Ipotesi di Piano B per l’Europa

per nicola

di Nicola Boidi 1 maggio 2016

Ipotesi di piano B per l’Europa

Alcune «ipotesi di piano B» sono state avanzate negli ultimi tempi da economisti, politici e intellettuali di varia estrazione, europei e non solo, quali alternative all’ unica pianificazione di politiche economiche e sociali, e di riflesso istituzionali, che è attualmente portata avanti dalle Istituzioni dell’Unione europea per i suoi paesi membri soggetti alla moneta unica euro (per la Gran Bretagna le condizioni sono notevolmente diverse, come si sa).  Tale pianificazione, che possiamo chiamare«piano A», è imposta con determinazione e piglio autoritari, è in grado di decidere le sorti economiche e sociali e d’influire sulle politiche interne ai singoli Stati, ed è guidata da istituzioni che come è noto nella loro stragrande maggioranza non sono state democraticamente elette da nessuno: a parte il Parlamento europeo nominato tramite consultazione elettorale ogni cinque anni, né la Commissione europea, né la Bce, né il Fondo monetario Internazionale, né gli altri organi istituzionali – Consiglio europeo, Consiglio dell’Unione europea– sono organi elettivi.

 Il cuore del governo dell’Europa articolato su Commissione Europea, sulla Banca Centrale Europea e sul Fondo Monetario internazionale (quest’ultimo ente pur non rientrando neanche formalmente tra le istituzioni sorte dai Trattati europei– Trattato fondativo di Maastricht e Trattato confermativo di Lisbona– interviene pesantemente e quotidianamente nelle politiche Ue) sforna pressoché quotidianamente direttive, atti, rapporti e lettere inviate agli stati membri. Ogni documento formula prescrizioni, regole o richieste a cui i singoli Stati devono attenersi, pena sanzioni di variabile gravità. Chi infrange le regole giuridiche derivanti dalle disposizioni emanate dai predetti organismi istituzionali se la deve vedere con la Corte di Giustizia europea costituita da un giudice per ciascun Stato membro.

Il piano A messo in campo dalle istituzioni europee, dopo un biennio di politiche di salvataggio e risanamento delle banche private europee, che ha visto un esborso finanziario pari a 4, 5 trilioni di euro, a partire dal 2010 consiste in politiche economiche e sociali volte a ridurre la dimensione del debito pubblico sovrano degli Stati, pesantemente aggravato da quelle precedenti politiche di salvataggio (mediamente nella Ue di 20 punti percentuali). La parola d’ordine dell’austerity, basata sul complesso giuridico del Fiscal compact, sostanzialmente si basa su un unico punto: ridurre il debito pubblico tramite taglio della spesa per lo Stato sociale (sussidi di disoccupazione, pensioni, sanità, scuola pubblica, servizi pubblici, etc) il capitolo di spesa più rilevante di ogni singolo Stato membro. La finalità che si propongono tali misure è impedire che qualche Stato, e in particolare quelli dall’economia più debole, non sia in grado di rimborsare i titoli finanziari pubblici in scadenza (obbligazioni, certificati del Tesoro) con cui gli Stati finanziano la loro spesa.

 Questi titoli pubblici sono per la metà in possesso di grandi banche, fondi d’investimento, fondi pensione e compagnie di assicurazione. I dirigenti di questi enti finanziari sono membri effettivi dell’oligarchia del denaro che sta alle spalle della Troika al governo dell’Europa. Prontamente gli Stati ex-sovrani hanno messo in campo misure e «riforme » per ridurre la spesa sociale, invocando uno «Stato d’eccezione». Lo Stato d’eccezione di« Weimeriana» memoria intende che, là dove un evento o una situazione sia in grado di mettere in pericolo l’integrità dello Stato o l’incolumità della popolazione, un governo sia legittimato a compiere atti che deroghino dalla Costituzione o che addirittura la violino, ed è quello che con queste misure «d’eccezione» è effettivamente accaduto anche qui da noi , in Italia.

