Parlamento della repubblica italiana: uno e trino

per domenico argondizzo
Fonte: Fondazione Etica
Url fonte: http://www.fondazionetica.it/blog/2014/01/10/parlamento-uno-e-trino/

INDICE: Sul metodo; Introduzione; 1. Identità delle Camere? 2. Indirizzo legislativo, indirizzo di governo, indirizzo politico; 3. Una, due, tre Camere parlamentari; 4. Elezione separata delle due Camere, diverso numero dei loro membri?; Riferimenti bibliografici

 Sul metodo

 Prevengo il lettore ricercato che desideri riscontrare in quanto segue un dovuto rigore scientifico sia negli aspetti formali che in quelli sostanziali.

Per il primo profilo (forma), debbo subito avvertire che, volendosi provare a presentare qualcosa di interessante e di diverso dalla vulgata sulla Costituente, ci si è dovuti poggiare su basamenti solidi, quali gli atti della stessa Assemblea (anche carte archivistiche non pubblicate), uniche fonti aventi il rango di dirette. Ed esse sono state richiamate con largo uso (forse abuso) delle citazioni testuali, proprio per sostanziare (più che consolidare) quanto si andava via via rilevando e registrando (più che affermando) contemporaneamente allontanandosi dalla vulgata. Sono le stesse dichiarazioni e proposte di alcuni costituenti che sono distanti da quest’ultima, non le interpretazioni (pur presenti) dell’autore. E quindi, per il secondo profilo (sostanza), sta allo stesso lettore la responsabilità di verificare se, ed in che misura, le citazioni e considerazioni che seguono tradiscano (o meno) le fonti.

Il diritto costituzionale e la storia del diritto costituzionale non sono scienze sperimentali; non vi sono perciò i margini per certificare un minor o maggior rigore, usando il metro del rispetto di un supposto rigore scientifico (che va invece correttamente inteso come rispetto delle fonti dirette). Con il falso argomento tecnico, questo sì, vero abuso, il più delle volte si prova a mettere la sordina su tesi scomode, perché non si accordano con la sullodata vulgata, perché non assecondano alcune predilezioni – non necessariamente maggioritarie- di politica costituzionale. Sono pure queste ultime legittime, ma si dovrebbe avere una limpidezza di metodo ed una purezza di spirito tali da non provare a screditare altre e diverse scelte di politica costituzionale semplicemente tratte da una lettura diretta dei lavori che portarono alla Costituzione del 1947.

Per una approfondita valutazione della coerenza, sul piano logico, degli argomenti che seguono rinvio ad un più ampio lavoro (Argondizzo 2013), di cui quello che segue vuole essere un breve cenno.

Introduzione

Dalle carte archivistiche del Ministero per la Costituente (Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato) e dell’Assemblea Costituente si possono trarre prove documentali per le seguenti considerazioni:

  1. Il progetto di Costituzione partorito dai Settantacinque è sostanzialmente debitore dell’esempio norvegese per la modalità di esplicazione della funzione di indirizzo politico, nelle mani dell’Assemblea nazionale, corrispondente al Parlamento in seduta comune (anonimo modello affermatosi apoditticamente in seno alla Commissione ministeriale).
  2. Sono stati presi in seria considerazione elementi tali da introdurre la rigidezza caratteristica della forma di governo statunitense.
  3. Sia in Commissione per la Costituzione che in Assemblea Costituente, si sono susseguiti tentativi di emulare in qualche maniera le modalità di composizione dei contrasti legislativi tra Camere paritarie tipiche dei due paesi. Diversamente, può dirsi che nella Commissione ministeriale fu approfondito soprattutto il sistema di composizione legislativa statunitense.

Tutto ciò fu comunque ufficialmente taciuto (in sede di Commissione ministeriale), e condannato alla damnatio memoriae (in sede di Assemblea Costituente).

Si può, quindi, abbozzare una breve comparazione, liberandosi delle prigioni mentali costituite dalle categorie dottrinali della forma di governo e della forma di Stato, e concentrare l’attenzione su alcuni meccanismi del funzionamento dell’organo parlamentare (sia per superare lo stallo nel procedimento legislativo sia per la costituzione o la rottura del nesso fiduciario) in questi due solidi sistemi bicamerali: 1) quello perfetto (o più che perfetto) degli Stati Uniti d’America (in uno Stato federale con forma di governo presidenziale); 2) quello perfetto (o quasi perfetto) del Regno di Norvegia (in uno Stato unitario regionale con forma di governo parlamentare).

Tale indagine può, con tutta la modestia del caso, contribuire a portare qualche elemento di riflessione per uno sviluppo del nostro impianto istituzionale, che sia in sintonia con la temperie costituente, che guardi alla armonia e razionalità del sistema, e che abbia soprattutto forti e solidi riferimenti comparatistici (storici e metastorici)[1].

