Le radici totalitarie del neoliberismo. III. La mitologia dell’individuo in Von Hayek.
L’economista austriaco Friedrich Von Hayek, lungo tutto il corso degli anni trenta del novecento, in piena Grande depressione economica post 1929, aveva continuato a difendere ostinatamente la dottrina economica del monetarismo, caposaldo del liberalismo economico di inizio secolo , anche contro ogni evidenza fattuale, anche contro la sua smentita , confutazione e sconfitta operata sia sul piano della teoria economica che sul piano della prassi politico-economica dal suo acerrimo antagonista Keynes. Un ‘irriducibilità che aveva portato il professore Von Hayek a essere smentito , deriso e abbandonato dai suoi stessi allievi oramai pentiti.
Ma un risultato ai suoi occhi positivo l’economista austriaco, così come il suo connazionale e compagno di scuola economica Von Mises, erano riusciti ad ottenerlo: impedire che la ripresa della dottrina economica e politica del liberalismo inaugurata e tentata in occasione del Colloquio Lippmann , intraprendesse una strada che l’avrebbe portata molto lontana dai suoi postulati di base e avvicinata alle posizioni «eterodosse» di John Maynard Keynes.
Anche sotto la pressione e l’opposizione operate da Von Hayek e Von Mises , la soluzione proposta e formulata nel documento finale del Colloquio Lippmann ( convegno di tutti i principali pensatori liberali dell’epoca tenutosi a Parigi nell’agosto del 1938) L’agenda del liberalismo, ,che possiamo considerare l’atto ufficiale di nascita della dottrina del neoliberismo, si presentava come ambigua e contraddittoria, intraducibile sul piano della prassi politica ed economica.
Da una parte s’invocava l’intervento delle istituzioni dello Stato e del sistema del diritto per regolamentare e «addomesticare» la fiera selvaggia del liberismo economico , dall’altra si pretendeva di conservare i capisaldi di quello stesso sistema: l’autoregolazione del mercato tramite il «libero» formarsi del prezzo delle merci sul mercato tra domanda e offerta, l’autoregolazione del flusso della moneta tramite il «termometro» del tasso d’interesse del denaro fissato dal «naturale» rapporto tra risparmi e investimenti,e in sostanza la libertà di azione dei singoli attori economici con una «naturale » affermazione dei più forti e il conseguente continuo nascere e perire di attori economici sul mercato.
In questa ottica il sistema capitalistico non poteva trovare una soluzione alle sue radicali distorsioni, ai gravi squilibri di un mercato economico governato dall’anarchia, preda dell’anomia, condizione in cui pochi grandi attori economici, le corporations e le banche private, potevano spadroneggiare e creare situazioni di fluttuazioni dei processi economici, con disastrose conseguenze sul piano dell’occupazione e delle politiche monetarie e sociali.
L’idea di riservare allo Stato un ruolo attivo in rapporto al sistema economico liberista poteva essere però conservata, ma non più come forza catacontica, raffrenante nei confronti delle pulsioni autodistruttive del sistema capitalistico, come salvataggio di quel sistema da sè stesso, come aveva inteso quel ruolo J. M. Keynes. Si poteva invece ipotizzare, in un più o meno lontano futuro ideale, che il complesso delle istituzioni politiche e sociali si mettesse al servizio completo di quelle dinamiche della «libertà di mercato», che le potenziasse ulteriormente. Ciò avrebbe dovuto comportare una sostanziale destrutturazione dello Stato di diritto liberale dal suo interno, uno «sgretolamento» progressivo delle funzioni e dell’equilibrio tra i tre poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, oltre che l’esautorazione di qualsiasi modello di Stato sociale o di costituzione giuridica socialdemocratica.
Ma per indirizzarsi verso questa meta era necessario coltivare ed «educare » una nuova antropologia, un «uomo nuovo», non diversamente dagli esperimenti pedagogici sulle masse che erano in corso in quegli stessi anni negli Stati totalitari fascisti e comunisti.
Questo «uomo nuovo» cercato da Hayek non poteva essere altri che l’individuo, eroe eponimo della storia, la cui figura era sorta nella sua cogitazione, in una sorta di «luminoso punto archimedeo» ( come avrebbe potuto dire il filosofo Cartesio per la sua scoperta del principio dell’evidenza del Cogito)in quel tornante della sua riflessione che a prima vista poteva essere scambiato per la resa finale, il riconoscimento di impotenza delle sue proprie dottrine economiche.
La constatazione che ogni attore individuale in economia ha una conoscenza solo parziale e frammentata dei processi economici; il fatto che , a suo dire, l’individuo è impossibilitato a conoscere le dinamiche complessive e generali dell’economia( non può esistere , a parere di Hayek, una scienza «macroeconomica») e che quel tanto di conoscenza che era resa possibile, a livello individuale, delle dinamiche di mercato, era dato dalla manifestazione «epifenomenica» della libera formazione dei prezzi delle merci, che poteva apparire come l’aperta confessione della debolezza di quella che Hayek considerava la scienza economica, si rovesciava improvvisamente in lui in un principio di forza. Questo rovesciamento assumeva il nome di «divisione sociale del lavoro».
La divisione sociale del lavoro, concetto assunto come una constatazione oggettiva e neutrale dello sviluppo del sistema di mercato da parte degli economisti classici, giudicato viceversa come la cifra dell’ alienazione e dello sfruttamento nel sistema capitalistico da Marx, finiva per assumere connotazioni «eroiche» o epiche se associate al presunto ruolo dell’individuo nella storia , nell’evoluzione dall’antichità classica greco-romana, passando per l’età medievale per giungere infine all’evo moderno, giudicato «robinsoniamente» come il luogo ideale per la piena realizzazione delle prerogative dell’individuo, dell’individuo capace di piena affermazione, di esprimere una posizione di forza, l’individuo «vincente » naturalmente.
