di Norberto Fragiacomo 15 luglio 2014
Matteo Renzi è davvero più pericoloso dei suoi predecessori, Monti compreso?
La domanda è abbastanza oziosa, per una varietà di ragioni. Anzitutto perché, in assenza di termini di paragone obiettivi (Mario e la sua Empy sono ormai consegnati agli annali, il fiorentino è appena agli esordi), si rischia di rispondere emotivamente – ed è cosa nota che i timori e le sofferenze presenti sbiadiscono i patemi passati, proprio perché lontani nel tempo, non più attuali. E’ irragionevole aver paura di ciò che è già capitato; pensiamo a quanti adulti ridano scioccamente delle proprie “tragedie” infantili, senza considerare che, a otto anni, un brutto voto a scuola e la sottrazione di un giocattolo possono costituire un autentico dramma. Tuttavia, non sono soltanto la psicologia umana e la carenza di dati affidabili a rendere difficile il confronto: a ben vedere, Renzi è la prosecuzione del professor Monti, perché ricopre il medesimo ruolo e si propone gli stessi scopi. Non mi riferisco alla carica di Presidente del Consiglio, ma per l’appunto al ruolo, al compito di “privatizzazione integrale” della società che ai due personaggi è stato assegnato. Da chi? Dal gotha della grande finanza multinazionale, cui il bocconiano appartiene di diritto ed alla quale l’ambiziosissimo Matteo ha venduto furbescamente i suoi servigi.
Malgrado le differenze esteriori, Monti, Letta e Renzi ci appaiono come tre tecnici incaricati di attuare l’unica politica permessa dalle troike, quella di spogliare i poveri per dare ai (veramente) ricchi. Ma Berlusconi – direte – non faceva altrettanto? Sì, innegabilmente… ma lo faceva “male”, perché troppo condizionato dai propri personali interessi e perché lui stesso espressione dei medi e medio-grandi imprenditori del nord (a quelli piccoli e piccolissimi pensava la Lega), che all’estero ci vanno solo per delocalizzare. Un outsider, insomma, schierato a difesa di una cricca perdente.
Certo, Matteo ha alcuni vantaggi competitivi rispetto ai predecessori, come lui sostenuti acriticamente dai media istituzionali. Facile elencarli: è giovane (e sull’anagrafe ha costruito il suo personaggio, curando di sembrare più esuberante, spontaneo e casual di quanto non sia), bravo a coniare slogan, estremamente veloce e aggressivo. Per usare una metafora calcistica, non lascia giocare gli avversari. Inoltre, da buon allievo di Berlusconi, se ne frega della realtà, rimescolando continuamente le carte (vedi la vicenda del DL 90) in base alle convenienze.
Illuminante è il rapporto con l’Europa, cioè con le lobby che la gestiscono. Il fiorentino millantava, alla vigilia del semestre europeo, che “battendo i pugni sul tavolo” dalla UE avrebbe ottenuto parecchio. Le sue richieste, in verità assai sommesse, sono state invece respinte: nessuna attenuazione delle misure di austerità per l’Italia, hanno ribattuto in coro euroburocrati di prima, seconda e terza fascia (persino il rappresentante dell’irrilevante Estonia è stato tranchant). Renzi allora, senza neppure consultarsi con Padoan, ha estratto dal cilindro un peluche: consentiteci almeno di escludere dal Patto di stabilità gli investimenti digitali! Prima di rispondere – di nuovo – picche, i tecnocrati devono aver sbarrato gli occhi: ma di che sciocchezze ciancia costui? Sottrarre ai vincoli un settore di così scarso rilievo pare una mattana (è come se un bimbo proponesse al genitore: visto che non mi compri il ghiacciolo, posso avere almeno lo stecco?), ma a ben vedere l’uscita risponde ad una logica tipicamente renziana.
La “volpe del Chianti” (copyright F. Maltinti…e non ce ne voglia il nobile vino!) ha edificato il suo 41% su parole d’ordine ossessivamente ripetute, e “digitalizzazione” è una di queste: sostituendo il pc agli uffici egli vuol far credere agli italiani che sia possibile curare con un colpo di bacchetta magica i presunti mali della pubblica amministrazione. Trattasi di scemenza (se un correntista ha un problema col suo conto va in sede, mica scrive una mail!), ma di scemenza “tecnologica”, e perciò accattivante – destinata, in sostanza, al mercato politico nazionale. Invero, gli insuccessi europei di Renzi non paiono, al momento, penalizzarlo: commentatori e militanti critici del PD stigmatizzano la durezza della UE e, al contempo, giustificano il premier, che avrebbe “fatto il possibile, ma quelli non ascoltano”. La spiegazione è, secondo me, abbastanza diversa: anche la campagna d’Europa è ad uso interno. Avesse inteso realmente “battere i pugni” Renzi avrebbe messo sul fatidico tavolo il finanziamento italiano all’Unione: attenti, se non ci venite incontro potremmo sospendere la contribuzione. Non è proprio una minaccia da prendere sottogamba: secondo i dati pubblicati dal Censis (http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=120951), l’Italia è il terzo contribuente netto dell’UE, con 16,4 miliardi versati nel 2012, pari al 12% del budget annuale dell’Unione (140 miliardi). Il saldo passivo, continua il Centro Studi, ammonta a 5,7 miliardi (2012): è dunque piuttosto evidente che una moratoria sui pagamenti metterebbe in crisi le istituzioni comunitarie. Un ricatto? Può darsi, ma i pugni non si sbattono con gentilezza. In ogni caso, una simile ipotesi non è stata manco presa in considerazione: Matteo Renzi era conscio fin dal principio che la cosiddetta trattativa europea sarebbe stata un gioco delle parti, una messinscena propagandistica. Riposti nella manica asso, tre e figure, il premier ha optato per la briscolina del semestre europeo – rituale senza contenuti, argomento privo di sostanza – per poi spacciare agli italiani il bluff per un ardimentoso tentativo. Non solo: il diniego ricevuto, se da un lato scarica tutte la responsabilità delle strette future sulla UE “troppo severa”, dall’altro rafforza, anziché indebolire, l’esigenza di “riforme”.