1. Identità delle Camere?

Merita appena accennare alle condizioni poste da alcuni membri del Comitato costituito sul tema degli “Organi e funzioni legislative” (nell’ambito della I Sottocommissione in seno alla Commissione ministeriale)[2], per la creazione di una seconda Camera: 1) che essa non costituisca un doppione della prima, e cioè che sia invece costituita in base ad un diverso principio politico, in modo che ciascuna delle due Assemblee possieda una propria precisa individualità; 2) che il principio fondativo della seconda Camera, pur diverso, soddisfi a quelle esigenze democratiche dalle quali non può prescindere alcuno degli organi costituzionali.

Dati questi enunciati, non può stupire quale sia stato l’esito del processo costituente.

Eppure, come appena detto, nei lavori di questa Commissione ministeriale e poi nei lavori della Costituente, l’esempio statunitense e quello norvegese si stagliano decisamente, a smentire il postulato che giustifica una seconda Camera esclusivamente se differente dalla prima. Se, infatti, negli Stati Uniti, le due Camere pari ordinate si eleggono separatamente, ma con analogo sistema di scrutinio dal medesimo corpo elettorale, in Norvegia (così anche in Islanda), il bicameralismo paritario aveva superato del tutto la necessità di una elezione separata (le due Camere formandosi per divisione-elezione all’interno del Parlamento appena costituito). E quando anche si dicesse che il bicameralismo paritario in Norvegia si sia spento nel 2009 (dopo 195 anni) per mancanza di una propria individualità in capo alla seconda Camera, in ragione delle modalità della sua formazione, tale affermazione sarebbe facilmente confutabile. Basterebbe, infatti, osservare che tale mancanza di identità e ruolo politico proprio non erano dovuti al sistema di formazione (peraltro con tale argomento si può criticare egualmente la prima Camera), né alla impossibilità di svolgere lavoro istruttorio in una propria commissione e di porre emendamenti al testo in Aula, bensì alla prevalenza numerica della Camera bassa nella riunione comune; e che, malgrado questo dato procedurale e strutturale, anche negli ultimi decenni, la seconda Camera norvegese è riuscita comunque a svolgere un ruolo attivo (con significativi risultati) su alcuni importanti atti normativi.

Quindi, compare ripetutamente nei lavori precostituenti e costituenti il riferimento alla indimostrabile necessità di giustificare l’esistenza della seconda Camera attraverso la sua differenziazione rispetto alla prima. Ma si possono riportare assai significative confutazioni di tale dogma (a volte provenienti, sorprendentemente, dai suoi stessi sostenitori). Segue un esempio di queste posizioni contraddittorie.

A dieci anni di distanza dall’approvazione del testo costituzionale, Ruini, si espresse nei seguenti termini: «Quanto ai poteri delle due Camere, quasi tutte le Costituzioni che le conservano danno, nel dissenso, prevalenza ad una di esse. La nostra Costituzione, che non ha affrontato tali problemi (si era limitata ad una specie di elezione regionale del Senato che fu, però, svuotata nelle leggi), è un esempio abbastanza raro di due Camere a quasi doppione» (Ruini 1958, 492). Ruini aveva avuto modo di precisare meglio: «Un doppio o un duplicato; quale non vi è, tranne in un solo altro Stato, in Europa» (Ruini, inedito, 53). Ed ancora: «Nella Norvegia il Parlamento, che proviene da una sola elezione popolare, diventa per un suo terzo Camera alta (qualcosa di simile è in Islanda[3]); è il caso di più spinta uniformità della base elettiva e di bicameralità ridotta ad unità d’origine delle due Camere» (Ruini 1952, 66-67).

Invece, appena quattro anni dopo la conclusione dei lavori costituenti, ritrattando anticipatamente le parole del 1958, lo stesso Ruini, diede fondamento, il più cristallino possibile, alle ragioni di due identiche Camere paritetiche: «Il compito di moderazione e di integrazione della seconda Camera è inteso in un senso funzionale che riguarda la legislazione e l’esercizio del controllo. Il riesame e la riflessione si possono esercitare anche da una Camera sola (vi è a tal fine il sistema delle tre letture[4]); ma senza dubbio sono più penetranti ed efficaci quando vi sono due Camere. […] Dal caposaldo della bicameralità non si può dedurre senz’altro come consequenziale di un sillogismo, che le due Camere debbono essere diverse. Anche se fossero eguali, strutturalmente e funzionalmente, non si tratterebbe soltanto di due letture, perché la seconda [lettura] non sarebbe della stessa Camera» (Ruini 1942, 39, 87).

2. Indirizzo legislativo, indirizzo di governo, indirizzo politico

Dall’indagine comparatistica condotta emerge la necessità di mettere in discussione, relativizzandola, la categoria del diritto costituzionale italiano di indirizzo politico, dando per presupposta la distinzione tra organi (Parlamento e Governo) e rispettive funzioni (legislativa ed esecutiva).

