tempo che impiegherei per scrivere un libro posso leggere dieci o venti volte tanto? Il mondo ha soprattutto bisogno di buoni lettori. Andava anche a leggere nelle biblioteche di periferia, amava il greco antico, apriva biblioteche anche nei villaggi, per divulgare a tutti la letteratura di tutto il mondo, lasciava il palazzo presidenziale ai poveri della capitale, mentre lui si occupava di arricchire di libri le biblioteche e di fiori i giardini pubblici, nel tempo libero badava alle sue api e alla sua uva, nella sua casetta di campagna, ai margini di San Robustiano e lasciava che gli affari economici procedessero, senza intromettersi.

-Ovviamente, al popolo iniziò a pesare tutta questa libertà e tempo due anni fui incaricato da alcuni amici dell’esercito, vicini a mio nonno, di fondare un giornale, piantarla con le poesie, iniziare a diffamare il presidente Prst, e poi diffamarlo per non aver risposto alle nostre diffamazioni. Ero molto giovane e già arrogante. Riuscimmo ad accendere una miccia che non si sarebbe mai più spenta e la gente era orgogliosa di leggere di appartenere a un popolo prescelto, tutti si sentivano i migliori, epigoni della storia del mondo, al di sopra di tutte le altre nazioni. Noi avevamo solo il compito di dar sfogo alla fantasia ed inventarci i peggiori torti inesistenti da parte degli altri Paesi. Ogni pietra nel nostro stato veniva cantata e glorificata come un monumento di rilievo assoluto. Nello stesso tempo gli sbandati nelle strade cantavano: “Quando sentiamo parlare di cultura, mettiamo mano al coltello!” E diventavano sempre più numerosi. Facevano marce contro Israele. Prst si limitò un giorno a dire che la prepotenza, la violenza e le bugie sono forti, ma anche la verità è molto potente, e per questo fu vigliaccamente ucciso nel sonno, mentre sognava i variopinti uccelli tropicali che amava tanto. Il fatto che nessuno nella sua famiglia avesse mai avuto la minima ambizione e che tutti fossero stati artisti falliti, fu visto come una vergogna, così come il fatto che fosse solitario, senza donne, e per questo accusato di essere omosessuale, ma più di tutto dava fastidio che non divulgasse autori politici, che rifiutasse ogni appiattimento e ogni schieramento ideologico, egli amava solo la vita, e l’arte come forma di vita poderosa, incurante dei compiti che dovesse avere l’arte, al di fuori del far conoscere agli uomini l’umanità in loro stessi, commuovere o divertire. Forse davvero il mondo è fatto per essere ricreato dai pazzi, sicuramente è fatto per essere sognato e nei sogni fare compagnia a Dio-.

Sapieha e il suo editore erano andati a fare una passeggiata e osservando un dirupo profondo, l’editore gli aveva proposto se non fosse il caso di abbandonare la poesia per un’occupazione più seria, collezionare teschi e scheletri e studiare con squadre, righelli e compassi, le misure della razza perfetta. I servizi segreti e la guerra civile fornirono moltissime ossa da studiare.

-E poi cosa successe?-

-I generali, una volta conquistato il potere, si divisero le fabbriche e le aziende statali, alcune furono distrutte per far spazio alle multinazionali straniere che li avevano spronati (le ferrovie furono smantellate), gli ebrei espulsi dalle università, in una generale anomìa ogni capo iniziò a far fuori i suoi personali nemici e i suoi rivali e a raccomandare i suoi fedeli e arricchire i sindacati e i gangsters, producendosi in pose mussoliniane, poco fotogeniche, nel tempo libero. Alcuni generali addirittura benedivano folle di appestati, come re taumaturghi, lanciavano sale e rametti e a qualcuno venivano addirittura tributate processioni, intitolate città. Ogni generale girava il Paese a deporre il primo mattone di diverse scuole e università, in nome della nuova cultura, purificata dalle sue secolari piaghe, scuole e università che in realtà non sarebbero mai state realizzate. Ogni generale proclamava che Dunajska era la nuova Grecia del mondo contemporaneo, San Robustiano la sua Atene. Chiunque manifestasse idee che dissentivano dalle informazioni ufficiali veniva scaraventato nell’oceano. Come era successo in Unione Sovietica a Vavilov, quando quest’ultimo aveva dissentito in merito all’agricoltura lamarckiana, così nella fascistissima Dunajska vennero fucilati, impiccati, scorticati o arsi vivi agronomi, astronomi, matematici, persino i sismologi e i vulcanologi che avevano cercato di mettere in guardia alcuni villaggi da imminenti terremoti ed eruzioni. La giunta militare aveva inviato un messo ad annunciare con il megafono, sotto una pioggia di lapilli, che tutto andava benone e che il vulcano non destava alcuna preoccupazione. Anche il messo era rimasto sepolto sotto la lava. Tuttavia vari ristoratori della regione avevano sostenuto di non aver mai lavorato tanto come in quel periodo-

-E chi furono i ribelli?-

-Quei generali che non ottennero quello che volevano e allora portarono le loro divisioni fedelissime nella foresta, indottrinandole con Lenin.

-I veri ribelli morirono o dovettero fuggire, attraversando fiumi o foreste senza nessun aiuto, alcuni rimasero e si nascosero o si misero a scrivere letteratura surreale, che tanto la censura non capisce, la maggior parte degli altri fecero solo ciò che era stato loro chiesto: destabilizzare il Paese e far regnare il terrore totale con il doppio gioco, ammantando poi tutto con nuove elezioni “libere”, ovviamente truccate. Come aveva chiesto il console britannico Lord Luis Acton, collezionista di bottiglie di whisky in miniatura, il quale impassibile, in quei giorni, fumava la sua pipa, pallido, mentre intorno a lui scoppiavano bombe e granate (inviate dai russi e dagli statunitensi) e davanti alle porte del consolato bande di miliziani, armati fino ai denti, difendevano, come un fortino, la sede diplomatica inglese, dall’assalto dei perseguitati richiedenti asilo politico e di tanti poveri cristi che fuggivano dalle torture e dal fuoco-.

Dopo giorni duri, la giunta capì che offrendo tanto calcio e tanti talk shows e in seguito reality shows, il popolo si sarebbe piegato in men che non si dica, con i licenziamenti in massa e l’ipervalutazione della moneta avrebbe poi avuto di che distrarsi, mentre ai tempi dell’alleanza con Hitler, i generali avevano dovuto prodigarsi a offrire combattimenti di galli, distribuzione di alcolici, amnistie, sigarette a buon prezzo e il sogno di un’alleanza diabolica fra i due imperi più grandi del mondo: il Terzo Reich e l’Unione Sovietica, dato che sia Hitler, sia Stalin, forse con una buona parola di quel “guascone” di Mussolini, Difensore dell’Islam, avevano assicurato a Dunajska il dominio sull’America Latina, fra le risa di brasiliani e argentini.

