La guerra con la vita degli altri

per Gian Franco Ferraris
La guerra con la vita degli altri
Mesi fa si discuteva della possibile escalation bellica in Ucraina. Coloro che difendevano le ragioni dell’invio delle armi e del prosieguo delle operazioni belliche – non semplicemente orientate alla resistenza ma alla riconquista di territori e dunque alla “vittoria finale” – negavano la possibilità di un’escalation nucleare. Era un modo per dire: non abbiate timore, combattiamola questa guerra sino alla sconfitta di Putin, perché non ci sarà alcun conflitto nucleare all’orizzonte. Ma il punto era un altro, non tanto e non solo la possibilità di esplosioni atomiche, non tanto e non solo un’escalation nucleare, quanto un’escalation e basta. Ossia un spirale bellica che cresce su se stessa e si autoalimenta, anche grazie alle armi occidentali, sempre più offensive, sempre più agressive, sempre più costose.
Una guerra lasciata a se stessa o, peggio, alimentata dalle armi e dalla propaganda, nonché da strategie offensive della Nato a cui l’Europa non sa e non vuole replicare – una guerra lasciata a se stessa, vorrei dire alla propria natura, “naturalmente” produce un’escalation, ossia una crescita esponenziale dell’intensità e della violenza del conflitto. In questi casi è saggio lavorare per spegnere l’incendio, piuttosto che alimentarlo sperando che bruci soltanto l’avversario. Da mesi, ormai, si getta benzina, definendo pace questo sforzo bellico. In realtà si sta alimentando il mostro, che cresce in dimensioni e tra un po’ risponderà solo a se stesso, se prima qualcuno di buona volontà non intervenga con efficacia per attenuarne l’intensità, magari con un cessate il fuoco (difficile parlare di pace se cadono le bombe a grappoli).
La propaganda è ferma da mesi allo “stiamo quasi vincendo, il nemico è in rotta”. Ma intanto il popolo ucraino è sotto le bombe, e il suo “sacrificio” ricorda i soldati di fanteria, quando vengono definiti “carne da cannone”. Nel frattempo sono morti circa 7.000 civili più altri diciottomila feriti (calcolo in difetto probabilmente), cifre che indicano chi sta davvero perdendo comunque la guerra: il popolo, i civili. I borghesi piccoli piccoli diranno: “e io che c’entro, è tutta colpa di Putin, non mia”. Così. Noi ci laviamo la coscienza inviando armi e nascondendoci dietro il paradigma interpretativo “aggressore-aggredito”. Niente di più ipocrita. In primo luogo perché isoliamo i confini della guerra alla mera vicenda bellica in sé e alla sua fenomenologia giornalistica, dimenticandone le ragioni molteplici, non considerando fatti ed eventi storici, pensando che una guerra nasca in vitro e muoia in laboratorio. Non è così, lo è solo per la nostra anima di consumatori compulsivi e di individui privi di una moralità.
L’escalation è sotto i nostri occhi eppure ci neghiamo il dovere di coglierla. Anche i TG, dopo averne sparlato e sproloquiato senza mezze misure per mesi, ormai tacciono. Cosa sarà mai una guerra? I servizi sempre più rari sono dedicati soltanto a brutali eccidi (veri o presunti) e a disumanità tali da confondere la nostra ragione. La guerra colpisce i media solo se appare culminante e bestiale. Per il resto silenzio, cura del corpo, piaceri e piacevolezze, consumi, mercato, accise, italiani in vacanza, masterchef, padel, speculazioni immobiliari, labbra rifatte, noia, narcisismo, vanità, mito della ricchezza, respingimenti, bramosia di potere nonché, inopinato, persino il voto online sì-no attraverso cui il PD manifesta la sua cagionevole esistenza. Un po’ poco (o un po’ troppo) per salvare donne, uomini, bambini, vecchi, dal freddo, dalla fame, dalle bombe, da un’infanzia derubata, da una vita ridotta alla paura che una pallottola o una bomba colpisca sé stessi o un proprio familiare. Troppo poco per dirsi davvero civili. Troppo poco per volere davvero la pace. Ancora una volta è la guerra fatta con la vita degli altri. Un classico dell’uomo occidentale, quello che non sa più cosa sia la responsabilità morale ed è nichilista per noia.
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