Si può assistere, in Norvegia, a seconda delle materie oggetto della legislazione, alla costituzione di differenti maggioranze (si potrebbe parlare di maggioranze variabili nell’indirizzo legislativo)[5]. Ciò è in linea con la forma di governo parlamentare, ancorché razionalizzata, presente in Norvegia. Inoltre, anche tenendo presente che l’organo che determina l’indirizzo legislativo è comunque lo Stortinget, è necessario rilevare come la fissità della sua durata – non esistendo lo scioglimento anticipato[6] – è al contempo la ragione fondamentale della notevole misura delle opposizioni nell’uso delle mozioni di sfiducia[7], favorendo ciò la frequenza dei governi di minoranza[8]. Quindi, già la fissità del Legislativo (a prescindere dal suo funzionamento interno) si rivela essere anche un fattore di stabilizzazione dell’Esecutivo, di sua separazione dal Legislativo, di garanzia di univocità dell’indirizzo di governo nelle sue mani[9]. Situazione di separazione dei poteri non molto dissimile da quella degli Stati Uniti, salvo che mentre lì si assiste alla compresenza di due distinti indirizzi politici (quello governativo e quello parlamentare), in Norvegia l’indirizzo politico è espresso prevalentemente dal Parlamento a Camere riunite, anche attraverso la legislazione, per la – pur residuale ma persistente – funzione di monito del nesso fiduciario.

Siamo qui al primo tassello della rilettura della categoria di indirizzo politico: in una situazione di tendenziale separazione tra Legislativo ed Esecutivo, esso non può ricostruirsi come unitario fondamentalmente perché anche nello svolgimento della normazione secondaria e della funzione amministrativa possono operarsi scelte di rilievo politico. Anche l’indirizzo di governo può assumere una sua coloritura politica.

Tosato, nei suoi vari interventi, mise in evidenza la necessità ed opportunità di superare la visione che del governo parlamentare (o, più specificamente, del governo di gabinetto) si era avuta (e si è continuata ad avere, fino al tempo presente) in Italia: cioè del sistema in cui il Governo – che formalmente ha l’appoggio di una maggioranza parlamentare – amministra e governa in nome e per conto proprio, e legifera in nome del Parlamento ma sempre per conto proprio. Non è questa la sede per indagare le cause di questa errata interpretazione dell’esempio britannico, né le ragioni della diversità di risultati concreti che produce quel sistema quando sia applicato in comunità politiche caratterizzate da frammentato multipartitismo[10].

Tosato affermava come – la cosa accade fisiologicamente nelle democrazie avanzate, presidenziali o parlamentari (non casuali gli esempi statunitense e norvegese) – l’indirizzo di governo e l’indirizzo legislativo possano essere anche differenti; prospettava che, in altre parole, si affermasse che una cosa è governare, altra cosa legiferare.

Nella seduta antimeridiana dell’8 gennaio 1947 della II Sottocommissione-I Sezione (Potere esecutivo)[11], Mortati dichiarò possibile ottenere la stabilizzazione degli esecutivi sia con la durata fissa del Governo sia con la decisione della sola Assemblea plenaria in merito alla persistenza del vincolo fiduciario. Merita sottolineare come Mortati riuscì a richiamare, eguagliandoli, i caratteri distintivi rispettivamente degli esempi statunitense e norvegese, sia per quanto riguarda il mantenimento della stabilità dell’Esecutivo, sia per quanto riguarda la separazione dei poteri (con la conseguente separazione dell’indirizzo legislativo dall’indirizzo di governo, da lui probabilmente non auspicata):

  1. la durata prestabilita dell’Esecutivo per il presidenzialismo statunitense[12];
  2. la seduta comune delle due Camere per il governo parlamentare norvegese (privato della durata prestabilita del Legislativo, ma con – in più – la separazione dell’indirizzo legislativo anche dall’indirizzo politico parlamentare).

E queste furono anche le due proposte che si confrontarono, la prima di Mortati, la seconda di Tosato. Entrambe si muovevano nel quadro del mantenimento della forma di governo parlamentare, tendevano alla stabilizzazione degli esecutivi, ma può evidenziarsi una certa distanza tra le due sul profilo dell’espressione prevalente dell’indirizzo politico.

Con la proposta Mortati si rimaneva, infatti, abbastanza fedeli all’impostazione classica italiana circa il rapporto tra i due poteri, cercando sempre di salvaguardare il punto di vista dell’Esecutivo, che poteva ricorrere all’intervento del Presidente della Repubblica (con i suoi poteri di scioglimento anticipato, di rinvio delle leggi approvate, e con l’eventuale ausilio del referendum confermativo) in funzione di moderatore del Parlamento.

Secondo Tosato, invece, la seduta comune per sanzionare il vincolo fiduciario poteva servire a mantenere l’indirizzo politico prevalente nelle mani del Parlamento. Ipotizzando una comparazione che non fu, o almeno che non fu manifestata, Tosato avrebbe potuto sostenere che tale istituto poteva funzionare anche meglio che in Norvegia. Si deve infatti osservare come la riunione delle due Camere può sortire effetti ancora più decisivi sulla funzionalità dei due poteri (combinando continuità dell’azione di governo e qualità della legislazione), se abbinata alla non necessaria coincidenza tra indirizzo politico parlamentare (in capo appunto alle due Camere riunite) ed indirizzo legislativo (svolto dalle due Camere agenti separatamente): cosa presente nella proposta del Comitato sul Potere esecutivo[13], assente in Norvegia (essendo entrambi gli indirizzi espressi dal Parlamento riunito).

