Il progetto di Conte per resistere alle scosse: «Mai più litigi tra alleati»

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Massimo Franco
Fonte: Corriere della Sera

 «Sei cambiato», gli ha detto uno dei suoi interlocutori durante le consultazioni di ieri pomeriggio. Giuseppe Conte aveva appena spiegato di non essere preoccupato della votazione dei grillini sulla piattaforma Rousseau; e di essere intenzionato a presentare il nuovo governo tra martedì e mercoledì prossimi. Mostrava una sicurezza inedita. «Non più da esecutore di un contratto altrui, ma da aspirante capo di una coalizione politica», ha osservato l’interlocutore. Forse esagerava, dando per scontata una trasformazione tutta da dimostrare. Ma qualche indizio era già spuntato nelle cose dette e in quelle taciute, dopo l’incontro del mattino col capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ad esempio, il premier incaricato non aveva mai pronunciato la parola «immigrazione». Volutamente.

Per Conte, il problema dei prossimi mesi sarà quello di disintossicare l’Italia da un tema brandito dal ministro dell’Interno uscente, Matteo Salvini, leader della Lega, come una clava; e di trasformarlo invece in uno dei capisaldi di una rinnovata strategia con l’Europa. Con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ritiene di avere un bonus per essere stato determinante nella sua elezione; e di poterlo spendere per spuntare una legge sul rimpatrio europeo dei migranti, e maggiore flessibilità di spesa: obiettivi non facili ma decisivi per affermare una strategia meno muscolare e più efficace di quella salviniana. Aveva anche evitato la parola «continuità», cara invece al capo grillino Luigi Di Maio, preferendole quella, politicamente asettica, di «coerenza»; e rafforzandola con una promessa di «novità» per placare le diffidenze del Pd di Nicola Zingaretti.

Il progetto di Conte per resistere alle scosse: «Mai più litigi tra alleati»

Ma è stata tutta la lunga dichiarazione resa dopo l’udienza da Mattarella a sottolineare la metamorfosi del «professor Conte»: da esecutore subalterno e quasi anonimo del volere di M5S e Lega, a mediatore nelle trattative con la Commissione Ue, fino a fustigatore di Salvini. E, adesso, a premier almeno nelle intenzioni a tutto tondo. Certo, passare da capo del primo governo populista-sovranista dell’Europa occidentale a simbolo di una maggioranza tra Cinque Stelle e Pd, è un salto mortale. Le accuse di trasformismo abbondano. La sensazione, però, è che Conte stia tentando di accreditare non solo un ruolo ma un progetto perfino azzardato: costruire da Palazzo Chigi un’area politica e un blocco di interessi di cui il governo nascente sarebbe il laboratorio. L’immagine è di tecnico del governo: una personalità neutrale, che ai partiti non dovrebbe nulla e che abbraccia con naturalezza i vincoli internazionali di sempre. Un anno fa sarebbe stato impensabile. Con un Movimento postideologico, senza convinzioni che non fossero una confusa e manichea pulsione antisistema, indicare Ue e Nato come pilastri della sua politica avrebbe provocato un terremoto. Ora, invece, lo rivendica senza il timore di essere scomunicato da un grillismo indebolito e spaventato. Non è chiaro se sia il frutto di un’evoluzione per necessità dei Cinque Stelle. Evidentemente, Conte e i suoi sostenitori populisti si sono accorti che andare a rimorchio dell’antieuropeismo salviniano avrebbe portato l’Italia all’isolamento; e, più prosaicamente, avrebbe prosciugato i voti del M5S. Archiviato Salvini, tuttavia, il premier incaricato deve divincolarsi dall’etichetta di longa manus del grillismo di governo.

La ricaduta della crisi sulla sua candidatura conferma una inusuale abilità di essere al posto giusto nel momento opportuno. Ma sull’emancipazione politica dovrà faticare di più. A Zingaretti sta cercando di spiegare perché si ritiene «super partes»; e dunque non sospetto di parzialità pentastellata se vuole avere due vice, uno del Pd e un Di Maio proteso a ottenere la carica. Ritiene che avere accanto a Palazzo Chigi solo un esponente dem appannerebbe la sua terzietà. C’è da giurare che insisterà fino all’ultimo. Nelle trattative è un maratoneta: lo si è visto a Bruxelles quando ha evitato la procedura di infrazione contro l’Italia per debito eccessivo. E stavolta il suo interesse è dimostrare di essere il «vero» premier, e il potenziale regista di uno schieramento che la destra già tende a bollare come un nuovo «fronte popolare» delle sinistre. È un modo per delegittimarlo preventivamente agli occhi dell’elettorato moderato; e per complicare i rapporti tra il Movimento che lo ha indicato e il Pd, già tesi.

L’esperienza di quattordici mesi passati a mediare tra Salvini e Di Maio lo ha segnato. La durezza usata contro il suo vice leghista in Senato, il 20 agosto, si spiega anche con la voglia di sfogare una rabbia repressa a lungo. È un film che Conte non vuole rivedere. Il suo terrore è di assistere a una rissa tra M5S e Pd prima ancora che si formi l’esecutivo. Ce ne sono le avvisaglie ma l’obiettivo è di sterilizzarla chiedendo alla futura coalizione di non litigare sui giornali, di evitare guerra di poltrone e proposte contraddittorie. A occhio, è l’aspetto più incerto del suo percorso. Eppure non ha alternative, se vuole accreditarsi definitivamente come leader e uomo di governo, e costruire un’alternativa che non si sgretoli alla prima scossa. L’Europa e la fedeltà atlantica possono rivelarsi un grande puntello, ma non basteranno senza un simulacro di coesione interna, ministri di qualità e la capacità di esserne il vero punto di riferimento.

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