Nell’Abi … sso dell’ipocrisia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Anna Lombroso
Fonte: il Simplicissimus
Url fonte: https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2016/01/02/nellabi-sso-dellipocrisia/

di Anna Lombroso per il Simplicissimus  2 gennaio 2015

C’è un film del quale imporrei la visione, come  un cinepanettone pedagogico, alla compagine governativa, a Confindustria, all’Abi che sfrontatamente invia il 31 dicembre una lettera aperta agli italiani, quell’Abi che ha visto consumarsi, a sua insaputa?  le nefandezze della Banca popolare di Vicenza, di Banca Etruria, di Banca Marche e che ciononostante scrive senza vergogna che “dopo sette anni di dura crisi, l’Italia incomincia a rivedere la luce. La ripresa va alimentata. Lo stanno facendo anche le banche italiane, di ogni dimensione e forma giuridica, sane, solide e affidabili che garantiscono risparmiatori e investitoriresponsabili”, si, proprio così, a dire che la responsabilità è un dovere che spetta alla clientela mentre è un optional largamente trascurato da dirigenza, management e organi di controllo. E che continua, con proterva sfacciataggine e punteggiando il testo di maiuscole, ricordando come anche i ricchi piangano: “le Banche sono imprese che, nella generalità dei casi, PAGANO le crisi e il mancato rimborso dei prestiti e continuano a fare credito a imprese e famiglie. Il riassetto di 4 banche, da tempo in difficoltà, ha creato dolorose ripercussioni anche su una parte minoritaria degli investitori, mentre lo stesso mondo bancario, DA SOLO, con senso di responsabilità ha sostenuto, con un esborso di oltre 2 miliardi di euro, la rinascita delle 4 banche, il risparmio dei depositanti e migliaia di posti di lavoro”.

Si, li vorrei vedere Renzi, Madia, Boschi, Guidi, Poletti, e poi Padoan, Visco, Patuelli e perché no? Anche quelli prima di loro, a caso, Tremonti, Mussari, Monti, Fornero e chi più ne ha più ne metta, polsi e caviglie costretti nei fori umilianti di una gogna, obbligati ad assistere alla proiezione di un film povero, modesto, autoprodotto da regista e attore protagonista, che si chiama in Francia, dove è stato realizzato, La Loi du marchée,  La legge del mercato, e nel circuito internazionale, dove c’è da immaginare abbia circolato con scarso successo, A simple man, un uomo semplice.

Ma forse sarebbe stato meglio chiamarlo un uomo qualunque, perché è la storia di uno di noi, di come possiamo diventare da un giorno all’altro, di quello che magari ci è già successo o che può accadere ai nostri amici, ai nostri figli, al vicino di pianerottolo che non vediamo più in ascensore, perché ha venduto la casa, o gli è stata sequestrata da uno di quei solerti istituti di credito, o semplicemente perché cammina rasentando i muri per la vergogna della povertà.

Infatti La legge del mercato racconta di uno di noi, uno che ha perso il lavoro  dopo 25 anni perché la sua fabbrica ha “delocalizzato”, con un figlio affetto da un grave handicap, ma che ciononostante nutre un arduo e ambizioso progetto di vita, e che affronta quotidianamente un percorso impervio e mortificante per restare a galla, per non essere relegato nella marginalità: giornaliera tappa al collocamento,  corsi di formazione, curricula a pioggia, cui qualche figlio di cane risponde via Skype per non avere il fastidio di incontrarlo di persona e infarcendo il colloquio di supponenti istruzioni perché si renda gradito a eventuali datori di lavoro. Che poi sono i suggerimenti che riceve da schifiltosi utenti di un master delle risorse umane, di un ossimoro quindi, che criticano il suo atteggiamento poco rassicurante e quindi sfavorevole alla soddisfazione delle esigenze delle imprese e del mercato.

Come una cavia nella gabbietta, costretta ad arrampicarsi giorno e  notte sulle scalette o a dondolarsi sulle corde per avvicinarsi alla scodellina del mangime, sopporta instancabile i melliflui consigli della bancaria che lo sollecita a svendere la casa, a “investire” in un’assicurazione sulla vita: “non si sa mai”, e la trattativa aggressiva e arrogante con i compratori del suo chalet prefabbricato senza vista mare, che hanno capito le sue difficoltà.

Resiste, in una vita senza quiete e senza sorriso, alle minacce che arrivano da ogni parte: l’auto che si ferma in mezzo alla strada, le rate da pagare, l’erosione inarrestabile dei magri risparmi, le tentazioni dei vecchi colleghi che si cullano nell’illusione di una causa contro i proprietari della fabbrica, il preside della Buona Scuola del figlio che recita la litania della competitività, dell’ambizione, dello spirito di iniziativa necessari a vincere le sfide, appunto, del mercato del lavoro.

Resiste a tutto, ma non all’orribile dilemma morale che gli si impone quando va a fare il vigilante in un supermercato dove vecchietti “incapienti”  si mettono in tasca le confezioni della carne e i dipendenti approfittano dei punti della tessera fedeltà della clientela, per bisogno, per fame, per miseria nuova e inattesa, per la perdita di tutto, dai beni alla dignità, fino al suicidio di una cassiera “infedele” sorpresa in flagranza di “reato”.

Si, mi piacerebbe obbligarli alla visione di questa operetta sulla vita grama della gente normale che non è appagata dell’appartenenza a una civiltà superiore, che è talmente demoralizzata da non distinguere più tra   etica, legalità, opportunità, principi sconvolti dal bisogno sì,  ma soprattutto dall’arbitrarietà cui li hanno assoggettati gli imperativi del profitto, dell’avidità, dello sfruttamento, quelli che hanno retrocesso i diritti alla condizione di elargizione, le garanzie a precarie concessioni. Ma è improbabile che ne sarebbero “toccati”: la loro distanza è tale che penserebbero a una produzione del filone fantasy, a una di quelle pallose pellicole dell’Est comunista, magari bulgare con sottotitoli in polacco, quelle della propaganda anticapitalistica. Sicuramente irriderebbero alla scelta di dignità del protagonista che lascia il “posto sicuro”, per non sottostare alle “leggi del mercato”, le uniche cui sono inclini ad ubbidire: si tratta di uno sfigato, certamente, uno che si merita gli stenti di una esistenza mediocre e avvilente. Proprio come ce la meritiamo noi, che non facciamo parte della loro élite, della scrematura maligna e avvelenata dall’ambizione, dall’avidità, dalla prepotenza e al tempo stesso dall’inclinazione all’ubbidienza, al conformismo, alla comoda disonestà di un popolo che ha dimenticato che c’è una possibilità di riscatto. Difficile, ardua, costosa, ma c’è e l’abbiamo a portata di mano, noi gente semplice.

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