Inno alla stufa 1/2

per Gabriella
Fonte: Rimini Sparita
Url fonte: https://riminisparita.it

di Grazia Nardi – 8 luglio 2014

scalda

 

A differenza di quanto avveniva in periferia dove tutti erano poveri, i poveri di città si sentivano come i neri in uno stato governato dai bianchi. In via Cairoli, dove sono nata e vissuta fino a sette anni (dal 51 al 58), c’erano i commercianti (Bruno dei Generi Alimentari), gli artigiani (Amedeo, il falegname), il maestro, l’oste (La cantina di Turno, “dalla Gigia”), la nobildonna decaduta….. abitavano i Pivi (dell’omonimo garage) che già, dai primi anni 50’, possedevano il televisore (tra i primi a Rimini, unici in via Cairoli) di quelli che si guardavano dal basso verso l’alto, posizionati su di una torretta, enormi, incassati in un cubo di legno, con le valvole e le manopole, un solo canale. Non da meno la casa, di proprietà, era suddivisa in entrata, cucina (con frigorifero bombato), sala da pranzo, salotto, camere, telefono nero …assomigliava a quelle dei film americani che avevano da poco iniziato l’invasione sui nostri schermi cinematografici, dopo l’ondata del neorealismo. E, naturalmente, avevano l’auto, anzi la macchina. Era il momento della Giardinetta, della Fiat Millecento, della Bianchina.

giardinetta

Seguivano i lavoratori dipendenti ma a stipendio “sicuro”, ferrovieri, statali che contavano il privilegio di poter “segnare” nella bottega. I commercianti, soprattutto quelli dei generi alimentari, infatti, facevano credito ai clienti che avevano difficoltà ad arrivare a fine mese. Il debito giornaliero veniva “segnato” su di un quadernetto e saldato (almeno parzialmente) con l’entrata del mese, all’arrivo, appunto, dello stipendio “sicuro”.

E poi c’erano i poveri come me, figlia di una marinaio precario che alternava gli imbarchi sui mercantili al lavoro di manovale edile (già meno di un muratore) o ad altri lavori saltuari (pescatore, scaricatore, spalatore di neve, ecc).. e, infine, c’erano anche quelli più poveri, i cosiddetti “figli della guerra” o dei disoccupati cronici.

La mia famiglia abitava in un’unica stanza, sopra l’allora Cinema Italia. Armadio a due ante, comò, letto matrimoniale, tavola con quattro sedie, credenza, baule, mastello, catasta (il mucchio, è moc) della legna, fornello con bombola del gas da utilizzare d’estate o in caso di emergenza diversamente “da mangiare” si faceva col fuoco della stufa. Il gabinetto, con la turca, era fuori anzi giù, nel pianerottolo, a metà delle quattro rampe di scale che portavano alle stanze superiori. Cinque stanze, cinque famiglie. Il gabinetto era d’uso comune….A noi bambini ci veniva risparmiato, rimpiazzato dal vaso da notte di latta (l’urinel) che si teneva nascosto sotto il letto.

Io, la più piccola, dormivo nel letto con i miei genitori e solo molto più tardi ho capito perché, addormentandomi di notte in mezzo ai due, mi svegliavo, la mattina, da una parte, sul ciglio del letto. Mio fratello, più grande di tre anni, dormiva dalla nonna assegnataria della stanza accanto. Oggi, all’ombra delle nostre cucine robotiche, per quanti oramai avvezzi alla programmazione informatica degli elettrodomestici, riscaldamento, aria condizionata, è inimmaginabile la molteplicità di funzioni cui assolveva la stufa, smaltata di bianco, con cromature. La più ovvia era quella del riscaldamento, il calore si irradiava, in modo decrescente, per tutta la stanza mentre la brace della sera, quando il fuoco si lasciava spegnere, finiva nello “scaldino” che si teneva sotto la sedia o nel “prete” o “suora” ovvero il baldacchino di legno che, nel letto, diminuiva il gelo e la rigidità delle lenzuola ed impediva il quasi assideramento notturno. Spesso, il prete, veniva rinforzato dai cappotti appoggiati sopra le coperte o un mattone riscaldato o da una bottiglia (in genere quelle delle della birra con il tappo a valvola) di acqua calda. Ma nonostante i diversi espedienti per combatterlo, non c’era bambino, tra noi, che non portasse sul viso, con il naso imbrattato di “murganti” o “muccioli” verdastri, il marchio impresso dal freddo della stanza.

scaldino

Sui cerchi che coprivano il cratere di terra refrattaria, si cuoceva una piada oggi inimitabile, alla faccia della nutella! Perlopiù, però, si mettevano i tegami: al centro, quelli coi cibi da cuocere, a latere, quelli da tenere in caldo. A fianco della “piana” (che a fine uso si lucidava con carta smeriglia e una passata di metalcrom) c’era la “caldareina”, una piccola caldaia, infossata nella stufa, che forniva acqua calda per pronto uso e, scoperchiata, diffondeva per tutta la stanza il vapore che contrastava la secchezza prodotta dal fuoco di legna. A lato dello sportellino di alimentazione c’era il forno dove, in genere, si cuocevano mele e pere acerbe o quelle malconce avute a minor prezzo dal fruttivendolo (la fròtta scarteda), nei periodi di vacche grasse (a Pasqua), le lasagne verdi o la ciambella. Sotto il forno si trovava lo scomparto al quale il calore arrivava mitigato. Era un piccolo ripostiglio dove, spesso, si mettevano a scaldare le calze dei bambini per compensare la “leggerezza” delle scarpe di pessima qualità, rigorosamente comprate nelle “liquidazioni” o tra gli articoli generici del mercato ambulante, quando non erano le cosiddette “scarpe buone” di seconda o terza mano. Ricordo, una volta, un mio paio di scarponcini con il fondo di sughero e la tomaia di panno (praticamente oggi li chiameremmo pantofole). Inzuppati nella pioggia, furono messi ad asciugare nel sottoforno. Asciugati ma anche infeltriti, diventarono di una misura più piccola. Una mezza tragedia, allora, quando il vestiario, specialmente per i bambini, non si poteva comperare ma solo “rimediare” magari ricavandolo da taglie più grandi (es. le maglie “bustezzi”). E, come dicevo, non era così per tutti, la maggior parte delle mie compagne di scuola (la Ferrari) figlie di professionisti o commercianti, avevano già gli stivali e la “mantella” antipioggia. Ricordo anche una sottoveste fatta, dalla nonna, coi ferri e con la lana tratta da una vecchia maglia “da sotto” di un grigio tetro come solo può essere una maglia logora e (si diceva allora) “innasseda”. Per ravvivare la sottoveste e, soprattutto, per fare la “giunta” alla lana grigia, la nonna fece l’orlo con un rotolino di lana rossa, lavorata all’uncinetto. Crescendo io, di molto, in altezza, ogni anno la nonna aggiungeva un giro di lana rossa. Alla fine, verso i sei anni di età, la sottoveste aveva un pizzo rosso, l’orlo, che partiva dal petto…… continua..

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