Lasciando da parte l’indirizzo di governo (nelle mani dell’Esecutivo, per via della separazione tra i poteri), non è detto che ci debba essere sempre una coincidenza tra indirizzo legislativo ed indirizzo politico parlamentare (prevalente, dato il quadro di separazione dei poteri entro il governo parlamentare). Anzi può esservi una proficua e continua interazione tra i due. Questo è il secondo tassello della rilettura della categoria di indirizzo politico.

3. Una, due, tre Camere parlamentari

Nella seduta pomeridiana del 7 gennaio 1947 della I Sezione, cominciò la discussione dell’art. 22 proposto dal Comitato sul Potere esecutivo:

«Il Primo ministro ed i ministri debbono godere la fiducia dell’Assemblea nazionale.

Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera [sull’operato del Governo][14] non importa come conseguenza le dimissioni del Governo o del ministro interessato.

Le dimissioni sono obbligatorie solo in seguito ad una espressa e motivata mozione di sfiducia, approvata da parte dell’Assemblea nazionale con la maggioranza assoluta dei suoi membri. La mozione di sfiducia sarà discussa non prima di tre giorni dalla presentazione».

Vanoni dichiarò che se «si ritiene che si debba fare un passo per assicurare al Governo la necessaria stabilità e tentare che esso riproduca l’equilibrio che si è manifestato nelle elezioni del Parlamento, la proposta contenuta nell’articolo deve essere considerata con favore, perché non permette crisi se non per un fatto eccezionale, per una grave disfunzione del meccanismo governativo. […] Funzione del Parlamento è quella di far leggi e funzione del Governo è quella di governare». E ricordò «il sistema della democrazia americana, ove Parlamento e Governo svolgono due attività distinte che interferiscono tra loro il meno possibile, con buoni risultati positivi. Senza arrivare a questo – sulla cui opportunità si è del resto già discusso – si può introdurre nella Costituzione l’elemento nuovo di un Governo indipendente, entro certi limiti, dall’azione del Parlamento, riservando però a questo la possibilità di intervenire in modo decisivo, quando ciò sia necessario; il che rappresenta una garanzia per il principio democratico. L’essenziale è creare un Governo relativamente stabile; altrimenti è certo che non si farà opera atta al consolidamento dell’ordine che si vuole instaurare».

Tosato: «Qui non si tratta di toccare il principio della bicameralità, ma, al contrario, di attenuare le possibili divergenze tra le due Camere ed evitarne i conflitti. […] Il fatto che un voto contrario delle Camere non determini sempre la crisi del Governo significa un effettivo rinsaldamento della indipendenza delle Camere di fronte al Governo. Infatti le Camere, una volta, quando era posta la questione di fiducia, per non provocare continue crisi, erano portate ad approvare progetti anche non buoni; dato invece che il voto contrario non importa sfiducia al Governo, le Camere si sentiranno più indipendenti, libere e garantite nella loro piena sovranità».

Alla sollecitazione di Terracini, che poneva, nella seduta antimeridiana dell’8 gennaio 1947 della I Sezione, l’argomento della questione di fiducia, rispose Tosato: «Questa seconda ipotesi nel progetto è senz’altro scartata. Ottenuto il voto di fiducia, il Governo entra in carica e dura in carica, finché l’Assemblea nazionale non lo revochi. L’Assemblea nazionale può revocarlo in qualsiasi momento, ma solo l’Assemblea nazionale. Quindi le discussioni sulla politica generale del Governo in seno alle Camere, con possibilità di crisi, sono estranee allo spirito del progetto. Se le Camere respingono i progetti di legge presentati dal Governo, il Governo potrà, ma non è obbligato, dimettersi; e, se le due Camere che hanno dato la loro fiducia al Governo ritengano modificata la situazione politica, oppure ritengano che il Governo abbia dato così prova nell’uso dei suoi poteri, presenteranno una mozione di sfiducia all’Assemblea nazionale. Si ha così una semplificazione notevole, perché si ha l’abolizione concreta di tutte le discussioni generiche, che non sono altro che tentativi di provocare disordini in qualsiasi momento con danno del paese, che invece ha bisogno della stabilità del Governo. […] Il sistema proposto nei riguardi dell’Assemblea nazionale non lede il sistema bicamerale. Questo ha una sua propria ragion d’essere per l’esercizio della funzione legislativa; trova invece un limite logico per quanto attiene alla concessione e alla revoca della fiducia al Governo»[15].

Come alcuni costituenti (Tosato, Perassi, Ruini, ed – in parte – Mortati) avevano saputo cogliere, il bicameralismo perfetto, senza l’Assemblea nazionale, è monco (si potrebbe forse parlare solamente di un bicameralismo legislativo perfetto).

