La soluzione c’è ma viene ignorata: lavorare meno, lavorare tutti

per Gabriella
Autore originale del testo: Luciano Trapanese
Fonte: ottopagine
Url fonte: https://www.ottopagine.it/av/attualita/161991/cosi-lavoriamo-tutti-la-soluzione-c-e-ma-viene-ignorata.shtml

di Luciano Trapanese 6 luglio  2018

Lavorare tutti, lavorare meno non è solo uno slogan del ’77 targato Autonomia Operaia. E’ anche una delle tesi più accreditate dagli studiosi per tentare di arginare la disoccupazione ed è il mantra di uno dei consiglieri economici più ascoltati dei 5Stelle, Domenico De Masi, che per il Movimento ha elaborato uno studio (Lavoro 2025), di 300 pagine e che avrebbe dovuto rappresentare la base sulla quale costruire le politiche sul lavoro del nuovo governo.

Il decreto dignità, varato dal ministro Di Maio, va nella direzione opposta e proprio per questo ha suscitato la reazione del sociologo: «Creerà solo nuova disoccupazione».

Lo studio di De Masi – non certo una voce isolata -, imponeva un immediato superamento del jobs act. Non per la semplice questione del precariato (che resta anche con il decreto), ma perché quella riforma è nata già vecchia. E non tiene conto della rivoluzione digitale in corso. Una rivoluzione che procede spedita e incalzante, con effetti dirompenti proprio sul lavoro (con la perdita nei prossimi anni, e solo in Italia, di milioni di posti). 

Da un ministro 5Stelle – con Grillo che continua a ripetere: tra qualche anno non lavorerà nessuno -, ci saremmo dunque aspettati una visione nuova, realistica e in sintonia con il “tutto che cambia” nel mondo del lavoro. Un piano articolato, non certo da realizzare in tempi brevi, ma che imponesse all’Italia passi radicali e nella direzione dell’innovazione. Il decreto prevede invece solo qualche limite alla flessibilità, che però potrebbe non coincidere con la diminuzione del precariato o del lavoro nero. Diciamolo: un pannicello caldo. Piccoli aggiustamenti. Ma così il vento del cambiamento diventa una innocua brezza estiva.

Eppure gli strumenti per andare oltre c’erano. A partire dallo studio firmato De Masi e realizzato per conto del Movimento. Era una solida base teorica per rincorrere – e finalmente – il futuro.

Lo studio ha avuto anche il merito di anticipare soluzioni che sono poi diventate realtà in Germania (riduzione dell’orario di lavoro dei 900mila metalmeccanici: da 35 a 28 ore), in Danimarca, in Olanda. Con esiti molto positivi, non solo sull’occupazione, ma anche sulla produttività. Senza contare il benessere dei lavoratori (il tempo riconquistato: la vera ricchezza). Certo lì la situazione economica è diversa, ma se non si creano almeno i presupposti la forbice tra i Paesi più avanzati e il nostro continuerà a divaricarsi.

Il sociologo parte da una considerazione: «La disoccupazione non è l’effetto di una crisi passeggera. Anzi, è destinata a crescere. Sia per l’effetto di sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine. Sia per l’effetto della globalizzazione: non produciamo più nei nostri confini, ma compriamo dove si produce a un costo più basso». Per postulare una prima possibile soluzione: «Bisogna puntare a creare nuovi lavori, cosa che sta già avvenendo con una fantasia infinita spronata dal bisogno. Ma in attesa di questi nuovi lavori, bisogna redistribuire quelli che già esistono. È inutile pretendere il lavoro per i disoccupati se gli occupati fanno straordinari, sono sempre disponibili, anche nel week end e si fermano in ufficio ogni giorno oltre l’orario di lavoro senza essere per questo retribuiti».

Considerazioni simili hanno ormai quasi cento anni. E sono state espresse tra il 1920 e il 1930 dall’economista John Maynard Keynes che, già all’epoca, e di fronte alle innovazioni nei trasporti e nell’industria, immaginava una diminuzione consistente dell’orario di lavoro per evitare la disoccupazione tecnologica. Quella previsione non si è realizzata perché quelle innovazioni hanno fatto crescere a dismisura la produzione e imposto la società dei consumi. Ma non solo, l’economista immaginava una equa crescita della ricchezza. La verità come sappiamo è stata poi molto diversa.

Ora siamo nel mezzo di una rivoluzione più radicale e veloce, quella digitale. E l’intelligenza artificiale divorerà presto molti posti di lavoro, non solo quelli ripetitivi. Impostare delle politiche per quello che accadrà a breve non sarebbe solo saggio, ma indispensabile. La disquisizioni sul lavoro a tempo o indeterminato valgono a stento per l’oggi. Fra qualche anno non avranno senso.

«Bisogna pianificare – ha dichiarato De Masi in una recente intervista su Linkiesta – l’introduzione di un salario minimo e di un reddito di cittadinanza, e creare una piattaforma informatica come Uber che consenta di mettere in connessione domanda e offerta di lavoro».

Ma in Italia più che altrove, è vietato parlare di ridurre l’orario di lavoro per aumentare la platea degli occupati e di far crescere la produttività (tra le più basse d’Europa). Naturalmente integrando tutto questo con il taglio del cuneo fiscale, programmi di formazione e veri, efficienti e strutturati centri per l’impiego. Iniziando subito a imporre nelle nostre scuole gli strumenti necessari per formare ragazzi pronti ad affrontare un mondo in costante evoluzione.

Non è un’impresa facile, anzi. Ma rinunciarci a priori è peggio di un errore.

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