Questa nuova formulazione della dottrina dell’individualismo si viene nutrendo, come abbiamo osservato, di una combinazione tra la teoria del «darwinismo sociale» – la specie umana si seleziona, al pari delle altre specie animali, secondo i suoi «esemplari» più capaci di adattarsi all’ambiente economico e sociale, mente gli altri sono destinati a soccombere– e di amor fati, di un accettazione virile ed «eroica» del destino che tocca in sorte a ciascuno.
Von Hayek si sarebbe espresso in modo inequivocabile in una sua successiva opera, Legge, Legislazione e libertà, su questa sua weltanschaung generale dell’economia e della società : «procede come tutti i giochi, secondo determinate regole che guidano le azioni degli individui che vi partecipano, i cui intenti, capacità e conoscenze sono diversi, con la conseguenza che il risultato sarà imprevedibile e che ci saranno inevitabilmente vincitori e vinti ».
Questa «mutazione» di pelle dalla dottrina economica alla filosofia politica e all’antropologia filosofica conosce in Hayek alcuni passaggi, dalla conferenza Economia e conoscenza del 1936 , al confronto / scontro al Colloquio Lippmann del 1938, trovando la sua prima e forse più compiuta formulazione in La via della schiavitù , saggio che ha la sua prima pubblicazione nel 1944. La via della schiavitù presenta , nella biografia intellettuale di Von Hayek, due caratteristiche fondamentali. La prima è che il vero e proprio «mitologema » che Hayek costruisce intorno al concetto dell’individuo nel suo cammino storico in Occidente, si configura e staglia solo per opposizione , e negativo, ad altre due mitologie che in quegli stessi anni avevano conosciuto un’affermazione reale nel continente europeo: la mitologia della «comunità di sangue e suolo» , la comunità razzialmente pura della Germania nazista, ( con la sua variante «secondaria» della comunità nazionalista e imperialista del fascismo italiano) e la mitologia della dittatura del proletariato in grado di abolire ogni società di classe e di affermare l’uguaglianza universale, dell’Unione Sovietica stalinista.
Le due mitologie politiche realizzate mostravano, nel giudizio di Hayek, quale dovesse essere la via opposta a quella da loro perseguita, alla Via della schiavitù, appunto. La seconda caratteristica fondamentale del saggio di Hayek è che, passando dalla dottrina economica alla filosofia politica e all’antropologia filosofica, è come se l’economista austriaco «fiutasse» o si sintonizzasse sullo zeist geist, sullo «spirito del tempo», come se intuisse che l’opinione pubblica del tempo non potesse essere catturata e convinta con dimostrazioni sperimentali di teorie scientifiche , ma che fosse sensibile a mitologie a un tempo elementari e potenti, a ideologie persuasive perchè di per sè «risolutive» , in grado di semplificare e ridurre ad un unico principio una realtà storica complessa .
A ben vedere, la reductio ad unum, la sottomissione ad un unico principio di una realtà articolata e complessa, in particolare se applicata al campo delle ideologie e prassi politiche in senso lato, è proprio la caratteristica di ogni totalitarismo, compreso quello in nuce, il «totalitarismo nichilista» che si stava elaborando nella dottrina politica di Von Hayek.
Per Hayek, in modo più o meno consapevole, la propria epoca ( ma non è lo stesso anche per la nostra ?) era l’epoca di miti e ideologie potenti perchè semplificatrici e risolutive,non di pacate e ragionate analisi intellettuali. Conseguentemente la sua opera più celebre, non un saggio di economia ma di filosofia politica, La via della schiavitù, assume queste caratteristiche epiche e mitiche. Nell’introduzione all’opera Hayek ribadisce con forza la convinzione da lui espressa in una lettera indirizzata al politologo Lippmann già nel 1937: «vorrei far capire ai miei amici progressisti che la democrazia è possibile soltanto sotto il capitalismo e che gli esperimenti collettivisti portano inevitabilmente al fascismo( o al socialismo, come sottinteso, ndr,)».
Originariamente l’opera avrebbe dovuto intitolarsi La nemesi della società pianificata, un evidente richiamo al fatto che coloro che invocano un’economia pianificata da parte dello Stato al posto del libero mercato, per quanto pieni di buone intenzioni, finiscono, anche in buona fede, per incamminarsi inevitabilmente verso la tirannide totalitaria. «Una volta che il libero funzionamento del mercato viene impedito oltre un certo livello, il pianificatore sarà costretto ad ampliare i propri controlli fino a quando diventeranno onnipervasivi» , osservava ancora Hayek in quella lettera. Nell’introduzione all’opera Hayek ribadisce con forza la convinzione da lui espressa in una lettera indirizzata al politologo Lippmann già nel 1937: «vorrei far capire ai miei amici progressisti che la democrazia è possibile soltanto sotto il capitalismo e che gli esperimenti collettivisti portano inevitabilmente al fascismo( o al socialismo, come sottinteso, ndr,)».
Originariamente l’opera avrebbe dovuto intitolarsi La nemesi della società pianificata, un evidente richiamo al fatto che coloro che invocano un’economia pianificata da parte dello Stato al posto del libero mercato, per quanto pieni di buone intenzioni, finiscono, anche in buona fede, per incamminarsi inevitabilmente verso la tirannide totalitaria. «Una volta che il libero funzionamento del mercato viene impedito oltre un certo livello, il pianificatore sarà costretto ad ampliare i propri controlli fino a quando diventeranno onnipervasivi» , osservava ancora Hayek in quella lettera.
