Il museo etnografico di San Pietroburgo e il popolo aleutino: un’altra storia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Francesco M. Bonicelli Verrina

di Francesco Bonicelli Verrina

Situato alle spalle della statua di Pushkin in ploschad Iskusstv, non lontano dalla famosa Nevskij prospekt, il Museo Etnografico di San Pietroburgo, un colorato labirinto in sontuose stanze aristocratiche distribuite su due piani spaziosi, è situato non a caso in un imponente edificio neoclassico adiacente all’enorme Museo Russo: contenente le magnifiche opere di Repin, Vasnetsov, Aysasovsky, Malevic, Goncharova. Alcune di esse narrano l’epopea di Jermak (mandato da Ivan il Terribile a fine Cinquecento) e dei suoi successori, dei pionieri che secolo dopo secolo penetrarono e conquistarono la sterminata regione della Siberia, fino all’arrivo del danese Bering al Pacifico. Tutto era iniziato per proteggere le terre dei magnati di confine dalle parti del Volga.

Il vicino Museo Etnografico racconta, pur avvertendosi ancora un certo retaggio sovietico, la storia di quel mosaico che è la nazione più estesa del mondo, racconta quei 150 popoli che cosituiscono la trama più nascosta della Russia, lontana dall’europea San Pietroburgo, ove possono risiedere solo proprietari di una casa in città e con un minimo stipendio. Ma anche qui, in quella che è la porta della Russia sull’Occidente, si notano ovunque volti lontani dallo stereotipo russo, facce kirghise, kazake, georgiane, che tradiscono origini esotiche ben lontane da Bruxelles o Berlino. Di solito si vedono a servire dietro il banco di un fast-food o a pulire i fossi e le strade, non hanno l’aria di sentirsi parte di quel tessuto e probabilmente il sangue li richiama altrove.

Il primo istituto di cultura materiale fu fondato da Lenin a Mosca dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il Museo Etnografico ne è decisamente figlio. In esso quel mosaico etnico sembra qualcosa di assolutamente armonico e ben costruito, non appare come un’accozzaglia di stravaganti collezioni coloniali europee d’epoca imperialistica; qui sono ricostruite fedelmente le abitazioni a misura naturale, con manichini riprodotti fedelmente nel soma, intenti, nei più diversi abiti o costumi a praticare i più disparati usi tradizionali: vengono ritratti i popoli dal Baltico al Volga, fino alla Kamchatka. Troviamo i lituani, accanto ai komi, gli udmurti, fino ad arrivare ai ciukci. Sembra, come nelle parole del Commissario alle Nazionalità del 1917, un certo Iosip Vessarionovic Dzugasvili, detto Stalin, che la Bandiera Rossa sia davvero diventata il manto protettivo di tutti gli oppressi del regime zarista, per primi appunto i minoritari, fossero essi minoranze etniche, linguistiche, religiose. In realtà si può dire che la repressione sovietica, con alti e bassi, fu tendenzialmente intransigente (se non feroce come in Caucaso e in Bielorussia), soprattutto verso “superstizioni”, quali lo sciamanesimo nel caso siberiano (molti popoli della Siberia nordorientale chiamano lo sciamano “uomo-medicina”, come fanno i Nativi nordamericani). Oggi il regime putiniano non si distingue per tratti più morbidi, se non a parole, ed anzi la rappresentatività delle nazionalità è sempre più ridotta all’osso, per capire quest’atteggiamento senz’altro deprecabile basti però d’altra parte ricordare il disordine degli anni eltsiniani, il cui potere oligarchico fu proprio fondato sul proverbiale divide et impera del Presidente morto ormai quasi un decennio fa.

Lo sciamanesimo persiste intorno al lago Bajkal, dove il Barone von Ungern-Sternberg resistette per un paio d’anni ai rivoluzionari, dopo la Grande Guerra. Nei suoi pressi convive un’altra rappresentanza minoritaria, infatti la città di Birobidzan fu la destinazione degli ebrei ucraini spediti in quest’angolo di Asia remota da Stalin, negli anni ’30, prima della Seconda Guerra Mondiale. Simile sorte ebbero lituani e tedeschi, sparsi in colonie in giro per l’Asia.

Le denigrate “superstizioni” non solo sopravvissero ma furono spesso inconsapevolmente rafforzate durante gli anni sovietici, perché lo sciamano non è un mestiere ma una missione indicata dal dio, che non si può rifiutare di seguire. Non mancano tuttavia, con la contaminazione commerciale del mondo consumista, sciamani prezzolati, talvolta nemmeno indigeni.

L’idea staliniana era sostanzialmente quella di eliminare i capi potenzialmente pericolosi politicamente, gli eventuali intellettuali, ma rinforzare attraverso musei e istituti la conservazione superficiale e svuotata di usi e costumi, mantenendo, di facciata, fede alle istanze rivoluzionarie, di fatto comunque contribuendo allo studio della cultura materiale di quei popoli, così come accadde nei confronti delle minoranze, in quasi tutti gli altri paesi del Patto di Varsavia; fece eccezione la Polonia, troppo esacerbata nel suo odio antitedesco per garantire qualunque garanzia alla minoranza tedesca, che, va detto, fu spesso vittima di sfruttamento lavorativo nelle industrie polacche.