L’aver previsto la seconda Camera paritaria raggiunge il suo scopo ultimo solo se si istituisce anche l’Assemblea nazionale: la perfetta duplicazione della Camera legislativa, unita alla previsione della riunione comune per sanzionare l’indirizzo politico parlamentare, servono al fine di ottenere la separazione dei poteri e la stabilizzazione degli esecutivi. E servono anche, nella situazione politico-partitica italiana, a salvaguardare le prerogative del Potere legislativo. Infatti, attualmente, non è prevista in alcuna disposizione la norma che obbliga le forze politiche a far esercitare la funzione legislativa al Governo; sono al contrario le stesse forze politiche che hanno questo costume. I partiti politici hanno esercitato anche la funzione legislativa prevalentemente nel seno dei Governi (concentrando in un solo Potere le due funzioni), vivendo l’attività parlamentare spesso come una propaggine troppo laboriosa[16]. Ciò ha portato innegabili vantaggi, data la perenne esigenza di mantenere e/o favorire governi di coalizione, mediando entro/tra partiti numerosi e non sempre ampiamente rappresentativi (questo discorso vale anche per le coalizioni elettorali delle ultime legislature[17]). La miopia dei partiti ha anteposto una loro maggiore comodità e facilità di vita, alle esigenze di funzionalità ed armonia del meccanismo costituzionale.

In Assemblea Costituente ci si riferì varie volte alla Costituzione anche come un impegno, un obbligo, che le forze politiche assumono, per modificare il costume, per primi, degli stessi operatori politici istituzionali. È quindi necessario scindere in due procedure non sovrapponibili la normazione e la funzione di indirizzo, perché le forze politiche non possano più legiferare passando sotto le – pur volontarie – forche caudine della questione di fiducia.

Nella seduta pomeridiana del 19 settembre 1947, Tosato evidenziò soprattutto ciò: «Ma, a mio avviso, vi è poi un’altra ragione, alla quale io personalmente darei molta importanza, ed è che attraverso questo sistema dell’Assemblea nazionale, come organo della fiducia al Governo, noi risolviamo il problema della divisione dei poteri nel governo parlamentare. Chi ha a cuore la libertà, e il progresso nella libertà, non può non avere a cuore l’attuazione della divisione dei poteri. Il principio della divisione dei poteri non si oppone al principio della sovranità popolare. Si oppone soltanto alla dittatura, al totalitarismo. Orbene: tutti sanno che il governo parlamentare tende alla confusione dei poteri. Con questo sistema dell’Assemblea nazionale si arriva a saldare il principio della divisione dei poteri anche nel governo parlamentare. Perché? Perché per le questioni di governo sarebbe competente un’Assemblea, completamente distinta e indipendente dalle due Assemblee. Mentre l’attività legislativa verrebbe esercitata dalle due Assemblee separatamente e indipendentemente agenti, invece, per le questioni di governo, si avrebbe la possibilità di una Assemblea diversa, la quale sarà competente a decidere soltanto di questioni di carattere fondamentale, di suprema direzione politica. Con quale beneficio per il normale svolgimento dell’attività legislativa svincolata così dalle continue pressioni e dalle questioni di vita o di morte dei governi, con quale beneficio per la stabilità dei governi stessi, sottratti così al quotidiano assalto alla diligenza, è evidente. Il governo parlamentare si è tradotto in Italia in un confusionismo di poteri, che è deleterio per l’attività legislativa e per l’efficienza dei governi. Bisogna porvi riparo. Se non si vuole che il potere legislativo sfugga inesorabilmente alle Camere, se non si vuole che il governo parlamentare si traduca e degeneri in governo di assemblea, in un comitato esecutivo delle Camere, con le conseguenze che ne derivano, occorre ristabilire, per quanto è possibile, la divisione dei poteri. E da questo punto di vista, l’innovazione introdotta nel progetto relativa ai nuovi compiti dell’Assemblea nazionale, potrebbe essere un rimedio eccellente».

Tosato accenna alle due opposte derive (1. funzione legislativa nelle mani dell’Esecutivo; 2. funzione esecutiva nelle mani del Legislativo), possibili a livello teorico, se il governo parlamentare viene interpretato da un sistema multipartitico frammentato, in cui fisiologicamente non sia possibile una salda maggioranza parlamentare che esprima il Governo. Nell’esperienza unitaria italiana si è conosciuta, e si conosce, quasi esclusivamente la prima deriva.

Pertanto, separando il corso dell’iter legislativo dalla sussistenza del vincolo fiduciario, se ne ottiene un Governo che non costringe le Camere ad approvare i suoi progetti di legge; ma ne viene fuori anche un Governo che non può più dimettersi appena li veda respinti con la motivazione della sfiducia pronunciata, essendo l’attivazione delle Camere riunite una procedura obbligatoria, e non avendo tale sede alcun effetto sull’iter legislativo. Se infatti si consideri che, come è presumibile aspettarsi, l’intervento delle Camere riunite confermerà la fiducia assai più di frequente di quanto non la negherà (salvo dissidi fondamentali ed insanabili esplosi all’interno della maggioranza di governo[18]), il Governo sarà di fatto inchiodato a tutta la sua responsabilità di governare ed amministrare; attività da cui potrebbe emergere anche un autonomo profilo politico.