Se il «piano A» è l’unico effettivamente in campo all’interno della Ue, in realtà dai membri influenti del governo europeo, nella tormentosa estate scorsa, era stato prospettato anche un possibile piano alternativo o « piano B» alla Grecia del governo Tsipras riottoso a sottostare al piano A. In particolare il ministro delle finanze tedesco Schauble aveva prospettato alla Grecia la possibilità di uscire unilateralmente dall’euro, per riacquistare la divisa nazionale dracma, alla condizione però che il pagamento dei debiti greci nei confronti dei loro creditori europei avvenisse in Euro.

Il piano Schauble, denonimato dall’economista Brancaccio il«perfetto piano B per i creditori», era progettato per permettere che la Grecia uscisse dall’euro proteggendo però i suoi creditori (imprese ed enti finanziari tedeschi in primis) dal rischio che il debito greco fosse ridenominato in dracme svalutate. Era un piano che contemplava il peggio dell’uscita unilaterale dall’euro – la paventata forte svalutazione della moneta e di conseguenza di stipendi, pensioni e risparmi – e il peggio della politica di risanamento del debito pubblico ancorata alla moneta unica euro.  Per il piano Schauble tutto doveva cambiare, anche la moneta, al fine di non cambiare nulla nei rapporti di forza tra creditori e debitori e tra le classi sociali. Questo complesso di misure politico-economiche è quello che sta portando l’Unione europea verso quella deflagrazione paventata nel manifesto sottoscritto nel dicembre 2013 da un folto gruppo di economisti internazionali, intitolato Monito degli economisti, il quale recita:

«La continuazione delle politiche di deflazione e austerità nell’Unione monetaria europea aumenterà gli squilibri tra paesi creditori e debitori, con una conseguente centralizzazione dei capitali dal sud al Nord Europa e ulteriori crisi bancarie. Come risultato di questo processo, il destino dell’euro sarà segnato. L’unità monetaria europea, almeno come l’abbiamo conosciuta, tenderà a deflagrare, e i responsabili politici saranno lasciati di fronte a una scelta fra differenti via d’uscita dall’Euro, ciascuna con differenti effetti sulle diverse classi sociali».

A due anni e mezzo di distanza niente lascia presagire che tale previsione non sia fondata. Per ovviare a queste pesantissime conseguenze, un‘ipotesi di «Piano B» autenticamente alternativa alle misure della Ue, è stata presentata qualche mesa fa dall’economista Emiliano Brancaccio. Anzi per essere più precisi tale proposta dovrebbe essere intitolata «ipotesi Lafontaine-Brancaccio», dato che è stata articolata dall’economista italiano come completamento di una precedente proposta formulata da Oskar Lafontaine, già presidente della Linke Tedesca. Lo statista tedesco propone sostanzialmente, di fronte all’esito di fatto fallimentare dell’Unione monetarista europea, della«camicia di forza» dell’euro, di tornare con un atto unitario comune alle valute nazionali dei singoli Stati europei, (marco, franco, lira, etc) ripristinando però il precedente meccanismo dello SME .

Lo SME (Sistema Monetario Europeo) in vigore nell’allora Comunità Europea prevedeva un sistema di parità prefissata di cambi tra le diverse valute, che poteva avere una oscillazione o range di svalutazione del 2,25% (il 6% per Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo) usando come parametro un unità di conto comune, l’ECU, determinata in rapporto al valore medio dei cambi del paniere delle divise dei paesi aderenti. Nel caso di eccessiva rivalutazione o svalutazione di una moneta rispetto a quelle del paniere, il singolo governo nazionale doveva adottare le necessarie politiche monetarie che ristabilissero l’equilibrio di cambio entro la banda. Il sistema prescriveva inoltre che ogni Stato membro conferisse a un fondo comune il 20% delle riserve in valuta e oro.

L’economista Brancaccio considera una possibilità importante l’opzione presentata da Lafontaine di ritorno al vecchio SME, perché mette in chiaro che un semplice ritorno alle divise nazionali, e la regolazione dei loro tassi di cambio affidata unicamente alle leggi di mercato, non sarebbero in grado d’impedire che la speculazione e il peggiore capitalismo finanziario approfittassero di tale mutata condizione monetaria. Non ci sarebbero, senza quel sistema prefissato di cambi, nemmeno garanzie di riduzione degli squilibri strutturali tra le diverse zone del continente né di moderazione della centralizzazione dei capitali verso l’Europa centrosettentrionale.