In La via della schiavitù Hayek attacca socialismo e fascismo considerandoli mali gemelli, anche se considerazioni di opportunità, ( l’Unione sovietica era dalla stessa parte del fronte bellico con gli alleati) lo inducono a smorzare le critiche al comunismo rispetto a quelle rivolte al fascismo e nazismo. Però era radicata in lui la convinzione che fosse errata la visione degli estremismi di destra e di sinistra come fenomeni diametralmente opposti perchè entrambi, sostituendo le forze del mercato con una soffocante pianificazione statale , aggredivano le libertà individuali.
Hayek temeva che le democrazie occidentali potessero prolungare le politiche economiche pianificatrici e centralizzatrici del tempo di guerra anche in tempo di pace, sotto l’ipotesi che ciò avrebbe favorito una società più prospera e più giusta. Per Hayek invece queste politiche economiche avrebbero aperto la strada al totalitarismo, ripetendone l’attuazione storica : «Abbiamo progressivamente abbandonato quella libertà in economia senza la quale le libertà personali e politiche non sono mai esistite in passato…Stiamo rischiando di ripetere la parabola della Germania».
Se mettiamo a confronto questa tesi di Hayek con i resoconti scritti dei dibattiti dell’assemblea costituente del parlamento italiano del 1947(pochi anni dopo dunque), quei famosi settanta parlamentari incaricati di redigere il testo della Costituzione della Repubblica italiana, vi troviamo riportata una tesi completamente opposta: ciò che ha portato al potere il nazionalsocialismo in Germania, all’inizio degli anni 30, e che ha avuto come conseguenza il disastro del secondo conflitto mondiale, è stato proprio quel modello di economia liberista, di capitalismo deregolamentato , che attraverso la crisi economica della Grande Depressione del 1929, come un ‘onda sismica trasmessasi dagli Stati Uniti all’Europa, ha spinto milioni di tedeschi nelle braccia di un partito e di un ‘ideologia che fino all’inizio degli anni trenta non avevano conosciuto un grande seguito elettorale.
Secondo quest’ultima interpretazione è proprio quella «libertà in economia» rimpianta e vagheggiata da Hayek che ha prodotto come reazione il totalitarismo.
Hayek intendeva fare del suo saggio La via della schiavitù un monito rivolto a quelli che chiamava «i socialisti di tutti i partiti», cioè i propugnatori della nazionalizzazione dei mezzi di produzione e della pianificazione centralizzata. La responsabilità personale , la propensione a rischiare, al mettersi in gioco, «il gusto » alle sfide personali , sono, secondo Hayek , annichiliti dall’emergere dello Stato paternalistico sociale come modello da seguire in quella congiuntura storica. Lo Stato e la sua idolatria sono, a giudizio di Hayek, gli imputati principali di questo stato di cose. Lo Stato incarna la poliedrica figura di soggetto impersonale , indefinito, padre, tutore, padrone, che dirige, elargisce doni, protegge , controlla, spia , giudica, condanna e punisce. Questo modello di Stato è proprio la via che conduce alla schiavitù .
Hayek considera che i partiti socialisti dei paesi occidentali, anche con le migliori buone intenzioni «democratiche», nel momento in cui perorano la causa di un economia guidata dal centro dallo Stato, rischiano di portare al totalitarismo. Come conseguenze imprevedibili ma inevitabili di tale pianificazione socialista, le forze totalitarie approfittano dello status quo creato e prendono il sopravvento.
Hayek vedeva ,dopo la crisi economica e la conseguente grande depressione del 1929, i Paesi occidentali abbandonare progressivamente il «liberalismo economico», a cominciare naturalmente dalle dittature totalitarie fascista e nazista, per poi estendersi però alle «nazioni faro della democrazia liberale» Stati Uniti e Gran Bretagna, e considerava questo processo in corso come un pericoloso scivolamento verso totalitarismo e schiavitù:«Noi abbiamo progressivamente abbandonato quella libertà in campo economico senza la quale non è mai esistita nel passato la libertà personale e politica. Sebbene fossimo stati ammoniti da alcuni dei più grandi pensatori politici del diciannovesimo secolo, da Tocqueville a Lord Acton, che il socialismo significa schiavitù,noi ci siamo costantemente mossi nella direzione del socialismo».
Hayek elabora una sua personale dottrina di filosofia della storia, dell”«illuminismo dell’Occidente » , collegate all’affermarsi delle libertà economiche , personali e politiche, a partire dalla modernità. Osserva Hayek che il liberalismo era nato nelle città commerciali dell’Italia del nord (nella Firenze, Venezia, Milano, etc . del basso o tardo Medioevo, ndr. ) per poi spostarsi verso nord fino a radicarsi saldamente nei Paesi Bassi e nelle Isole Britanniche ( in particolare con l’avvento delle riforme religiose protestanti , su tutte la Riforma calvinista e Anglicana, ndr, ).
Da qui, nel corso del diciottesimo e diciannovesimo secolo , il liberalismo si era diffuso in America e nel continente europeo. Annota con entusiasmo Hayek che il risultato maggiore dell’aver tolto le catene alle energie individuali fu lo sviluppo meraviglioso della scienza che seguì il cammino della libertà individuale. Nella ricostruzione di Hayek il successo del liberalismo andò al di là al di là dei sogni più temerari, e agli inizi del ventesimo secolo il lavoratore del mondo occidentale aveva conseguito un grado di benessere materiale, di sicurezza e di indipendenza personale che cento anni prima sarebbe sembrato difficilmente possibile. Col successo crebbe però l’ambizione, e il ritmo del progresso parve troppo lento. I principi che avevano reso possibile questo progresso nel passato vennero considerati più come ostacoli sulla strada di un progresso maggiormente veloce da spazzar via con impazienza, piuttosto che come condizioni per la conservazione e lo sviluppo di ciò che era stato conseguito.