Ma quando le cose si erano messe male per i nazisti in Europa, il cardinale Felix Militaru, arcivescovo di San Robustiano, aiutato dal nunzio apostolico, aveva ospitato qualche ebreo in fuga dall’Est Europa e, forte di questo, aveva portato davanti al tribunale della Santa Inquisizione tutto il governo filo-nazista, da lui stesso benedetto fino a qualche giorno prima. Una volta impiccati e sepolti tutti i membri di quel governo, aveva nominato un reggente fantoccio che nelle ultime settimane di guerra dichiarò l’inizio delle ostilità contro la Germania, la Repubblica Sociale Italiana e il Giappone, poi si era recato dal papa e inginocchiandosi aveva ottenuto di essere ricevuto dall’ambasciatore USA a Roma, il quale era intercesso per lui, garantendo il perdono a Dunajska, che sarebbe stata subito inserita fra i paesi del blocco americanista anti-sovietico. Patto che fu mantenuto, malgrado l’arcivescovo venisse misteriosamente abbattuto da un missile, nell’aereo sul quale viaggiava, al suo ritorno, e prontamente rimpiazzato da qualcuno di più provata fede americanista, monsignor Pietoso Belmondo, definito un “progressista”, tuttavia molto sensibile al denaro degli ustascia e delle croci frecciate, in fuga dalla Croazia e dall’Ungheria, come al denaro e alle lusinghe (piene di tipico fervore del neofita), degli stalinisti in fuga da Chrusciov, dieci anni dopo. Gli stessi che lavorarono per boicottare Dubček in Cecoslovacchia e Kania in Polonia, e poi organizzarono il colpo di stato contro Ceauşescu, con Bush sr e Gorbaciov, per festeggiare degnamente il Natale 1989.

L’arcivescovo Belmondo riuscì ancora a benedire i fucili ustascia, ripresi vittoriosamente contro i serbi, negli anni ’90.

-Dovrebbe tornare un inca a regnare su Dunajska!- sentenziò Sapieha.

Bisogna sapere che questa è la frase più ricorrente sui muri di Dunajska ed è ormai divenuta proverbiale.

DELL’IDEA DI UN RE INCA PER DUNAJSKA.

L’idea di un re inca per Dunajska venne a Karol Sidor, ambasciatore slovacco in Vaticano, che monsignor Jozef Tiso era stato costretto da Hitler a buttar fuori dal suo governo fantoccio di Bratislava, governo che aveva la pretesa di diventare l’intermediario fra Terzo Reich, URSS e Vaticano e invece fallì miseramente.

L’SS Werner Best, che aveva litigato con Heinrich Himmler, aveva incontrato, al casinò di Cannes, Karol Sidor, il quale aveva sostenuto che Hitler era un deficiente, perché non si fidava degli slavi e dava retta a quel diavolo di Himmler, il quale aveva compiuto tutti quegli orribili massacri in Europa orientale.

Date le origini slave di Dunajska, questo bizzarro stato sudamericano fondato dagli hutsuli sarebbe potuto diventare lo stato garante di un’amicizia fra il panslavismo occidentale e Hitler, infatti, come sostiene Albert Speer nelle sue memorie, molti slavi aspettavano Hitler come un liberatore e credevano ciecamente nella sua crociata contro Mosca. Lo stato di Dunajska poteva diventare il miglior alleato di Hitler in America Latina, ma bisognava eliminare la Chiesa liberale, i sionisti e, dall’altra parte, gli elementi più himmleriani del governo, appoggiandosi eventualmente anche sui trotzkisti e senza dubbio sugli elementi più reazionari della Chiesa, cercando di mascherare il tutto con una jacquerie degli indios superstiti. Un re inca, sostenne Best, e un ritorno al paganesimo, sarebbero stati la ciliegina sulla torta, ma Sidor lo invitò a non correre troppo. Comunque per Best era meglio far conto sugli incas, piuttosto che sugli aristocratici indoariani del Tibet e della Mongolia, che avevano ammagliato Schafer, Himmler e, a suo tempo, il barone von Ungern-Stermberg.

Facendo una base in Sud America si sperava di potere, con il tempo, costruire una rete che arrivasse fino agli Stati Uniti e riuscire a trovare un crittografo navajo disposto a fare il doppiogioco e ad aiutare i nazisti a decrittare i messaggi in codice statunitensi.

Quindi, nell’ottobre 1941, con l’aiuto del filosofo argentino Nimio de Anquin, il quale sosteneva che gli ebrei fossero la razza degenerata dell’umanità, in quanto avevano fondato la loro religione solo sulle manifestazioni di Dio e non sull’intuizione spirituale, benché fossero stati da Dio eletti (e nemmeno di queste manifestazioni poi si erano fidati fino in fondo, avendo ucciso il figlio di Dio ed avendo generato Marx, Freud e Einstein), e con l’aiuto di Juan Posadas, un ex calciatore argentino, aderente alla Quarta Internazionale, che aspettava l’arrivo di alieni socialisti per socialistizzare il mondo, i tipi più particolari della pseudofilosofia di Dunajska si incontrarono, in incognito, a Cascais, in Portogallo, all’insaputa di Antonio Salazar, ma con la benedizione dell’eccentrico storico delle religioni della Garda de Fier, Mircea Eliade, e i passaporti falsi che aveva procurato loro il maggiordomo in pensione del già defunto Antonio Sardinha, il massimo interprete dell’Integralismo Lusitano, con l’aiuto di un’istituto cartografico di cui si ignora il nome.

Forse presero parte all’incontro anche Bombacci, in rappresentanza di Mussolini, e il fascista inglese Owen, in qualità di osservatori. Il generale Vlasov, che aveva tradito l’Armata Rossa per diventare il generale dei russi e degli ucraini che combattevano per il Reich, aveva mandato i suoi saluti attraverso un telegramma conservato al Museo Storico Nazionale di San Robustiano. C’è più di una ragione per affermare che anche Charles Maurras avesse mandato saluti e benedizioni, ma questi non ci sono stati tramandati.

Tutto comunque finì in una gran baruffa, dopo un pranzo futurista, iniziato col caffè corretto grappa e finito con il cocktail di gamberi più roseo mai visto, si scoprì che alcuni “accreditati filosofi cattonazisti o quartinternazionalisti” di Dunajska, erano in realtà solo dei disperati che avevano colto l’occasione per fuggire dal loro disgraziato Paese.