Si avranno contestualmente ricadute positive sulla qualità della legislazione, ai fini della quale potrebbero convergere maggioranze diverse da quella che sostiene il Governo in carica, secondo il merito dei provvedimenti all’esame e quindi secondo una più serena valutazione tecnica (che è politica) della normativa prodotta. Determinandosi a Camere separate l’indirizzo legislativo, ed esprimendosi invece a Camere riunite l’indirizzo politico parlamentare, non vi sarebbe infatti stretta e necessaria coincidenza tra quest’ultimo e la legislazione.

Ciò costituirebbe il massimo della separazione possibile congiunto con il massimo della stabilizzazione possibile, entro il governo parlamentare.

Se verrebbe a mancare l’arma di ricatto delle dimissioni, esercitato del Governo sul Parlamento, cioè sull’organo titolare della legislazione, perciò sulla legislazione (che può indirettamente spingere il Capo dello Stato ad uno scioglimento anticipato), rimarrebbe comunque in piedi la possibilità per il Parlamento di sostituire un ministero la cui autonomia di indirizzo si spingesse troppo oltre i confini tracciati dal rapporto fiduciario.

Siamo, quindi, al terzo tassello della rilettura della categoria di indirizzo politico: stante la possibile compresenza di due diversi indirizzi politici, l’affermazione della prevalenza di quello parlamentare sarebbe sempre nella piena disponibilità del Parlamento (cioè delle forze politiche in Parlamento). Sarebbe il Parlamento libero di valutare:

  1. se sanzionare, ed in che misura, la divergenza tra il suo indirizzo legislativo e l’indirizzo esecutivo del Governo;

ovvero

  1. se considerare tale divergenza tollerabile, nel caso che già il suo indirizzo politico sia – su punti specifici – differente dalla legislazione via via prodotta (e magari così aderendo all’indirizzo politico governativo);

ovvero

  1. se sanzionare, ed in che misura, la divergenza tra l’indirizzo politico parlamentare (non coincidente con quello legislativo) e l’indirizzo politico governativo.

Cosa assolutamente nuova per la storia istituzionale italiana, che non conosce la separazione tra indirizzo legislativo ed indirizzo di governo, ma ha bensì ricostruito – anche in sede dottrinale – l’indirizzo politico come categoria che li mescola e confonde[19].

E non sarebbe certo lecito osservare che così si obbliga il Governo ed i suoi ministri a rimanere in carica con un Parlamento ostile politicamente, perché tale obiezione meriterebbe tutte queste risposte:

  1. La fiducia del Parlamento è comunque confermata e sancita.
  2. La legislazione non è materia precipua del Governo.
  3. Perché non si è tentati di fare analoga osservazione quando si considerino gli esecutivi statunitensi, elvetici, francesi (in coabitazione), e tutti i frequenti esecutivi di minoranza delle mature democrazie nord-europee? Tutti quegli esecutivi governano pur non determinando la legislazione.

Se la maggioranza parlamentare è d’accordo con un disegno di legge importante, significativo per l’indirizzo del Governo, non ci saranno problemi ed i due binari della legislazione e del governo correranno paralleli. Se, diversamente, non è d’accordo, nulla quaestio, il disegno di legge non viene approvato, viene approvato con modificazioni o, più mestamente, viene dimenticato negli archivi del Parlamento. L’utilità di separare i poteri è da cogliersi sia sul versante del Legislativo, che non è più costretto ad approvare qualsiasi disegno di legge, pur di non far cadere il Governo; sia sul versante dell’Esecutivo, che può svincolarsi dalle sue stesse proposte in materia di legislazione, dedicandosi con più profitto alla normazione secondaria, regolamentare, e, finalmente, alla amministrazione.

Se una maggioranza parlamentare, contemporaneamente:

  1. non approva un disegno di legge governativo;
  2. conferma in una sede diversa la sua fiducia in un organo che non svolge esclusivamente funzioni normative primarie;

se ne può dedurre che è libera nella legislazione, cioè ne è il titolare. La funzione legislativa, come accade negli Stati Uniti ed in Norvegia, è nelle mani del Parlamento.

Se, invece, come è nella situazione attuale (ma si potrebbe dire – generalizzando – repubblicana ed unitaria), la maggioranza parlamentare deve approvare proposte che non condivide sottoposte dal suo Governo, ciò significa che sostanzialmente (se non, anche formalmente) il punto di equilibrio di una immaginaria bilancia a due bracci, sui cui piatti poggino rispettivamente Potere legislativo e Potere esecutivo, è spostato decisamente sul secondo, che determina l’univoco indirizzo politico di entrambi.

Le Camere sono rese schiave nell’esercizio della loro precipua funzione, proprio perché si è pensato che il loro essere padrone del nesso fiduciario dovesse essere ribadito e suggellato su ogni puntuale progetto di legge. È la loro individuale funzione di organi politici ad imbrigliarne la funzione legislativa. La lettura del testo dell’art. 94,4 Cost. non può smentire queste considerazioni, laddove esso si premura di escludere un obbligo di dimissioni del Governo in caso di voto contrario di uno o di entrambi i rami del Parlamento, e non di prevenire un uso ricattatorio delle minacciate dimissioni da parte del Governo stesso. Cosa che si è potuta pacificamente constatare lungo buona parte della vita unitaria dello Stato italiano, in presenza di un quadro partitico frammentato e della necessità di governi di coalizione.