Quindi «ambizione» e «impazienza» sono le categorie con cui Hayek spiega il nascere , già a partire dagli anni trenta/quaranta dell’ottocento, dei primi movimenti socialisti, e poi della prima internazionale socialista, dei partiti socialisti e naturalmente delle teorie sul socialismo scientifico. Hayek non si interroga sul fatto se il lavoratore occidentale fosse veramente così benestante , indipendente e progredito come lui afferma.
Nella narrazione hayekiana, conseguentemente, in quel frangente d’inizio del ventesimo secolo gli europei abbandonavano non solo le idee liberali ma l’intera tradizione individualista occidentale ereditata dai Greci , dai Romani , dal cristianesimo, e dagli umanisti.
Anche qui Hayek non mostra alcuna incertezza sul fatto se il suo concetto antropologico d’individuo, quale monade irrelata, astratta, separata dal contesto o dall’ambiente o addirittura in competizione con essi, corrisponda con il concetto di uomo sviluppato da quelle tradizioni plurimillenarie o plurisecolari.
In un breve excursus sul tema potremmo ad es. osservare che la tradizione greca ha trasmesso in eredità all’occidente, intorno alla natura umana, eminentemente il concetto socratico , secolarizzato di anima ( psichè), l’Io come centro intellettuale e morale del soggetto, capace di illuminare i suoi comportamenti attraverso l’illuminazione della razionalità e della conoscenza. L’anima socratica, come è messa in scena nei dialoghi dell’allievo Platone, si configura come soggettività centrata su sè stessa e padrona delle proprie dinamiche interne, delle proprie passioni e desideri. Per il personaggio Socrate esiste un’ unica virtù contrapposta alla folla delle virtù tradizionali , ed è la virtù della scienza come capacità razionale di conoscere ciò che è bene e ciò che è male, di temperare i piaceri , di scegliere in ogni circostanza il meglio e di evitare il peggio.
Solo per ignoranza , per errore di un calcolo intellettuale su ciò che ci si prefigge di volta in volta come meta della felicità, si commette il male. La condanna che il proprio «giudice interiore », il «vero» Io, decreta per una condotta malvagia, causerà infelicità al di là di qualsiasi apparente successo o affermazione esteriore. Sull’imperativo da compiere , il «conosci tè stesso» , si basa la socratica cura dell’anima , in cui l’anima è a un tempo giudice e organo della felicità.
Erede di tale concezione è il modello dell’anima «politica » della Repubblica di Platone , un ‘anima luogo di tre centri di forza, in cui la razionalità della conoscenza deve contemperare e guidare, «verso il loro uso più proficuo», la spinta delle passioni nobili dell’irascibilità e del coraggio e la spinta delle passioni meno nobili dell’avidità e della concupiscenza. Il modello dell’anima platonica era soggettivo e politico a un tempo, indirizzato tanto al governo di sè stessi che della comunità politica. Quest’anima poneva come suo orizzonte la dottrina delle idee governate dall’idea «faro» o «sole » del Bene. La dottrina politica ed etica dell’allievo «dissidente» di Platone, Aristotele, affermava poi la natura politica dell’essere umano, il suo essere zoon politikon, «animale comunitario» o sociale. Aristotele concepisce quale figura pubblica l’aristoi ( «migliore») , il migliore non per diritto di nascita, di condizione sociale o di posizioni di potere e ricchezza acquisite, ma perchè in grado di espletare la sua praxis, la sua azione etico-politica quale cittadino della polis in cui pone al centro la relazione e la considerazione dell’interlocutore, dei suoi bisogni oggettivi e pratici, del trovare la giusta «medietà» ( mesotes) nel ricercare fini e obiettivi pratici. La mesotes aristotelica non è affatto un medio geometrico tra due estremi, e meno che mai la mediocrità, ma un medio «virtuosistico» come capacità d’interpretare lo specifico obiettivo comune, di trovare l’adeguazione e l’approssimazione «stocastica» ad esso. In questa praxis l’agire rimane in piena padronanza e autoconsapevolezza teorica dell’agente.
Quale eredità di tale tradizione «socratica » della soggettività a un tempo autocosciente ed essere comunitario, si potrebbe rivenire nel concetto d’individuo «libero e padrone di sè» di Von Hayek? Forse più affinità alla sua teoria possono essere rinvenute nella tradizione dell’antico atomismo democriteo( il latino individuum, «indivisibile», non è altro che la traduzione del greco atomoi «atomo» , particella di materia in continuo movimento e urto con altrettante particelle) , dello scetticismo cinico o dell’empirismo epicureo. Per quanto concerne il cristianesimo , sul concetto di uomo esso ci ha lasciato principalmente due eredità dottrinarie.
Innanzitutto il concetto di «persona» quale essere umano formalmente o concettualmente uguale rispetto a tutti gli altri perchè «ugual» creatura davanti a Dio( nessuna più classificazione «per nascita» tra cittadino, liberto e schiavo, almeno formalmente); «persona» è la traslazione dal latino per sonam, che indicava la maschera del teatro antico greco-romano , attraverso cui risuonava e si amplificava la voce dell’attore indossante la maschera, il suo «personaggio» appunto; per traslazione e metafora la «persona» cristiana è la maschera esteriore dell’individuo attraverso cui però risuona la sua interiorità, la sua soggettività spirituale , la sua anima profonda e misteriosa ispirata da Dio. Il secondo concetto cristiano di essere umano è quello di «essere comunitario» appartenente per natura a una comunità , a un «donarsi reciproco» ( com-munis) in nome dell’amore fraterno . Le prime comunità cristiane, quelle istituite da Paolo di Tarso, hanno ispirato non solo nel nome tutti i collettivi comunisti della modernità.
