Ma non diamo la colpa a Mastella

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora...
Url fonte: http://www.ipensieridiprotagora.com/2017/09/verba-volant-432-episodio.html

di Luca Billi, 14 settembre 2017

Hanno deciso gli episodi. Parlando di calcio è una frase che ripetiamo spesso, facendo intendere che se non fosse stato per quel pallone che al 90° è finito casualmente alle spalle del nostro portiere, lasciando incredulo prima di tutto il fortunato autore del gol, la nostra squadra avrebbe vinto quella partita, e magari il campionato, e poi la Champions, e così via, ad libitum. A essere onesti, nel calcio – come nella vita – gli episodi contano, ma non è sempre colpa del destino, proverbialmente cinico e baro. Alla lunga le differenze emergono e se una squadra è più forte, alla fine riuscirà a vincere il campionato; anche se ha perso quella partita, per quell’episodio.
Lo stesso ragionamento vale per la politica. In questi giorni i giornali hanno pubblicato la notizia dell’assoluzione in primo grado di Clemente Mastella nel processo seguito all’inchiesta cominciata nove anni fa, in cui si contestava al politico campano e a sua moglie di aver fatto pressione per favorire le nomine di alcuni loro sodali nel sistema sanitario di quella regione. Tutti gli organi di informazione ricordano che quell’episodio determinò la caduta del secondo governo Prodi, dal momento che allora Mastella era ministro della giustizia. Come ricorderete, nel giro di alcune settimane quelle dimissioni portarono al passaggio all’opposizione dell’Udeur e di conseguenza al voto di sfiducia al senato e infine alle elezioni anticipate, vinte da Berlusconi.

Credo che gioverebbe ripensare con un po’ più di distacco a quegli anni e riconoscere serenamente che quel governo non è caduto per colpa delle dimissioni di Mastella o del voto contrario di una pattuglia piuttosto eterogenea, dall’ultraliberista Dini al comunista Turigliatto, passando per l’ineffabile De Gregorio, tutti eletti nelle fila del centrosinistra, eppure determinanti per la sfiducia all’esecutivo. In particolare Sergio De Gregorio venne accusato di aver venduto il proprio voto a Berlusconi, grazie all’intermediazione di Lavitola. Non so se la storia sia vera – è comunque verosimile – ma anche questo episodio è poco importante: in fondo avevamo “comprato” prima noi il rotondetto giornalista napoletano, insieme ai suoi voti e alle sue clientele, candidandolo al senato. Pur di vincere non guardavamo troppo per il sottile.
Come dobbiamo ammettere quando la nostra squadra del cuore gioca male – senza dare la colpa agli episodi – così noi che abbiamo votato e sostenuto strenuamente quel governo dobbiamo dire che non è caduto per questi accidenti, ma per la propria debolezza politica.
In quel governo c’era di tutto – e non a caso, con i suoi 103 membri, è stato il più “corposo” della storia repubblicana – c’erano i comunisti di Rifondazione e c’erano esponenti della destra, da Mastella a Dini, che erano già stati al governo con Berlusconi. E già questo avrebbe dovuto farci temere sulla sua tenuta. Ma soprattutto fu un governo che fece sostanzialmente politiche di destra, perché i provvedimenti chiave di quell’esecutivo furono le privatizzazioni volute da Padoa Schioppa e le liberalizzazioni di Bersani.
Quel governo rappresenta in maniera emblematica quello che eravamo diventati nel corso di un lungo processo, cominciato ovviamente molti anni prima e di cui non eravamo consapevoli, mentre lo vivevamo. Non vedevamo, o forse non volevamo vedere. Ci eravamo trasformati, eravamo diventati una cosa altra rispetto ai valori che pure dicevamo ancora di sostenere. Credevamo che la sinistra potesse governare questo paese solo facendo politiche di destra, che ci sembravano più moderne, anzi le uniche in grado di governare la complessità del mondo globalizzato. Dicevamo che il privato funzionava meglio del pubblico e quindi facevamo gestire i servizi ai privati, permettendo a questi di guadagnare molto, senza diminuire la spesa pubblica, dicevamo che le norme sul lavoro penalizzavano troppo le imprese e quindi inventammo nuovi strumenti per rendere il lavoro meno costoso, e più precario, dicevamo che solo il capitalismo globalizzato avrebbe portato lo sviluppo, insomma dicevamo e facevamo cose di destra.
Certo eravamo uniti – e Unione si chiamava il nostro schieramento – e così quello fu l’unico governo con la partecipazione e sostenuto dall’intera sinistra parlamentare: non succedeva dal 1947, dal terzo governo De Gasperi. Ma scoprimmo che mettere la pur legittima esigenza di stare uniti – quello che la “nostra gente” ci chiedeva in ogni occasione – davanti a ogni altra cosa fu esiziale.
Comunque sarebbe onesto riconoscere da parte dei protagonisti di quegli anni che non fu un caso che dall’agonia di quella maggioranza in quegli stessi mesi nacque il pd. Al di là delle ambizioni personali e dell’ostilità che Romano Prodi raccoglieva – peraltro ricambiandole con la sua consueta vendicativa acrimonia – nel suo partito, fu questo il vero motivo politico della caduta del governo, perché al partito a vocazione maggioritaria stava sempre più stretta quella maggioranza e i demiurghi del partito “nuovo” pensavano che da soli avrebbero facilmente vinto le elezioni, non dovendosi più sobbarcare l’onere della competition tra ex-Ds ed ex-Margherita.
Ricordare quegli anni non è un esercizio ozioso, visto che adesso una parte delle persone protagoniste di quella stagione ha deciso di ricominciare a giocare, con l’ambizioso programma di ricostruire la sinistra in Italia. Ovviamente è legittimo che tentino l’impresa, ma è curioso come vogliano riproporre la stessa squadra e soprattutto le stesse tattiche di gioco: si fanno chiamare Insieme e non Unione, ma siamo ancora lì. Evidentemente pensano che allora la partita sia stata determinata dagli episodi, da quel tiro rocambolesco da fuori area. No, allora abbiamo perso perché potevamo solo perdere. E chi si ostina a giocare allo stesso modo è destinato a perdere, anche se continuerà a dare la colpa agli episodi.
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