Posadas si giustificò dando la colpa a de Anquin e viceversa, facendo sembrare tutto un complotto argentino per ingraziarsi Himmler, decretando in ogni caso per sempre la rottura fra posadisti e cattonazisti, ma quando Best comunicò a Sidor il fallimento del tentativo, quest’ultimo rimase molto male e scrisse una lettera al muftì di Gerusalemme, avvisandolo che la seconda crociata planetaria catto-musulmana contro i mongoli si sarebbe dovuta rimandare a circostanze più propizie. La prima era avvenuta nel XIII secolo, quando i crociati, nell’attesa del Prete Gianni, preferirono allearsi ai musulmani contro i mongoli, piuttosto che allearsi con questi ultimi e terminare per sempre la tragica vicenda delle crociate.

Il muftì di Gerusalemme si offese e tornò a predicare ai bosgnacchi di arruolarsi nelle SS e continuare a massacrare ebrei e serbi, intanto lui avrebbe aspettato l’arrivo sicuro dei tedeschi in Palestina. Secondo il muftì infatti i tedeschi avrebbero salvato gli amorrei da Jabotinskij e dall’Irgun, i quali, là incombenti, minacciavano il mondo arabo con la creazione dello Stato di Israele.

Persino Salvador Dalì, inginocchiato ad adorare se stesso e il suo crocefisso, era stato disturbato e mobilitato per ritrarre il prossimo re inca di Dunajska e aveva comunque preteso un risarcimento e il pagamento per il disturbo, malgrado fosse arrivato al ricevimento con ampio ritardo, non avendo un orologio decente a casa, avendoli tutti liquefatti. Filippo Tommaso Marinetti dovette rabbiosamente stracciare le sue Odi futuriste al nuovo re inca dal promontorio dei secoli, che non videro mai la luce, ma sarebbero state un sicuro successo. Poco dopo partì volontario per il fronte russo, guidando alcuni impavidi volontari da Dunajska.

La United Fruit si accorse dunque di essere stata presa per i fondelli da uno che forse non era manco un inca per davvero, in base ad alcune osservazioni antropometriche. Costui era infatti un falsario di antichi papiri, del quale ancora oggi si ignora l’identità (anche se si ritiene fosse un cugino di Brimeyer, il quale con il medesimo insuccesso pretese più avanti di essere erede al trono di Serbia, inserendosi fra la morte di Tito e le guerre jugoslave), che era stato accreditato dallo stesso arcivescovo di San Robustiano, il quale, avendo mangiato la foglia, come si suol dire, aveva capito che l’unico modo per rimanere al potere a Dunajska era che la Chiesa stessa accreditasse un falso re inca, favorevole al potere temporale della Chiesa, un qualche sbandato cristero insomma. Quell’individuo era quindi fuggito in Sud Africa, con i soldi della United Fruit, via Sant’Elena, ospitato e protetto da una comunità di ugonotti per la supremazia boera. A Bloemfontein si perdono le sue tracce.

Ma il popolo di Dunajska continuò e continua a vivere di questo rimpianto e di questa illusione disattesa, alimentati da una storiografia di quart’ordine, senza arrendersi all’evidenza, in perenne attesa di questo re inca, cui si attribuì una funzione soteriologica mai soddisfatta.

Martin Bormann, condannato in contumacia a Norimberga, era stato assunto dalla United Fruit, su raccomandazione di Pat Buchanan, per scovare il fasullo re inca e presentargli il conto, ma fu trovato prima lui, mentre temporeggiava trafficando armi con i ribelli del Katanga e trovato dal Mossad fu fatto sparire.

Tuttavia questa storia non fu mai raccontata, così come che Bormann aveva progettato con Klaus Barbie un’operazione segreta per rapire il papa e costringerlo a firmare un’enciclica contro il giudaismo. Bormann fu senz’altro tradito dalla sua amante indiana, che era stata una spia nazista, in India, durante la guerra e poi era diventata istruttrice del Mossad, secondo alcuni storici, avendo vissuto nei posti e nelle condizioni più pericolose del mondo, dalle quali inspiegabilmente se l’era sempre cavata, accumulando storie da raccontare poi ai suoi splendidi nipoti.

Un altro tentativo, in tempo di guerra, di amalgamare le forze per un colpo di stato inca, a Dunajska, fu fatto da Michael Sorge, che si trovava in Giappone, in occasione di una conferenza sul turanismo internazionale, tenutasi alla pizzeria Bella Napoli di Tokyo (raccomandata dal console slovacco in Siam e Manchukuo), alla quale era presente anche Plinio Salgado, guida indiscussa dell’Integralismo meticcio brasiliano, il quale in quell’occasione aveva portato dell’ottimo porto, indimenticabile. Sorge fu tuttavia impiccato per aver lavorato al servizio di Stalin, tradendo Hitler. Così anche quell’occasione andò perduta. I nipponici fecero mancare ai tedeschi il loro appoggio da oriente, nell’Operazione Barbarossa.

Nel frattempo a Dunajska si facevano piani per l’invasione del Paraguay, piani destinati a naufragare, come noto. Washington apprezzò però la disponibilità del governo di Dunajska ad offrirsi al signor Ferdinand Ďurčansky, eminenza grigia del cattonazismo, dopo la guerra, come asilo dell’associazione anti-sovietica slovacca di liberazione nazionale, che però poi si trasferì a Buenos Aires, godendo di un clima meteorologico più salutare.

Nel corso della sua storia, Dunajska ha fatto guerra a un po’ tutti i Paesi confinanti, ma poi ha tentato di rifarsi una reputazione, offrendosi come sede per numerose conferenze di pace internazionali miliardarie (miliardi intascati dai militari per comprare nuovi carri armati e nuovi elicotteri).

Su ogni cosa domina il segreto di stato, che invece di dissipare l’interesse dei cittadini dai fatti di stato, contribuisce ad alimentare una fantasia illimitata, che d’altro canto ha offerto al mondo anche alcuni notevoli picchi letterari, nel campo del surrealismo e del realismo magico.

I militari hanno sempre trovato spiegazioni “meravigliose” per le misteriose scomparse di cittadini. D’altronde i cittadini di Dunajska, onorando la loro porzione di origini slave, affrontano la vita con una certa dose di fatalismo e infruttuosa disperazione, riempendo a tutte le ore le sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie e delle fermate degli autobus, onorando così anche la loro porzione di origini africane e tentando di riempire il deserto lasciato dall’indice di disoccupazione più alto del continente.