Ancora, quale rapporto tra l’individuo e l’individualismo celebrati da Von Hayek e questa eredità culturale e storica del cristianesimo? Più affinità alla concezione hayekana presenta sicuramente la dottrina del cristianesimo riformato delle sette ascetiche del calvinismo( puritanesimo, metodismo, precisismo) e in particolare la concezione del «particolarismo della grazia » , ma su questo tema dovremo ritornare più approfonditamente la prossima volta.
Allora, forse , finalmente, un aggancio può essere trovato tra l’individuo favoleggiato da Hayek e l’umanista dell’eta rinascimentale, il protagonista e campione del principium individuationis asserito dallo psicanalista Jung, l’uomo «leornardesco» rinascimentale proteso prometeicamente alla autodeterminazione, alla costituzione del proprio destino, a essere «divinamente » creativo e ispirato.
Ma visto da vicino questo uomo del rinascimento intende sè stesso come un «microcosmo» interno al macrocosmo naturale, in relazione simpatetica e reciproca con le forze , elementi e leggi di natura, in dipendenza e corrispondenza con i voleri degli astri celesti; una relazione di reciprocità tra interiorità hominis e forze e leggi cosmiche e naturali, intendendo per quest’ultime tanto le leggi dei corpi celesti ,che gli elementi costitutivi del mondo naturale che gli umori regolanti il corpo umano. Dunque nessuna individualità irrelata, astratta, separata dal contesto o dall’ambiente o addirittura in competizione con essi.
Lo stesso scienziato logico-matematico della rivoluzione scientifica del seicento non è così isolato dal contesto ambientale naturale , ma semmai regola la sua relazione con esso non più attraverso la decodificazione delle forze passionali e immaginative ma con i caratteri matematici con cui ci parla la lingua della natura. Su una variante di tale modello scientifico può però essere trovata una ascendenza della dottrina dell’individuo di Hayek, nel pensiero del padre «meno nobile» o più scomodo del giusnaturalismo e del liberalismo moderni: Thomas Hobbes. In Hobbes la determinazione logico-matematica dei fenomeni, processi e leggi della natura , la «meccanica razionale » dell’universo, viene traslata nel determinismo della natura umana, dell’antropologia.
L’essere umano ha per Hobbes come sue passioni fondanti, come sue determinanti psichiche costitutive, la paura e l’aggressività, innanzitutto nei confronti del prossimo e poi della società nel suo complesso. Il principio dell’homo homini lupus trova qui la sua prima compiuta formulazione e in Hobbes si costituisce una sorta di «scienza meccanica» della natura umana e della società umana, da cui derivano la sua stessa teoria politica del diritto naturale e dello Stato «Leviatano». Inevitabilmente, se il modello dell’agire sociale e politico è quello dell’atto scientifico di dominio tecnico sulla natura , che come tale è per principio isolato e muto, allora tale agire sociale, politico( ed economico) dell’individuo non richiederà il confronto,la comunicazione, il dialogo o la collaborazione , ma solo la competizione con l’altro e se possibile la sua sottomissione.
Non lo zoon politikon aristotelico ma il suddito hobbesiano che cede la sua innata natura «lupesca», che comporta la minaccia del bellum omnium contra omnes, a un potere assoluto, leviatanico, in cambio della sicurezza della vita, è prossimo all’individuo celebrato e mitizzato da Von Hayek.
Abbiamo visto in un rapido excursus come Hayek recepisca in modo singolare quella che lui definisce unilateralmente «tradizione individualista occidentale », inglobando in questa accezione l’intera storia della civiltà occidentale; ma la stessa eredità del liberalismo anglosassone( pensando al «padre nobile» del liberalismo John Locke) subisce in lui un analoga sorte. Infatti Hayek in La via della schiavitù, lamenta il fatto che l’adesione al collettivismo dei primi decenni del novecento stava distruggendo quelle virtù individualiste che erano sempre state motivo di fierezza presso i popoli anglosassoni , come l’indipendenza e la fiducia in sè stessi, l’iniziativa individuale e la responsabilità locale, l’affidamento del successo all’azione volontaria, la non interferenza verso il prossimo, il rispetto per gli usi e la tradizione , e una sana diffidenza verso il potere e l’autorità. Il collettivismo, per contro , non aveva niente da mettere al loro posto, se non la muta obbedienza e il rassegnato compimento del dovere stabilito dall’autorità.
En passant osserviamo che tra le virtù individualiste appartenenti in particolare ai popoli anglosassoni Hayek pone tra le altre anche «l’affidamento del successo all’azione volontaria» e «la non interferenza verso il prossimo», due concetti che se assunti in modo radicale, rimandano, come retroterra, il primo alla puritana fiducia che il successo nel mondo delle proprie azioni sia un segno della grazia, di essere predestinati alla salvezza( che , con una traslazione, da azioni manifestamente virtuose diventano azioni vincenti pur che siano) e il secondo concetto all’«antifratellanza» o non solidarietà con il prossimo.
Il «collettivismo», assunto in una accezione negativa e dispregiativa da Von Hayek, secondo il giovane Marx poteva essere invece inteso in modo totalmente diverso: quale società egualitaria o senza classi esso non necessariamente era il luogo istituzionalizzato della rassegnazione passiva e ottusa al proprio dovere, ma al contrario diventava la possibilità della multilateralità o versatilità dell’individuo, non più «rassegnato» a quell’unica o uniforme funzione o compito che gli assegnava la divisione sociale del lavoro della società capitalistica.
Per Hayek l’affinità tra fascismo e comunismo, la loro natura di «mali totalitari gemelli», era evidenziata anche dalla facilità con la quale i giovani comunisti potevano essere convertiti in nazisti e viceversa. Questi giovani non avevano le idee chiare, ma di una cosa erano certissimi: che odiavano la società liberale occidentale. Per gli uni e gli altri il vero nemico, l’uomo con il quale essi non avevano niente in comune e che non potevano minimamente sperare di convertire, era il liberale vecchio stampo. Quando Hitler salì al potere, il liberalismo in Germania era già morto e sepolto, e a ucciderlo era stato il socialismo.