 Ad avviso di Brancaccio la proposta di Lafontaine andrebbe però integrata da ulteriori misure di natura politico-economica. Se la liberazione dall’abbraccio mortale dell’euro e della sua custode, La Bce, ridarebbe ampia autonomia monetaria di azione ai singoli Stati per quanto riguarda il finanziamento della propria spesa pubblica oltre il limite ferreo del deficit del 3% ( finanziamento in investimenti pubblici per rilanciare produttività e lavoro, finanziamento in sussidi di disoccupazione, nelle pensioni, nello Stato sociale in genere per dare respiro alla «domanda» interna ai singoli Stati) , il tutto sostenuto dal sistema prefissato dei cambi tra le diverse valute tipo SME, però questo complesso di manovre necessiterebbe di elementi aggiuntivi.

 In particolare, osserva Brancaccio ci vorrebbero dei meccanismi che aiutino i singoli Stati a superare le difficoltà ad assicurarsi quei margini di autonomia per le politiche economiche nazionali in condizioni di assoluta libertà di circolazione dei capitali e delle merci. Infatti in tali condizioni un paese che tende ad accumulare un sbilanciamento o deficit delle partite correnti (un surplus delle importazioni sulle esportazioni) non può perseguire politiche economiche tese ad aumentare l’occupazione. Per ovviare a questo problema Brancaccio ritiene che sia necessario accompagnare la reintroduzione dello SME con procedure che limitino l’egemonia dei paesi con sopravanzo delle partite correnti (in questo caso un surplus delle esportazioni sulle importazioni). Il riferimento ovvio ed evidente va all’attuale Germania, nazione campione nel produrre enormi squilibri nella sua bilancia esportazioni-importazioni tramite una politica deflazionista di contenimento dei salari e dei prezzi delle merci, salari che in Germania dal 1999 al 2013 sono cresciuti di appena la metà della media europea.

 Brancaccio vede la necessità di limitare questo stato di cose imponendo qualche forma di sanzione ai paesi che usano la deflazione per aumentare il proprio surplus esterno. L’economista italiano ritiene che dovrebbe essere possibile introdurre limiti alla libera circolazione dei capitali e forse anche dei beni da e verso quei paesi. Brancaccio dà a questa proposta l’acronimo di EMBA (European Monetary Balanced Agreement). Tale soluzione potrebbe essere immediatamente adottata in maniera indipendente da parte di ciascun paese , così come essere estesa passo dopo passo ad accordi con altri paesi, dimostrandosi una misura più realistica di altre.

Questa ipotesi di Piano B « integrata» SME/ limitazione di circolazione di capitali e beni si presenterebbe come una critica progressista di sinistra alla globalizzazione capitalistica. Sarebbe un‘alternativa alla critica di destra populista europea, ai nazionalismi xenofobi, che mirano ad attaccare esclusivamente la libertà dei movimenti migratori dei lavoratori all’interno dell’Unione europea. Solo una combinazione di critica alla moneta unica europea e alla mobilità di capitali indiscriminati e deflazionistici è in grado di superare quel gap culturale per cui la sinistra europea tende a confondere la globalizzazione indiscriminata con il concetto d’«internazionalismo del lavoro», mentre quest’ultimo andrebbe inteso come una continua organizzazione delle lotte sociali al fine di favorire uno sviluppo continuo, equilibrato e pacifico delle relazioni economiche tra nazioni.

Altre ipotesi di «Piano B» oltre a quella Brancaccio, ipotesi che uniscono alle urgenze di politica economica l’aspirazione a una riforma politica radicale delle istituzioni«oligarchiche » europee, sono attualmente sul tappeto, quale ad esempio la proposta avanzata da un neonato movimento progressista europeo: DIEM 25 (Democracy in European Movement), ma di questo meriterà di parlare in una successiva occasione.

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