Con la modificazione adombrata, si potrebbe integrare la disciplina costituzionale in modo da consentire che si formino e permangano anche governi che non hanno la fiducia in entrambe le Camere, senza intaccare la parità tra di esse nella competenza legislativa e nel rapporto fiduciario, salva la differente consistenza numerica della Camera dei deputati, che porterebbe ad un lieve prevalenza politica di fatto della stessa (cosa che potrebbe essere superata riducendo a 250/300 il numero sia dei deputati sia dei senatori[20], parificandone così in ogni senso l’influenza politica).

Indubbiamente vi sarebbe il pregio assoluto di inverare l’intenzione profonda del Costituente, quando non si consente ad un Governo che abbia una solida maggioranza in una Camera di cadere per un colpo di mano di un pugno di parlamentari nell’altra, senza che la prima possa intervenire in alcun modo.

Tale intenzione profonda può cogliersi da una attenta lettura delle fonti dirette della Costituente; una lettura che non si fermi a ripetere acriticamente le pandectae che sulla Costituente e sulla Costituzione sono state elaborate sin dal 1° gennaio 1948, prendendone il posto, e così creando una casta sacerdotale deputata a dire cosa sia costituzione e cosa non lo sia[21]. Un significativo esempio di un tradimento perpetrato ai danni della Costituzione dall’interpretazione[22] è quello toccato alla locuzione “base regionale” di cui all’art. 57,3 Cost.[23].

Se è vero che nella pubblicistica di diritto costituzionale-parlamentare e di storia costituzionale un topos è costituito dal richiamo all’ordine del giorno Perassi, è assai corretto inserire quell’atto formale nel contesto del pensiero del suo proponente e della maggioranza di chi lo votò.

Detto diversamente: non desta scandalo, bensì è pratica diffusa, affermare che quell’ordine del giorno sia rappresentativo della volontà profonda del Costituente, seppure – alla fine dei suoi lavori – frustrata dalle incomprensioni tra le forze politiche e, soprattutto, dalla poco diffusa consapevolezza entro le file delle forze politiche. Quindi, prevengo l’obiezione, perché dovrebbe essere guardata come una bizzarria ricostruire il pensiero, le intenzioni del gruppo di costituenti che condividevano (seppure con alcuni distinguo) un determinato progetto con lo stesso Perassi? Si teme, forse, di sminuire l’apporto di altri costituenti ancora, che, nei decenni, sono assurti alla santità ed al ruolo di numi tutelari delle varie correnti politiche? Ma quei santi, non ebbero, nella migliore ipotesi, voce in capitolo sul tema che si sta trattando; nella peggiore ipotesi, fecero pesare tutta la loro opposizione… Allora, sarebbero invece quelle loro, le idee ed intenzioni proprie e genuine del Costituente? Che almeno lo si dica senza infingimenti.

4. Elezione separata delle due Camere, diverso numero dei loro membri?

Concludo il discorso sull’Assemblea nazionale, facendo delle ulteriori riflessioni.

L’avversata identità delle due Camere non si sarebbe prodotta né con differenti formule elettorali per le due Camere (come proponevano i sostenitori dello scrutinio maggioritario abbinato al collegio uninominale per la Camera alta), né con la proporzionale per entrambe (sancita dalla legge elettorale 6 febbraio 1948, n. 29 Norme per la elezione del Senato della Repubblica).

Mancava la consapevolezza che, in un sistema politico partitico frammentato, anche la medesima formula di composizione dell’organo – figurarsi poi formule diverse – quasi mai vuole dire certezza di maggioranze politiche uniformi nelle due Camere (salvo il correttivo della elezione unica).

Quindi io proporrei l’Assemblea nazionale quasi esclusivamente per il caso della identica formula elettorale (e con l’aggiunta dell’elezione unica[24]), allo specifico scopo di separare la funzione legislativa dalla funzione di indirizzo, e quindi, da quella di governo, rendendo autonoma la maggioranza parlamentare (che fa la legislazione) dal governo che appoggia (cui è riservata la normazione secondaria e l’amministrazione, con tutta la loro discrezionalità).

Al contrario, con l’introduzione dell’Assemblea nazionale, in assenza dell’unificazione della legge elettorale e del voto dell’elettore, si potrebbero introdurre variabili tali da tradire gli scopi perseguiti. Se infatti gli obiettivi sono la separazione dei poteri e la stabilizzazione degli esecutivi, come inserire in questo quadro la prospettiva di un possibile conflitto a tre (Camera, Senato e Governo) sull’indirizzo legislativo? È chiaro che il problema non si porrebbe per quanto riguarda l’indirizzo politico, perché deciderebbe sempre il Parlamento riunito; ma, per la procedura legislativa, creare le precondizioni per maggioranze politiche differenti e/o opposte tra le due Camere, sarebbe lungimirante? La separazione risulta provvida solo se tra poteri diversi, ma perché mai mantenerla anche all’interno del Legislativo? Per fare rientrare dalla finestra il ruolo di guida legislativa del Governo?