DEGLI AMORI GIOVANILI DI SAPIEHA.

Quando Sapieha era molto piccolo, veniva spesso strappato a sua madre, suo primo eterno amore, per essere mostrato, come un animale imbalsamato, dal vanaglorioso padre, a banchetti, cerimonie, processioni, celebrazioni, competizioni sportive, delle quali non capiva il senso.

Sviluppò così, già in tenera età, una naturale predisposizione per un sentimento amoroso estremamente malinconico, la mamma infatti gli lasciava sempre qualcosa di piccolo da portare con sé, un fazzoletto, un fiore, un cioccolatino, qualcosa che lui conservava come una reliquia e teneva con sé fino a quando non tornava dalla mamma. Il padre lo picchiava per questo, gliene dava di santa ragione, di sberle e insulti, perché si sarebbe enormemente vergognato se i cugini polacchi avessero visto ridotti in quella maniera i lontani parenti sfigati d’oltreoceano.

Del resto i Sapieha polacchi erano però tutti intenti a vivere al di sopra delle loro condizioni, sperperando in quisquiglie, quisquiglie permesse dalle casse di vari usurai ebrei di Cracovia, che loro disprezzavano di cuore, ma dei quali, come tante altre cattolicissime famiglie aristocratiche polacche, non potevano fare a meno.

In quegli anni, uno dei Sapieha era ministro degli Esteri della risorta Polonia e cercava di incitare gli slovacchi, i sudeti e gli ungheresi a una crociata contro i socialisti neo-hussiti di Tomas Garrigue Masaryk, a Praga. Forse, se fosse rimasto più a lungo al potere, egli avrebbe potuto ricordarsi dei parenti di Dunajska, si sperava, magari per aiutarli e incitarli a una crociata contro i socialisti e i liberali che, come serpi, crescevano in seno ai vicini, gli altri Paesi sudamericani.

Un altro Sapieha, arcivescovo di Cracovia, ordinò sacerdote il futuro Papa Giovanni Paolo II.

Il nostro Filisberto Sapieha riuscì a fuggire dalla crudeltà di suo padre incominciando a leggere moltissimo, isolandosi nei suoi paradisi libreschi, rifuggendo la tentazione dell’empatia e del sentimentalismo, immaginando avventure, scrivendo poesie sempre più ricercate. Divenne quindi un grande millantatore, tanto più deprecabile in quanto inizialmente del tutto disinteressato.

A conferma del fatto che solo chi non ha mai vissuto può permettersi di non credere nel destino, al giovane Sapieha capitavano sempre amori sfortunati e sofferti che lo travolgevano con quella stessa lontana malinconia ancestrale che lo riconquistava ogni volta, senza soluzione, senza ragione.

Iniziò a innamorarsi delle donne nude sui giornali di contrabbando, delle ragazzine che spiava al collegio, come delle donne mature che con mal celato compiacimento, si lasciavano contemplare incuranti, per la via, destando un certo soqquadro nei suoi poveri ormoni.

A quattordici anni toccò i suoi primi piccoli seni, quelli della giovanissima camerierina brunetta di casa, la quale fuggì poi con un ballerino cubano. O forse era un messicano.

Offrì le sue prime carezze a turiste di passaggio, anche più grandi di lui, alle quali scriveva poi lunghissime lettere nelle notti afose piene di zanzare, inventandosi amori struggenti mai esistiti e immaginando indirizzi di lontane esotiche città europee.

Ma il suo primo coito avvenne a sedici anni, in un ululante bordello, e il cuore gli rimase in gola per giorni, al solo pensiero del peccato che aveva commesso. Amava andare al bordello, trasgredendo i suoi fragili principi morali, vestito da gran signore, per come tutte le ragazze volevano poi accaparrarselo, in vista della generosa mancia.

Il suo animo ingenuo si lasciò poi influenzare da una ragazza rossiccia e bruttina, che aveva un bambino, nato da una squallida e violenta relazione, in quel bambino egli si riconobbe, ma lei non aveva amore per lui, come del resto Filisberto non ne aveva per lei, solo pena.

Un giorno però una fanciulla dai riccioli di ambra e grano, lo ritrasse senza che lui se ne accorgesse, mentre lui leggeva, all’ombra di un albero, in un parco del centro della capitale. Egli si isolava all’ombra di un platano, malgrado il continuo via vai, così come lei usava andare nei parchi, sedersi o passeggiare, respirando profondamente il profumo degli alberi e dello zucchero filato, per osservare i passanti, leggere nei loro volti le loro storie e ritrarli, ma mai avrebbe potuto credere di trovare un profilo così perfetto come quello di Filisberto Sapieha.

Si innamorò perdutamente di quel naso affilato, leggermente curvo e appena all’insù, sopra quei giovani baffetti castani, mentre fumava, leggeva e contemplava il fiume di gente che correva, camminava, rotolava, starnutiva, si soffiava il naso, guardava l’orologio, barcollava, imprecava, pregava, parlava concitatamente, sussurrava…ognuno inseguito dalla sua ombra e dai suoi secondi.

Quindi la giovane volle ritrarlo e prima di scomparire, chissà dove, lasciò al giovane conte ignaro il suo ritratto alla Libreria Ross (dentro una copia del Manoscritto trovato a Saragozza), dove spesso lo aveva visto entrare, seguendolo con lo sguardo, e uscire goffo sotto pile di libri, là all’angolo di via Gombrowicz, che partiva dal parco. Ma lei non lo vedeva goffo.

Quando Sapieha andò a ritirare alcuni suoi libri, gli consegnarono quel ritratto ed egli si sentì mancare, risentì quel vuoto primordiale della sua infanzia lontana. Mai avrebbe immaginato che qualcuno avrebbe potuto vederlo così, come quella ragazza lo aveva ritratto. Scopriva l’Io al quale le sue varie maschere non gli avevano mai permesso di aderire liberamente.

Gli dissero che era una enigmatica studentessa di lingue, che spesso passeggiava nel parco, con un cagnolino bianco.

Sapieha ogni giorno, per anni, tornò là e non la trovò più. Si mangiò le mani pensando a quante volte avrebbe potuto vederla e salutarla, senza rendersi conto che fosse lei, proprio lei, quella creatura che se lo vedeva in quel modo, assolutamente doveva appartenergli per la vita.

Ma oggi tutti i maggiori e i più sognanti romanzi d’amore sarebbero definiti volgarmente maschilisti, se non frutto di fantasie psicotiche persecutorie ossessive compulsive.