In questi passi della sua narrazione colpisce la facilità con cui Hayek accomuna la crisi del liberalismo nella Germania della repubblica di Weimar o del governo conservatore di Hindenburg dell’inizio degli anni trenta con un regime socialista di stampo sovietico tout court, quando, bene o male , quella Germania aveva tentato di salvare la democrazia liberale muovendosi nel mare procelloso delle pesantissime riparazioni di guerra stabilite dal Trattato di Versailles, la conseguente iperinflazione economica dei primi anni venti, la ripresa degli anni immediatamente successivi e il definitivo colpo di grazia ricevuto dalla grande Depressione del 1929.
Hayek vuole ricordare ai suoi lettori l’enorme influenza esercitata dalla Germania nello sviluppo della teoria e della pratica del socialismo e in particolare che fino a poco tempo addietro lo sviluppo delle dottrine socialiste si era realizzato quasi per intero in Germania e in Austria, e una generazione prima che il socialismo si diffondesse in Inghilterra, la Germania aveva già nel proprio Parlamento un grosso partito socialista. A «supporto » della sua tesi chiama a testimoniare il santo patrono del nazionalsocialismo Arthur Moeller Van Der Bruck , secondo cui la prima guerra mondiale era stata una guerra tra il liberalismo occidentale e il socialismo tedesco. Egli si vantava del fatto che nel primo dopoguerra non ci fossero più liberali in Germania, perché «il liberalismo è una filosofia di vita dalla quale la gioventù tedesca si allontana con nausea, con collera, con disprezzo tutto particolare, perché non c’è niente di più estraneo, di più ripugnante, di più contrario alla propria filosofia»(Il terzo reich, 1923 ).
Senza peritarsi sulla sua fondatezza Hayek prende per buona l’interpretazione di Van Der Bruck e sulla sua scorta rammenta che questo presunto cambiamento di mentalità andava fatto risalire all’egemonia culturale della Germania negli ultimi decenni dell’ottocento grazie ai suoi successi militari e industriali .Dopo il 1870, infatti, le idee “tedesche” favorevoli al socialismo e alla pianificazione statale cominciarono a soppiantare in tutta Europa le idee liberali “inglesi”. En passant osserviamo come Hayek , nella sua ricostruzione dei processi storici, equipari i successi militari tedeschi dell’età dello stato conservatore bismarckiano dapprima, e dell’imperialismo dell’epoca gugliemina poi, all’avanzata tout court in Germania del socialismo, seguendo acriticamente il teorema di Van Der Bruck.
Nessun riferimento alla dialettica interna a quella Germania tra la classe egemone degli Junker , grandi proprietari fondiari prussiani nonchè ceto dirigente dell’esercito, colonna dei governi succedutisi alla guida del Paese, e l’importante partito socialdemocratico tedesco, traspare dalle sue riflessioni. Tornando ai modelli economici, Von Hayek ribadisce che l’economia pianificata dal centro dello Stato non sarebbe stata in grado di operare in maniera efficiente perchè non avrebbe potuto fare uso della conoscenza dispersa tra i milioni di individui che compongono la società. La pianificazione dell’economia nazionale, anche se motivata da buone intenzioni, avrebbe condotto alla tirannia e alla perdita delle libertà personali, perchè poteva essere attuata solo mediante forme sempre più estese di controllo coercitivo sull’individuo.
Infatti non esiste un fine sociale universalmente valido, individuabile dall’autorità, che possa essere imposto a tutti. Esiste solo un’infinita varietà di desideri e bisogni, differenti da individuo a individuo.
Si potrebbe discutere se la non valorizzazione delle competenze e delle abilità di ogni singolo soggetto, argomentata da Hayek, sia una minaccia propria solo di una burocratizzazione statalista e non anche della messa in competizione e contrapposizione, in base anche a una rigida divisione sociale del lavoro e iperspecializzazione , tra i singoli competitors di un mercato del lavoro liberista.
Sottolineiamo però qui in particolare che per Hayek non può esistere un fine sociale, economico e politico comune condiviso; come dire che il benessere materiale e la dignità personale di ogni individuo, e cioè la piena occupazione, la dignità del lavoro, i diritti fondamentali, il libero sviluppo della persona, il suo assurgere a un ruolo pieno di cittadinanza sul piano materiale e spirituale, non costituiscono un obiettivo da perseguire per una società liberale.
Hayek prosegue osservando che il perseguimento dei propri obiettivi da parte degli individui mediante pianificazione politica e statale, contrariamente a quanto essi possono pensare, è destinato a far esplodere il contrasto latente fra tutti i fini individuali. Questo contrasto può essere risolto solo con dosi massiccie di coercizione. I pianificatori della società, ammonisce Hayek, sono i più pericolosi e i più intolleranti verso i piani degli altri. E’ questo il motivo per cui in una società avviata verso il totalitarismo emergono i peggiori, come avverte Hayek nel decimo capitolo del suo libro.
Il tentativo di irregimentare dall’alto la società ha avuto come esito non casuale ma inevitabile il fatto che personaggi spietati come Stalin, Berja, Hitler e Himmler abbiano raggiunto i posti di comando. Nelle posizioni di potere finiscono infatti per accedervi tutti coloro che hanno meno scrupoli a imporre, anche con la forza , l’applicazione del piano supremo. Ci saranno da compiere delle azioni sulla cui malvagità in se stesse, nessuno può avere dubbi, ma che debbono essere compiute per realizzare il fine ultimo superiore.