Gli eveni, i nenci, i tuvani, i jukaghiri (la cui lingua è in via d’estinzione), i ciukci, gli ostiachi, sono i principali popoli compresi fra il Bajkal e il Mare del Nord, comprendenti numerosi sottogruppi. I ciukci, allevatori di cani husky e renne, i più orientali, furono coloro che fecero l’impresa, tredicimila anni fa, attraversando lo stretto di Bering e da allora in guerra con i loro discendenti aleuti. Tutti costoro possiedono l’uso della tenda conica di pelli e dei mocassini, simili se non identici i motivi e i disegni, alcuni sono nomadi, altri semi-nomadi, le loro lingue non godono di buona salute, le loro terre sono spesso state inquinate senza alcun rispetto e vittime di esperimenti atomici nell’era chruscioviana, hanno motivi simili a quelli dei Nativi nordamericani nelle loro preghiere, nelle loro epopee orali, nei loro riti per cantare e ascoltare la natura e la terra, prima della caccia o in occasione di altre importanti attività sociali. Praticano il culto dell’Orso o di altri animali totem.

Verso la Kamchatka fu il viaggio del conte Maurice Benjowsky, uno dei leader dei confederati polacchi in guerra contro Caterina II per l’indipendenza, deportato in quella lontana regione nel 1768. Lì fondò una repubblica di detenuti costituita segretamente con il solo scopo di organizzare una fuga (come da costituzione riportata nelle memorie del conte), egli nel frattempo fece innamorare la figlia del capitano della colonia penale. La fuga avvenne via Macao e il Benjowsky, gia appassionatosi ai ciukci, giunto in Madagascar, eletto re dei re dai malgasci, pianificò un’invasione dell’India, a vantaggio della Rivoluzione Americana, nella quale vantava un’amicizia con Franklin, e dove rimase in realtà subito sconfitto dai francesi in difesa della loro colonia. Nella lontana penisola di Kamchatka, abitata dai ciukci, i russi erano arrivati secoli prima, anzi i cosacchi: preannunciati dal folklore locale come guerrieri su navi alate, guidati da un gigante, preceduti da frecce di fuoco scagliate da misteriosi archi argentati. Suggestive le somiglianze con i corrispettivi nordamericani. Anch’essi vengono conquistati con vodka, fucili, malattie e perline.

L’Alaska, raggiunta negli anni ’60 del Settecento, da intrepridi avventurieri, cacciatori e diseredati d’ogni sorta, fu teatro di un’atroce e quanto mai avida conquista, benchè poco narrata. Gli aleuti che subito accolgono benevolmente gli stranieri, analogamente a quanto fatto dagli abitanti delle coste atlantiche con inglesi, francesi e spagnoli, non vengono ripagati della stessa moneta, in pochissimi casi riusciranno a ribellarsi. I russi costruiscono chiese ortodosse, dove i nativi vengono battezzati in cambio di pellicce o giustiziati, alcuni accolgono l’aquila bicipite imperiale come un simbolo divino degno di adorazione. I pope russi, come al solito al servizio del potere, insegnano il russo e predicano la figura del cacciatore di pellicce come uomo di Dio, contribuendo così a un commercio che in pochi anni comporta l’estinzione di centinaia di specie, superando in questo forse inglesi e francesi, a tutto vantaggio delle lontane e francofone dame di San Pietroburgo.

Gli aleuti accettano nella maggior parte dei casi la loro sorte docilmente. Gli uomini vengono strappati alla loro gente per lunghe e lontane battute di caccia per i russi, imparano a scuoiare gli animali all’uso europeo e acquisiscono sempre più l’idea del leader cacciatore, i russi e anche i preti instillano fra loro una vera e propria gara ed essi acquisiscono l’idea del possesso, ognuno inventa una sua firma, un marchio per segnare le pelli da lui procacciate, senza possibilità di confusione, in cambio del suo equo premio in vodka. Ma nelle memorie di alcuni preti viene esplicitato che mai si sono trovati ad avere a che fare con aleuti assassini durante la loro missione. Ognuno riceve un nome russo, l’uso di dare il patronimico ai figli, nella progressiva costruzione di una società patriarcale in una declinazione cristiano-ortodossa aliena ai popoli Nativi. L’Alaska diventa per i piccoli nobili una fantastica occasione per arricchirsi e avanzare nei ranghi, ormai corrotti all’epoca dell’emancipata nobiltà cateriniana (non più nobile-servo). Uno dei primi è il famoso arrivista Shelichov, una sorta di Drake settecentesco e russo che conquista il cuore di Caterina.

Nel 1804 avviene in questo grande slancio conquistatore la prima circumnavigazione russa del globo, a bordo della nave Neva, omonima del fiume di San Pietroburgo sul quale Aleksandr Nevskij aveva sconfitto gli svedesi nel 1240. Alla navigazione prende parte anche von Chamisso, il fuggiasco controrivoluzionario francese, autore del Peter Schlemil, racconto ritratto dell’avventuriero esploratore settecentesco, dannato dalla ricerca senza fine della sua ombra.

Finito lo slancio americano, con un progressivo interesse per la Cina, i russi abbandonano e vendono un’Alaska ormai ridotta allo stremo agli stautnitensi nel 1867. Sono ancora lontani gli anni dello sfruttamento folle dei giacimenti petroliferi, che saranno un’altra nuova battaglia per gli aleuti, per la difesa del loro paesaggio e del loro pesce.

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Bibliografia:

 mie impressioni personali, riflessioni e associazioni mentali, tratte dalla visita al museo, appuntate nel taccuino,

riferimenti a J. Semionov, Storia della Siberia, Bologna 2010; K. Reedy-Maschner, Aleut Identities, London 2010, articolo tratto dal n°205 di Meridiani, Milano febbraio 2012: “Il grande mosaico” di Enrico Martino.

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