Sapieha fu ossessionato dalle malattie per tutta la vita, dall’idea della sofferenza e della decomposizione, non dall’idea della morte, come dall’idea di poter essere in grado di compiere il male, questa idea lo spaventava enormemente, e la sublimava con la voglia di guerra fittizia. La sua casa era piena di quadri apotropaici, ritraenti malati, santi taumaturghi, appestati e lebbrosi moribondi, c’era anche un giudizio universale. A Dunajska i corpi degli scomparsi ricomparivano spesso con le più macabre e terribili mutilazioni.

Lo perseguitavano, inoltre, le visioni sessuali che, nella sua sessuofobia più o meno acclarata da chi poi studiò il suo cervello, affioravano dall’inconscio nei momenti meno adatti, quando pregava soprattutto. Egli si imponeva infatti la preghiera, come quegli uomini che non si rendono conto del fatto che la loro vita è una preghiera.

Le sue poesie erano per lo più dovute alla depressione post-coitale. Amava dormire e venerava il sonno come cosa massimamente sacra, ma Morfeo lo odiava e lo lasciava sempre senza sonno. Non si lavava, ritenendo che l’uomo dovesse lavarsi solo una volta nella vita, con il battesimo.

Era convinto di essere un’anima avanzata dalle epoche passate, che le Moire avevano mandato al mondo per sopperire all’esplosione demografica mondiale.

Riteneva che la salute, la longevità, la fecondità dipendessero solo dalla forza di volontà, che generalmente decadeva di secolo in secolo. Mangiava molto aglio per la virilità e si faceva inviare fazzoletti bagnati di sangue mestruale dalle sue amanti.

Sentenzio’ nostalgico Sapieha:

-Ho aspettato per tutta la vita quella ragazza che faceva ritratti, senza avere altra traccia che il suo disegno del mio stesso profilo. Scoprii che forse era una ragazza italiana, di Genova, di nome Patrizia. Affidai una mia lettera dunque a un certo frate Ippolito Lasagna, di origine italiana, che conosceva un mare di gente in Italia e spesso andava in giro per l’Europa, tornando con valige piene di denaro della Securitate. Speravo davvero che potesse scoprirla. Ma quel frate non aveva pregato a sufficienza per trovarla e infatti non la trovò mai!-

Ughetto era rattristato da quella storia e pianse sommessamente, fumando una sigaretta rubata dalla tasca di una guardia.

-Certo se incontrerò quella donna gliela porterò, conte-

Sapieha, grande autore di opere complete quali l’Enciclopedia delle grandi idee deliranti che muovono il mondo, il Dizionario enciclopedico dell’Estremissima Destra, l’Album fotografico delle razze umane, il Prontuario per sradicare la non-violenza, il Manuale per l’individuazione delle caratteristiche genetiche del marito perfetto, aveva diretto istituti di assoluto prestigio come l’Istituto per l’odio politico e razziale, sorrise malinconico, avvertendo tutta la sua solitudine.

Per pensare ad altro, Filisberto propose ad Ughetto di iniziare a guardare insieme quello che aveva scritto, ma il fantasma replicò che il romanzo era rimasto in quel pub dove lo aveva scritto, non avrebbe potuto portarsi dietro tutta quella carta, lo aveva affidato alla provocante cameriera che gli aveva servito un goccino di whisky, una volta venuto a conoscenza, dalle pagine di un quotidiano, dell’arresto del conte Sapieha.

-L’unico che mi viene a trovare: un fantasma! E perché un fantasma dovrebbe scrivere?-

Sapieha ebbe il dubbio di avere le allucinazioni, ma non volle andare più a fondo.

-Beh almeno potrebbe iniziare con il raccontarmelo, no? Se un giorno potrò, glielo leggerò volentieri e la aiuterò a pubblicarlo, se non altro per gratitudine verso la sua compagnia-

E Ughetto iniziò a raccontare…

DEL ROMANZO DI UGHETTO.

-L’ho rincorso, finché non ho perso le sue tracce, il corpo dove mi situavo prima, per persuaderlo a scrivere questo romanzo. Sebbene io stesso avessi paura di un aborto. Un libro è come un bambino, bisogna desiderarlo, sentirlo, cullarlo, nutrirlo, seguirlo, eccetera, e c’è sempre il pericolo, dopo averlo scritto, di cadere in depressione post-parto, sostenne lo spirito Ughetto – devo però constatare che io, senza corpo, per lo meno vivacchio, e ho finalmente potuto visitare tutte le biblioteche dello stato, di lui, del corpo, non so che dire, temo non se la passi bene.

-Veniamo però a noi. Partendo dal principio per cui la cacca, in tutte le sue forme, dimensioni e consistenze, in tutti i suoi odori e colori, è la principale e più autentica e pura produzione animale e umana, ma gli uomini, paradossalmente, l’hanno voluta nascondere alla vista (e tra l’altro è pericoloso non controllare la propria cacca, come fanno invece tutti gli animali), avevo pensato in un primo momento un romanzo dedicato a una rivolta dei gabinetti, che scioperassero stufi di ingoiare cacca e, nei tempi più recenti, assorbenti, sigarette, profilattici, droga e pesci rossi morti. Un gabinetto deve avere un sacco di storie da raccontare, alcuni gabinetti soprattutto: non solo raccontare di tutte le chiappe sode o flaccide, giovani o vecchie, tornite o grinzose, maestose o proletarie, bianche o nere, pelose o glabre, che vi si sono posate, ma anche appunto tutto quello che ha inghiottito nella sua vita, le telefonate che ha sentito, le più varie espressioni dell’intelletto umano, dal godimento al dolore più intenso, le letture dei suoi utenti, la scala di tutte le scoregge udite e ricevute. Però, purtroppo, ho dovuto realizzare che i gabinetti, i più importanti testimoni delle nostre storie, i più autorevoli osservatori dei tempi che cambiano, non hanno voce per la loro memoria, o non parlano, o non hanno il coraggio di ricordare-

Sapieha, che aveva sempre amato cagare solo, accompagnato dalla lettura di libri sul paranormale, soffrendo di dolorosa stitichezza, digerì in un gorgoglìo d’aria e si grattò perplesso la testa quasi pelata.