Tutti coloro che rispettano ancora la morale tradizionale saranno riluttanti a mettere in atto delle azioni che comportino, ad esempio, arresti indiscriminati di persone, il loro interrogatorio che comporti crudeli forme di tortura, la loro stessa eliminazione fisica, oppure più «lievi» forme d ‘intimidazione, d’inganno, di spionaggio, di delazione. La sollecitudine a fare queste cose «poco commendevoli» diventa così la via per ottenere promozioni e potere.
Alcune osservazioni possono essere tratte da quest’ultime argomentazioni di Hayek: parrebbe che il perseguimento «sacrale» , quasi religioso dei propri obiettivi da parte dell’individuo, non debba per lui essere inevitabilmente condizionato e mediato dall’esistenza e l’operato di corpi istituzionali intermedi, quali rappresentanze corporative o sindacati, quali partiti politici, o istituzioni giudiziarie quali arbitri dei rapporti sociali stessi, per poi giungere alle più alte istituzioni politiche e giuridiche– che tutto questo non sia inevitabile in una società o Stato articolato moderni, checchè sia l’aspirazione dell’anarchico individualista.
Altra cosa è concordare con Hayek sul punto che una irreggimentazione non democratica , autoritaria se non addirittura totalitaria, della società dall’alto , porti inevitabilmente all’emergere dei peggiori , cioè di coloro che si distinguono per la mancanza di scrupoli nel compiere atti riprovevoli se non efferati. Rimane in sospeso l’interrogativo però se tale autoritarismo sia possibile e imputabile solo a capi e burocrati di Stato, e non anche a potenti mandatari di potentati e oligarchie economiche, capaci di costituire un regime altrettanto ideologico o fideistico, oppressivo e crudele, un tema al centro della nostra riflessione.
Ammonisce Hayek sul non credere che l’abolizione della libertà individuale in campo economico non pregiudichi anche le altre libertà individuali. In realtà non esistono dei fini puramente economici staccati dalle altre finalità della vita, perché chi controlla l’intera attività economica controlla i mezzi per tutti i fini, e può quindi decidere quali possono essere soddisfatti e quali no. Ma se ci troviamo di fronte a un unico monopolista dell’economia noi saremo alla sua mercè. Un’ autorità che diriga tutta l’attività economica sarebbe il monopolista più potente che si possa immaginare. Questa autorità potrebbe ad es. decidere di affamare fino alla morte degli individui, delle categorie sociali o degli interi gruppi etnici semplicemente negandogli l’assegnazione del cibo.
Scaltramente , in una prospettiva di «dialettica hegeliana», si potrebbe accogliere questa stessa critica alla tesi, in questo caso l’elogio dell’intervento pianificatore dello Stato in economia, una critica che sottintende l’assunto dell’affermazione assoluta dell’economia privata di mercato, facendo però di questa antitesi una possibile implicazione della tesi e che come tale confuta e supera sè stessa in una sintesi ulteriore tra tesi e antitesi. Detto in altri termini, se Hayek vede come pericolo massimo per l’economia l’affermazione di una concentrazione monopolistica di potere e denaro in una sola mano, questo pericolo però si può manifestare sotto forme cangianti, non solo da parte del potere statale , ma anche da parte di cricche oligarchiche o monopolistiche dei magnati della grande finanza o delle corporations.
Effettivamente è di questa natura il pericolo che ci minaccia e ci opprime in maniera pressante oggi, nel ventunesimo secolo.
La tragedia che tratteggia e paventa Hayek in questi passi del suo saggio, secondo lui potrà essere evitata solo in una società basata sulla proprietà privata e sull’economia competitiva di mercato. In questa concezione il capitalismo è la garanzia, non solo per i proprietari dei mezzi e dei rapporti di produzione, ma anche per coloro che non hanno proprietà, che la suddivisione tra tanti della proprietà privata medesima, spezzettando il dominio e il controllo ad essa relativo, con l’affermazione dell’indipendenza di ognuno da tutti gli altri, che non esisterà nessun potere completo sugli individui, salvaguardandone la libertà di pensiero , giudizio e azione.
Secondo Hayek qualsiasi multimilionario o miliardario capitalista ha sugli individui di una determinata società un potere infinitamente inferiore a quello di un funzionario socialista di basso rango , il quale dispone del potere coercitivo dello Stato , e che può a sua discrezione decidere come lavorerò o vivrò. In una società basata sulla competizione del mercato nessuno in nessuna misura, può comandare sugli individui come è in grado di farlo un comitato socialista per la programmazione.
Per l’economista austriaco non ci sono che due alternative: o un ordine governato dalla disciplina impersonale del mercato, o un ordine diretto dalla volontà di pochi individui. Coloro che mirano a distruggere il primo, afferma l’economista austriaco, contribuiscono, volontariamente o involontariamente, a creare il secondo.
Se Hayek aspira sinceramente a una società in cui non esista un potere completo sugli individui da parte di pochi, in cui venga salvaguardata la libertà di pensiero, giudizio e azione di ogni individuo, è però dubbio che tale compito possa essere affidato al capitalismo della proprietà privata e dell’economia di «libero mercato». L’inganno è nell’uso ambiguo dei termini: diritto alla libertà individuale, alla proprietà privata, alla libertà di impresa e commercio, non è esattamente la stessa cosa del diritto alla libertà di pochi individui rispetto ai molti, alla grande proprietà privata rispetto alla piccola, alla libertà di dominio monopolistico o oligopolistico su grandi quote del fare impresa e del commercio rispetto al piccolo commercio, etc.
