Autore originale del testo: Alfredo Morganti
L’onda lunga della rottamazione
Qualche anno fa Renzi lanciò un siluro contro la sinistra (e contro il partito che pur dirigeva), che lui stesso definì “rottamazione”. Il termine significava che il “vecchio” andava messo da parte (anche esercitando una certa violenza morale, tipo “fuori fuori”) e che, al suo posto, invece doveva emergere il “nuovo”. Tra i “vecchi” c’erano per primi alcuni dirigenti “storici” del partito e della sinistra, che andavano politicamente (e moralmente) abbattuti, per far posto a una consorteria di persone definita dalla stampa “giglio magico” (nonché ad alcuni alleati di comodo). Dopo aver fatto disastri e infangato la dignità del suo stesso partito, Renzi mollò la preda, per fondare un’altra creatura, il cui fine restava però lo stesso: colpire la sinistra e quel che ne restava.
Quando Renzi uscì dal PD, alcuni dissero che finalmente il renzismo aveva lasciato il partito (alcuni di costoro erano gli stessi che lo avevano considerato una risorsa e lo avevano esaltato come un “vincente”). Non era così, ovviamente, non solo perché molti renziani restarono nel PD a presidiarlo (facendo sempre i renziani), ma anche perché il virus renziano era rimasto conficcato nel corpo politico del partito e continuava a minacciarlo.
Oggi capiamo meglio cosa significò davvero la rottamazione come teoria e come prassi: non fu solo un attacco ai dirigenti storici, ma un attacco generale alla sinistra e all’idea stessa di sinistra, i cui effetti e la cui onda lunga ancora oggi investono il PD. Pensate agli ultimi mesi, alla folle campagna elettorale, all’idea che il nemico sia Conte e non Calenda (e appunto Renzi), a quello che sta accadendo nel Lazio, alla subalternità allo stesso Calenda, all’immagine attuale, sconfortante, del PD, alla costituente che sembra una barzelletta. E allora viene più chiaro a mente cosa fosse davvero la “rottamazione”: certo, uno svergognato attacco ad alcuni dirigenti del partito e della sinistra; certo, l’idea di prendersi il partito con le buone o con le cattive; certo, la presunzione infinita del bimbo bello fiorentino di accaparrarsi l’ultimo lembo della tradizione di sinistra italiana e offrirlo come preda alla destra.
In realtà, più di tutto, la rottamazione fu una specie di sisma politico impegnato a distruggere nel tempo la possibilità stessa di un partito della sinistra in Italia. E così è stato. Oggi il PD è un partito rottamato, che esibisce congressi senza senso, che si appresta a finire nelle mani di un dirigente politico che, in altre circostanze, sarebbe stato un notabile locale e nemmeno tanto. La sua avversaria è una ragazza che sarebbe stata un’ottima segretaria della FGCI, ma, allo stato attuale, poc’altro (con tutto il rispetto). La rottamazione è partita come un diesel: piano piano, ma poi ha progressivamente avvelenato quel che restava del PD, peraltro già nato sotto cattive stelle, veltronianamente sbiadite, come una specie di mix casuale piuttosto che un soggetto dotato di una identità plausibile. Oggi vediamo gli effetti di un’onda lunga rottamatoria nata una decina di anni fa, e che si è scagliata con forza sul corpo politico di uno strano partito, né carne né pesce, e forse nemmeno verdura.