Ughetto proseguì: -Poi un giorno mi trovai su un tram e sentii due nonne che si raccontavano la loro vita. Una raccontava la sua vita al collegio, da ragazza, di quando aveva visto gli elefanti veri all’Aida all’Arena di Verona, l’altra i suoi viaggi strampalati credendo di trovare un treno nel cuore dell’Africa. Questa raccontava poi di essere stata eletta presidente di una confraternita fanatica di amanti dei funghi. La prima si rattristò pensando a suo nipote che invece era stato cacciato dalla scuola dove insegnava, per aver denunciato i disturbi specifici dell’apprendimento come la più grande bufala della modernità, inventata da pletore di sedicenti tecnici per giustificare la pigrizia congenita e la pelandronaggine acuta e irresponsabile dei genitori che obbediscono al folle richiamo dell’esplosione demografica, per poi lasciare i figli soli davanti alla televisione o al computer.

-Mi decisi allora a prendere quel giovane insegnante inesperto delle astuzie del mondo e lo elessi protagonista del mio romanzo. Un amorevole maestro, il cui principale scopo, a differenza di tanti, fosse semplicemente aiutare i suoi studenti a finire di nascere, per poi essere messo da parte.

-Nella mia storia, che mi apparve davanti come un sogno, quel maestro arriva in un posto desolato di campagna, dove i ragazzi vivono senza scuola, orfani, e lui si mette a costruire con le sue mani una piccola scuola, ma mentre scava per farle le fondamenta, scopre uno scheletro. Vuole quindi fare un’indagine. Tutti, nel villaggio, gli dicono che ognuno di loro ha trovato nel suo cortile, facendo l’orto o altri lavori, almeno uno scheletro od ossa, nel corso della sua vita, non c’è da preoccuparsi. Il maestro si convince allora che là sotto deve esserci una fossa comune. Deve esserci la storia di un mondo perduto e si vuole nascondere la responsabilità della sua distruzione. Vuole continuare a scavare e convince i bambini e i ragazzi del villaggio ad aiutarlo e loro si prestano, felici e curiosi. Ma i genitori non vogliono permettere che quel maestro corrompa i loro ragazzi con quelle storie e lo portano in tribunale, accusandolo di qualunque cosa, i più razzisti, ignoranti e xenofobi, lo accusano di razzismo, come di solito ultimamente accade. Ma lui continua a scavare anche da solo, nottetempo, anche se lo hanno condannato a morte, se non se ne andrà subito via da quel posto. Gli scheletri vengono alla luce, uno dopo l’altro. Un popolo di cui non si sa più nulla, si è lasciato uccidere, senza opporre resistenza. Il villaggio crolla su se stesso-

-Beh, la storia sembra interessante. Bisogna temere i vivi, non i morti! Bisogna anche vedere cosa vogliano farne di me e se mai potrò uscire da questo posto-

DI COME UGHETTO SI INNAMORÒ E LIBERÒ SAPIEHA.

Avvenne che, mentre Sapieha tornava a dormire e Ughetto passeggiava nei corridoi della prigione, Ughetto stesso incontrasse una prigioniera della quale si innamorò perdutamente.

Aveva lunghi capelli unti e le braccia piene di tatuaggi, un’aria mascolina e uno sguardo terribile. Ughetto la osservò a lungo sbirciandola fra le sbarre della sua cella, mentre si allenava, nel cuore della notte, facendo sollevamento pesi, alla luce di una lampadina fioca e sfrigolante. Non aveva l’aria da principessa, né da puttana.

Nei giorni seguenti, Ughetto, dopo altre simili conversazioni con Sapieha, si recò ancora molte volte ad ammirare di soppiatto l’oggetto del suo amore, appassionandosi sempre più alle gambe pelose e alle ascelle trascurate, di quella donna misteriosa e sempre grondante di sudore per i pesi che sollevava.

Ughetto si decise a tornare nel suo corpo per poter possedere completamente quella donna.

Entrato in un cavallo, corse fino alla prigione dove il corpo che lo aveva contenuto giaceva imbambolato, ciondolando nudo, con le braccia penzoloni, emettendo versi sconclusionati.

-Che noia!- pensò fra sé il narcotrafficante, accorgendosi di aver ricominciato a pensare, dopo il ritorno della sua anima. Ma così poté inventarsi un piano, con gli altri mafiosi delle celle vicine, per ribellarsi e fuggire dalla prigione. Tutti lì avevano atteso il suo ritorno, scrutando attoniti quel corpo vuoto dentro la cella, lo avevano atteso come il ritorno di un loro piccolo messia che li rincuorava con la sua loquacita’ mentre facevano esercizio fisico nell’ora d’aria.

Però egli sentiva ormai le farfalle nello stomaco e sapeva di dover tornare in quell’altra prigione e liberare la donna di cui si era perdutamente innamorato, a sua insaputa.

In una storica riunione della mafia, nella peggiore bettola di San Robustiano, alla quale partecipavano anche alcuni membri del governo e alcuni terroristi doppiogiochisti, prese la parola e con un discorso che fece commuovere anche i più cattivi, convinse tutti a sostenere il suo sogno e dunque organizzarono una spedizione armata al carcere di San Robustiano, dove si trovavano la sua amata e Sapieha.

Fu una vera carneficina, Ughetto riuscì a incontrare di nuovo quella donna, la quale però fuggì, essendo una suora, senza volerne sapere, dopo aver divelto con la sua sola forza le sbarre della cella. Doveva tornare dai suoi bambini, in un orfanotrofio lontano.

Ughetto comunque trovò un cucciolo di cane e decise che da allora si sarebbe occupato solo di lui e scaricò e buttò via la pistola.

Nel fuggi fuggi generale venne liberato anche Filisberto Sapieha, che poté così incontrare in carne ed ossa l’amico che gli aveva fatto compagnia in quei giorni.

DI COME SAPIEHA E UGHETTO CONQUISTARONO LO STATO.

Mentre i giornali si occupavano del ritrovamento e del processo al falsario John Law, rinvenuto su un’isola deserta del pacifico, ormai alle soglie dei quattrocento anni, Sapieha e Ughetto si rifugiarono in una squallida pensione, frequentata da attori falliti di quarta categoria e derelitti di tutti i tipi. Alla tv c’era sempre qualche reality show e ci si domandava perché i fondamentalisti islamici, per colpire il vero cuore della nostra civiltà, non potessero andare a piazzare una bomba proprio in uno studio dove si produceva un reality.

Nella pensione c’erano anche due pagliacci, rugosi e pieni di acciacchi, con i quali Sapieha e Ughetto passarono alcune giornate piacevoli, bevendo limonate e giocando a carte.