L’affermazione di Hayek secondo cui nessun miliardario capitalista può detenere neanche una frazione del potere coercitivo di un qualsiasi funzionario socialista dello Stato, alle menti più accorte e critiche sarebbe suonato stonato già allora , se semplicemente si poneva mente al fatto che le grandi banche d’affari speculativi e le grandi corporations erano state in grado di determinare la catastrofe economica , sociale e politica del 1929. Oggi questa affermazione suonerebbe più che come stonatura come una dichiarazione bizzarra e ridicola se la confrontassimo con lo strapotere economico, sociale e politico dei potentati economici manifesto agli occhi di tutti.
Nel volgere verso la fine della sua narrazione sulla via della liberazione dell’individuo e dell’economia , la via opposta a La via della schiavitù appunto, Von Hayek è obbligato a sviluppare alcune considerazioni su quali possano o debbano essere i rapporti tra il libero individuo e le istituzioni sociali e politiche. Avendo già espresso quale è l’idea del rapporto che vi deve essere tra individuo e società , individuo e Stato , Hayek affronta ora il tema della possibilità che vengano costituite istituzioni politiche sovrastatali , sovranazionali , istituzioni decisionali internazionali. Secondo lui lo spettro dello Stato centralizzato e pianificatore si ripresenterebbe ingigantito se tale modello fosse applicato a una dimensione sovrastatale, sovranazionale. Tale idea si potrebbe realizzare solo con il nudo uso della forza.
Tale entità o autorità internazionale ( storicamente potremmo pensare ad esempi costituitisi a poca distanza di anni, quali l’Onu,o più in là nel tempo, quale l’Unione Europea) se mai fosse stata istituita , non avrebbe dovuto inglobare i poteri assunti dagli Stati in tempi recenti ma al massimo quel minimo di poteri necessari a mantenere relazioni di pace, e cioè «essenzialmente i poteri dello Stato ultraliberale del laissez faire». Secondo Hayek l’idea del diritto internazionale può incarnarsi solo in un modello federale.
In questo contesto Hayek assume come ideali la costituzione politica di piccoli stati quali la Svizzera e l’Olanda. Osserva Hayek che si trova maggiore bellezza e decoro nella vita di piccoli Paesi , mentre analoga serenità o financo felicità la si può riscontrare nei grandi popoli solo nel caso in cui quest’ultimi siano riusciti ad evitare l’infezione mortale della centralizzazione. ( che il modello «rousseiano » della piccola comunità democratica possa essere trasferito a Stati di medie o grandi dimensioni appare come una visione chimerica, sganciata dalla possibilità e realtà dei fatti, ndr.)
Una legittima aspirazione di filosofia politica sarebbe dunque secondo l’economista austriaco il creare un mondo su misura dei piccoli Stati per viverci. «Il principio guida, che una politica di libertà per l’individuo è la sola politica veramente progressista rimane vero oggi quanto lo era nel secolo diciannovesimo».
Questa affermazione può essere assunta a suggello dell”intero saggio di Von Hayek, in tutta la sua genericità e ambiguità. Il contrappunto costante che abbiamo presentato alle sue tesi sul cammino dell’individuo nella storia dell’occidente , è servito a evidenziare il carattere mitologico e non scientifico della sua narrazione. A ulteriore riprova di ciò emerge chiaramente un salto logico , una mancata spiegazione e deduzione degli esiti negativi di tale cammino della modernità.
Se veramente il successo del liberalismo andò al di là dei sogni più temerari, come è potuto accadere che queste «magnifiche e progressive sorti della civiltà liberale » si volgessero nel loro contrario, nell’esito catastrofico dell’epoca delle guerre mondiali, della Grande Depressione economica del 1929 e della nascita e affermazione dei totalitarismi politici? E a maggior ragione , e per ciò che più ci interessa, è credibile una tale narrazione oggi , alla luce del volto che ha assunto il regime in vigore del neoliberismo, regime a cui quella narrazione mitologica ha dato un contributo importante a livello dottrinario e pratico?
Come risposta provvisoria e a chiusura della nostra riflessione possiamo evidenziare come, nella sua ricostruzione del processo della modernità, Hayek ignora totalmente il lato oscuro, dialettico o contraddittorio di tale processo, quello che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, avrebbero chiamato Dialettica dell’Illuminismo , titolo di un loro celebre saggio pubblicato all’incirca in quegli stessi anni quaranta del novecento.
Su cosa i due autori intendessero per tale lato oscuro, come cifra propria del cammino di civiltà dell’uomo occidentale fin dai suoi primordi, un cammino che porta costantemente con sè questo lato d’ombra, questa oscurità potenzialmente distruttiva, dovremo soffermarci nel prossimo capitolo.
Nel fare ciò ci lasceremo guidare dalle analisi degli autori che hanno ispirato l’opera Dialettica dell’illuminismo, autori che hanno accompagnato l’evoluzione di quel processo della modernità , cercando di trarne argomenti rigorosamente filosofici o scientifici e previsioni plausibili sugli esiti di quel processo, autori quali Hegel, Marx e Weber.
BIBLIOGRAFIA:
FRIEDRICH VON HAYEK :
LA VIA DELLA SCHIAVITU’, Edizioni Rubettino.
LEGGE, LEGISLAZIONE E LIBERTA’. CRITICA DELL’ECONOMIA
PIANIFICATA,Ed. Il Saggiatore .
PLATONE:
DIALOGHI , Ed. Rusconi
ARISTOTELE:
ETICA NICOMACHEA, Ed .Bompiani
POLITICA, Ed. Economica Laterza.
AGOSTINO D’IPPONA:
LE CONFESSIONI, Ed. Rizzoli.
LA CITTA’ DI DIO , Ed. Citta’ Nuova
THOMAS HOBBES:
DE CIVE ; ed. Associate
MAX HORKHEIMER ,THEODOR W. ADORNO:
DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO, Ed. Einaudi.