Il messaggio all’elettorato è suadente, insidioso: cari italiani, io ce l’ho messa tutta, ma a causa dei malgoverni passati, del debito pubblico insostenibile ecc. i nostri partner sono un po’ prevenuti verso di noi. C’è un solo modo per guadagnarci la loro fiducia: seguitemi sulla strada delle riforme, mostriamo loro di cosa siamo capaci e, in premio, otterremo flessibilità, benevolenza e medaglie! Ex malo bonum, ma soltanto per Renzi. Il volpino, infatti, non ce la racconta giusta: l’attuazione delle c.d. riforme non determinerà un cambio di atteggiamento della UE nei nostri confronti, visto che il loro effetto sarà proprio la stabilizzazione dell’austerità, intesa come privatizzazione del welfare, ripudio delle finalità sociali da parte dello Stato (istruzione, sanità, assistenza e previdenza sociale), “normalizzazione” della democrazia attraverso il taglio di enti ed organi rappresentativi e cancellazione di ogni tutela giuslavoristica.
Per ottenere questi risultati il fiorentino, a somiglianza dei predecessori, adopera tecniche di manipolazione ben note agli psicologi: a differenza di Bersani, che infarciva i suoi discorsi di deprimenti “non”, lui si esprime sempre in positivo, riservando le negazioni a chi si azzarda a contraddirlo. Anche se c’è da cambiare una virgola, si spaccia la modifica per “riforma”, perché il termine suscita, in chi ascolta, un’istintiva reazione favorevole, mentre (ad esempio) la parola “conservatore” designa nell’immaginario italiano una persona vecchia, sgradevole, aggrappata ai propri privilegi – come il segretario comunale che, a detta di Renzi, “guadagna già abbastanza”.
Si può intravvedere il progetto complessivo del nostro (cioè dell’elite che l’ha imposto) leggendo uno di seguito all’altro i suoi strombazzati – e sgangherati – testi di “riforma”: la logica che tutti li informa è quella dell’arretramento del pubblico e della contemporanea, incontenibile avanzata del privato. Il DDL sulla P.A. è rivoluzionario sul serio, perché mira – attraverso il ridimensionamento dei controlli, la fuga dal concorso pubblico ed il pieno assoggettamento della dirigenza alla politica – a creare in vitro un clone della Public Administration anglosassone, “leggera”, non professionalizzata (da qui l’esigenza dello Spoils system, incompatibile con l’articolo 97 della nostra Costituzione) e quindi perfetta per le esigenze di uno Stato che preveda di occuparsi dei soli fini essenziali – giustizia, ordine pubblico, difesa e poco altro. Questa tessera si incastra perfettamente con quelle del Jobs act (=precarizzazione universale del lavoro privato), della riforma costituzionale (=monocameralismo, premierato forte e smantellamento degli enti intermedi), della legge elettorale (=garanzia di governabilità, cancellazione della rappresentanza) e persino degli 80 euro (=beneficio revocabile, non riconoscimento di un diritto), componendo un’immagine ben riconoscibile: quella di una società ottocentesca divisa in caste, frazione di una comunità estesa all’intero pianeta e governata dal Capitale. “I confini scellerati / cancelliam dagli emisferi”, ma le catene – purtroppo – non ce le toglie nessuno.
Siamo di fronte ad un disegno genuinamente reazionario, di destra estrema, che Matteo Renzi immagina di portare a compimento con il chiassoso avallo di masse inconsapevoli, vocianti e plagiate da slogan a getto continuo. Insomma, una volpe che ubriaca le galline per papparsele a piacimento.
Nulla di particolarmente nuovo: come anticipato, ritengo l’esperienza renziana una continuazione del montismo con altri mezzi (e altre facce, più telegeniche), o piuttosto una sua fase ulteriore. Questo però ci ricorda che il traguardo è pericolosamente vicino, che il tempo sta scadendo. In simili situazioni gli appelli cadono generalmente nel vuoto, ma su un punto voglio insistere: sostituibile come ogni altro essere umano, Matteo Renzi rappresenta, qui e ora, l’incarnazione della volontà dei centri di potere neoliberista e dei bisogni del Capitale.
Va pertanto combattuto a viso aperto, assieme all’organizzazione che lo supporta. Considerare i caporioni del PD “compagni che sbagliano” è un errore imperdonabile, smascherarne la condotta una necessità, stringere alleanze contro di loro indispensabile – a qualsiasi livello, e ad ogni costo. Impresa disperata? Forse… ma oltre alla faciloneria il fiorentino ha un secondo tallone d’Achille: l’irritabilità. Da politicante spregiudicato qual è stringerebbe le mani, in piazza, anche alle statue – se viene sfidato, però, s’innervosisce: un aumento di volume della contestazione potrebbe magari spingerlo a qualche mossa azzardata. Magari.
Come disse quel tale, rivolto a Herr Liebknecht? Ah sì, dixi et salvavi ecc. ecc.