È risaputo ma difficilmente ammesso, che per ridere dei pagliacci basta un grande cuore, che i pagliacci sono gli unici che si ribellano all’ordine costituito senza far del male a nessuno, alle catene delle ossequiosità, alla mostruosità della ragion di stato, alle divisioni di ogni genere, ma di solito gli uomini amano quello che non capiscono, amano la comicità che non fa ridere e rifiutano le generose risate dei pagliacci, abbandonandoli soli sulla crosta del mondo, preferendo lambiccarsi il cervello con ciò che non appartiene all’uomo, zittendo gli impulsi più umani, disprezzando e rovinando l’unica vita e l’unico mondo dei quali abbiamo certezza, anche qualora fosse vero che persino questa vita è solo sogno. Gli uomini studiano tutti i modi possibili per subordinare i loro cervelli a qualche oggetto esterno o a qualche pensiero dominante. Quando dovremmo contemplare solo il dovere di vivere e di giocare.

Una notte Sapieha si illuminò, i suoi quattro capelli si drizzarono dall’eccitazione e i suoi sensi si riscossero. Bisognava risvegliare l’arte e la cultura di Dunajska, liberare dai quadri i suoi avi, dare vita alle statue intorpidite. Una rivoluzione artistica.

-C’è solo un uomo che potrebbe far parlare anche le statue. È Teodoro B. Castro, un agente russo del KGB, che per tutta la vita si è finto costaricano, ingannando tutti e studiando come far penetrare il comunismo in America Latina. Ora vive in una stanza del Grand Hotel, paranoico e imbottito di psicofarmaci, tenuto nascosto dai militari. Tutti coloro che sapevano dove si trovava sono stati uccisi. Compresi alcuni giornalisti mostruosi che di solito si occupavano solo di storie parrocchiane. Bisognerebbe riuscire a rapirlo e portarlo alla Galleria Nazionale- confidò Sapieha a Ughetto in mutande, mentre si accendeva un sigaro nell’infilarsi la vestaglia – Non hai colleghi nella mafia che potrebbero aiutarci?- domandò Sapieha a Ughetto.

Sapieha ripensava anche alla ragazza che lo aveva ritratto, se la immaginava ormai vecchia come lui, forse con un chignon. Sapieha si rendeva conto che nella sua vita coltivata in odi stupidi e ridicoli, al servizio di personaggi ignoranti e volgari, il suo amore aveva continuato a crescere in lui anche controvento e lui aveva sputato contro il vento. Il seme era cresciuto nonostante tutto. Non sapeva da dove quel vento veniva e dove era diretto, ma sentiva non sarebbe bastato il mondo a contenerlo, eppure l’amore gli sembrava una cosina così piccola e insignificante…

Ughetto disse che con la mafia non voleva più avere a che fare, voleva solo giocare con il suo cagnolino.

-Dobbiamo salvare Dunajska!- affermò Filisberto Sapieha in tono perentorio.

Ughetto che non si era più tagliato da mesi né barba né capelli, guardò curioso il suo interlocutore.

-L’ho sognato, deve andare così. Ho sognato me stesso centoquindicenne e mi ha ordinato di farlo! Noi riprenderemo le armature degli antichi cavalieri e su due cavalli guideremo un esercito di cristi, mosé, david e apolli scolpiti nei secoli dai grandi scultori del nostro glorioso passato, richiameremo fuori dalle tele i nostri avi, i cavalieri, i conquistatori e i santi e muoveremo contro il nemico. Io brucerò i miei libri e mi consegnerò, per essere finalmente giustiziato. Ordinerò ai giovani studenti che potrebbero essere miei nipoti, se solo avessi avuto più coraggio, di calpestare la mia memoria e odiare la mia opera, che ha seminato solo odio, bigottismo e disperazione. Forse incontrerò finalmente la mia amata ritrattista. Avrei dovuto essere nient’altro che un buffone e invece sono stato preso a modello di generazioni-.

E chi desidera quello che succede ottiene che succeda quello che desidera.

Fu proprio mentre Filisberto Sapieha sognava che vide lo scheletro di suo nonno, incatenato sopra il pozzo, nel cortile della vecchia tenuta di famiglia, che ormai non esisteva più.

Filisberto non ne ebbe paura e gli parlò.

-È da talmente tanti anni che non ti vedo nonno, che non so più chi tu sia davvero, cosa tu abbia veramente fatto e detto, cosa abbia aggiunto la mia fantasia e quanto di mia immaginazione ci sia nella vaga immagine che ancora conservo di te, perché ogni cosa che mi succede lavora sulla mia memoria e muta tutto ciò che credo immutabile-

-Non ti preoccupare è il tuo Super Ego, ma io resto e vivo in te e con te, nella mia essenza più autentica e buona. La realtà è noiosa e mi ha imposto di essere un crudele generale e ripetere la vicenda di Caino e Abele e inchiodare questo Paese tre volte nel legno. La ragion di stato non pensa. Ma ora che il mio corpo è stato fatto a pezzi dai ribelli, ti prego raccogli queste mie quattro ossa e dammi qui, accanto alla mia casa, una degna sepoltura. Liberami dalle catene che mi hanno avvinghiato nella vita a un’esistenza nella quale alla fine ho dovuto rinunciare a sogni e fantasia-.

Nonno e nipote si abbracciarono a lungo, poi Filisberto diede al nonno la pace e la sepoltura, piangendo di malinconia. In cambio ricevette l’alta uniforme del generalissimo, variopinta e piena di bandierine e medaglie, troppo bella per essere un’uniforme da guerra.

Allora vide avvicinarsi in lontananza due pellegrini giovani, che forse potevano appena aver finito il liceo. Riconobbe in quei due ragazzi avventurosi e affamati di mondo, se stesso e un suo vecchio amico che non vedeva più da tempo immemore. In un loro pellegrinaggio nelle montagne, al mausoleo di un grande scrittore, avevano incontrato due vecchi pellegrini e i quattro si erano reciprocamente riconosciuti gli uni negli altri, senza dir niente in proposito, avevano fatto insieme gli ultimi chilometri fino alla tomba, divagando di letteratura ed esperienze di vita.

Filisberto si risvegliò e vedendosi addosso l’uniforme del nonno, con il suo stesso odore, che ancora ricordava vividamente, si accorse poi che accanto a lui c’era quel suo vecchio amico, Lanfranco, battezzato così dal padre architetto, estimatore del misterioso autore del Duomo di Modena.

Lanfranco raccontò di aver vissuto fra gli oranghi, insieme a Teillhard du Chardin, per imparare da loro l’umanità perduta e originaria. Aveva giocato coi piccoli oranghi e studiato e appreso i loro comportamenti e la loro filosofia. Dunque era tornato nel suo disgraziato Paese per stare in mezzo ai bambini di strada e insegnare loro a essere uomini, capitani della loro anima, malgrado le cattiverie post-umane che li circondavano. Aveva imparato ad amare l’uomo, dalla prospettiva del Figlio dell’Uomo, ovvero conoscendone i lati peggiori. Si era quindi fatto prete e pregava per la conversione di Dunajska, un luogo dove non si potevano avere dubbi che il Paradiso non si trovasse in terra ma altrove, un popolo che forse meritava ancora di essere amato e si sarebbe potuto perdonare conoscendone le circostanze, come quasi ogni cosa.

-Ho sentito di doverti raggiungere Filisberto, per benedire la tua processione, nelle strade ti aspettano tutti, Ulisse, Filottete, Aiace, Enea, Orlando, Don Chisciotte, Ivanhoe, Robinson Crusoe, Gargantua e Pantagruele, Candido e Pangloss, e molti altri, seguiti da schiere di statue e uomini di tutte le epoche, usciti dalle tele-.

Il tempo si era fermato. Filisberto tornò bambino, dell’età di quando scappava a mangiare la minestra con il nonno. Vide una bambina, paffuta e castana, vestita di giallo, seduta a un tavolino, chiedere un tè, e si accorse che quella era Patrizia, l’autrice del suo ritratto.

-Io sto per andarmene, sto per consegnarmi. Sarò decapitato, forse, come il vecchio Carvajal, che già ottantenne giunse a combattere in Cile, per aiutare il suo amico Pizarro. Di questo mondo mi resterà una percezione confusa, ma piena di sentimento. Ho finalmente capito come avrei dovuto spendere la mia vita, accanto a te. La mia vita resterà incompiuta. Forse ci andrà meglio la prossima ma finalmente, in questo estremo momento, sento di scegliermi-

-Ma io vorrei rinascere uomo-

-E allora vorrà dire che io rinascerò donna-

-Per ora ti aspetto proprio lì dietro l’angolo- gli disse lei dolcemente scomparendo.

Patrizia giovanissima era fuggita da Dunajska in Uruguay, dove aveva combattuto con i Tupamaros, poi in Messico, a Cuba, da qui in Spagna, dove aveva militato nell’ETA, in Irlanda del Nord aveva passato del tempo con il giovane Bobby Sands. Aveva quindi fatto ritorno in America e aveva combattuto con i Montoneros. Era stata stuprata durante le torture, era rimasta incinta e l’avevano sbattuta all’ESMA, un centro di detenzione clandestino in Argentina. Non sapeva che fine avesse fatto il suo bambino, né che fine avesse fatto il suo corpo, forse nell’oceano. Si domandava che fine avessero fatto le sue poesie e i suoi quadri di fiori, di animali, i molti ritratti del suo amato poeta mai ritrovato.

Forse avrebbero mangiato pesce fritto insieme lassù in Cielo. Sicuro che l’Inferno sarà un giorno riassorbito nel Paradiso.

Sapieha si risvegliò nuovamente, guardò il cielo e gli parve di vedere le stelle. Si trovava in mezzo a due decapitati, già attaccati dalle mosche. Stringeva fra le mani una medaglietta, che forse gli aveva lasciato la sua innamorata.

Confortato da quella visione, Sapieha, vedendo scendere gli angeli, mi mostrò il collo ed io gli tagliai la testa, con un colpo netto e poi la mostrai al popolo, infilzata su una picca e squartai il suo corpo in quattro, come avevo imparato dal manuale di Mastro Titta. Feci dire una messa in suo suffragio. Il suo cervello finì all’Università di Medicina, il corpo mutilato fu venduto a un necrofilo.

Sapieha aveva alla fine della sua esistenza conosciuto il vero Dio, quello presente in ogni singolo granello dell’universo, quello che ci travolge.

Molti capirono il suo ultimo monito. Un uomo che alla fine della sua vita dice di calpestare le sue opere è come un pinguino all’equatore o un togolese in Groenlandia. Molti lo imitarono e diedero l’esempio ad altri ancora, incominciando a calpestare le loro opere e iniziando una rivoluzione dai loro stessi cuori. I generali non avevano più nessuno cui impartire ordini, anche i ribelli buttarono via i loro fucili. Tutti i prigionieri si liberarono o vennero liberati. Ognuno rifiutò la sua parte di potere piccola o grande che fosse.

Lo stato di Dunajska scomparve dalle cartine, finì la sua storia travagliata, e non se ne ebbe più notizia; come, vi dico io, dopo tanti anni di onorata professione di boia, dovrebbe accadere a tutti gli stati del mondo, per lo più dominati da prepotenti ed esattori di certificati e altra simile carta straccia, invasati di ogni parte. Di Ugo non si ebbe più notizia, come del resto di ogni uomo sincero e onesto, egli era come un caffè, buono, caldo e forte, viveva per il suo cagnolino e di tanto in tanto per suonare la chitarra qui e là, come aveva fatto in gioventù, vivendo come gli steli di erba e gli uccelli del cielo. Forse Teodoro B. Castro si mise a fare il cuoco.

Troppo spesso non si valuta il fattore umano della Storia. I fascisti spesso furono personaggi traumatizzati pieni di complessi, i comunisti bambinoni non cresciuti che sognano il paradiso in terra ad ogni costo e vedono un complesso fatto sociale in ogni quisquiglia. Entrambi pensano ad ogni cosa come a un fatto politico, in realtà la Storia è fatta esclusivamente di vicende e vicissitudini umane. Spesso amicizie a pelle fra uomini molto diversi hanno cambiato la Storia, nel bene e nel male. Ma pochi pensano a chi viveva fra le mura di una casa distrutta per qualsiasi motivo o all’impatto che ha su ogni singola vita umana individuale la soppressione di un treno, un licenziamento, un taglio di stipendio, o, molto peggio, una bomba. Si pensa sempre ai numeri, ai grandi numeri, ai grandi nomi. Viviamo nello stesso sistema studiato a tavolino dai nazisti, democraticamente eletti nel 1933, e poi scopiazzato per sessant’anni dai loro successori, dando la parola a chi non ha niente da dire ma solo da berciare.

Il senso di colpa ci tiene succubi, ma Dio non può essere felice circondato di senso di colpa, di sedicenti fedeli che peccano per il brivido del senso di colpa. Dimenticando che è contro la volontà di Dio cercare Dio, siccome altrimenti Egli ci si mostrerebbe più convincentemente.

Guardo la mia ascia, ancora sporca di sangue e vedo che è stanca di tagliare teste, stanca di esistere, in essa vedo la saggezza delle cose, mentre noi ci affanniamo alla ricerca dell’eternità, quando l’eternità è già qui.

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