Per una piena resa dell’Assemblea nazionale è essenziale l’unificazione del voto, oltreché assai opportuna una parificazione numerica dei componenti le due Camere.

A quest’ultimo proposito, si possono riportare alcune testimonianze di una certa viscosità degli istituti e degli organi giuridici: infatti, ancorché le due Camere che si finirono per approvare fossero parimenti legittimate, formate, competenti, videro comunque reso assai diseguale il numero dei loro membri, come per un riflesso condizionato proveniente dall’era precedente, quando i due organi erano sensibilmente differenti.

Nella seduta del 13 settembre 1946 della II Sottocommissione, Conti invitava «a considerare che il numero dei componenti della Camera dei deputati deve essere commisurato alla struttura che dovrà assumere il Corpo legislativo ed alle funzioni che l’Assemblea dovrà svolgere. […] Trecento deputati è un numero più che sufficiente. Questa riduzione è poi opportuna anche per un’altra considerazione. È stata prevista, infatti, l’unione delle due Camere in Assemblea nazionale. Si avrà così un consesso molto numeroso, e questo, secondo le intenzioni dei più, dovrebbe spesso riunirsi per decidere in merito ad avvenimenti di grande importanza. Ciò impone una limitazione del numero dei deputati». Nella seduta del 18 settembre 1946 della II Sottocommissione, Conti precisava ancora: «Il Potere legislativo deve essere composto di due organi che abbiano perfetta parità e ciò anche perché le due Camere dovranno, in determinate occasioni, fondersi in un’unica Assemblea. Si deve quindi escludere in modo assoluto che il Senato possa essere sottomesso al volere della Camera e viceversa: fra l’uno e l’altro organo dovrà aversi uno scambio continuo di deliberazioni, di pareri, di critiche e quindi non si potrà stabilire alcuna prevalenza dell’una Camera sull’altra».

Nella seduta del 12 settembre 1947, Rubilli: «Se, come abbiamo detto, la Camera alta deve essere in tutto pari per dignità e prestigio a quella dei deputati, mi pare non vi sia dubbio che uguale ne debba essere anche il numero dei componenti (Commenti). Perché infatti questo numero dovrebbe essere minore? […] Non so perché vi debbano essere 555 o 556 deputati; diminuitene pure il numero, se volete; l’Assemblea funzionerà lo stesso. Vedete: non funziona bene anche nella seduta odierna, quando non siamo molti poi qui riuniti? […] Ma se volete mantenere questo numero elevato per i deputati, dovete concederlo anche al Senato. […] Senza dubbio l’inferiorità di numero importerebbe una minore considerazione della seconda Camera, la quale influirebbe assai meno della Camera dei deputati […] nelle vicende della vita e dell’attività parlamentare. […] Che volete fare? Una Camera ed una cameretta?».

Chiudo con delle considerazioni finali tornando ancora sul potere di indirizzo politico. Come si potrebbe constare da un più ampio lavoro citato inizialmente, secondo la proposta Tosato-Ruini-Perassi-Mortati, se il Parlamento volesse acquisire autonomia di indirizzo legislativo, non si dovrebbe lasciare ad una sola Camera la capacità di indirizzo politico, ma andrebbe conferita esclusivamente nelle mani della riunione comune dei membri di esse.

Riferimenti bibliografici

            Argondizzo, D. (2009), Il sistema elettorale del Senato italiano nel dibattito all’Assemblea Costituente, in Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, Regione Toscana – Giunta Regionale, n. 62; anche in Astrid Rassegna, n. 114 (9/2010).

Argondizzo, D. (2013), 1945-1947 Il bicameralismo in Italia tra due modelli mancati: Congresso Usa e Stortinget, Quaderni della Rivista Il Politico, n. 59, Soveria Mannelli, Rubbettino.

Bin, R., Il sistema delle fonti. Un’introduzione, in Forum di Quaderni costituzionali, www.forumcostituzionale.it, consultato il 13 agosto 2013.

House of Lords – Select Committee on the Constitution (ed.) (2010), Fixed-term Parliaments Bill, London, The Stationery Office Limited, Report with evidence n. 8, HL Paper 69, p. 10.

Ǿsterud, Ǿ. (2007), Norway in Transition, Abingdon, Routledge, pp. 89-90, 92.

Mortati, C. (1949), Sulla funzionalità delle Istituzioni rappresentative, in Cronache sociali, n. 21; anche in Problemi di politica costituzionale – Raccolta di scritti, Milano, Giuffrè, 1972, v. IV, pp. 75-76.

Ruini, M. (1952), Il Parlamento e la sua riforma. La Costituzione nella sua applicazione, in I Quaderni della Costituzione, Milano, Giuffrè, 1952, pp. 39, 66-67, 87, 171.

Ruini, M. (1958), La Costituzione italiana: lineamenti e problemi aperti, in Comitato nazionale per la celebrazione del primo decennale della promulgazione della Costituzione (cura di), Raccolta di scritti sulla Costituzione. Studi sulla Costituzione, Milano, Giuffrè, v. III, p. 492.

Ruini, M. (inedito), La Costituzione della Repubblica italiana, Appunti riservati – bozza non corretta, Roma, Bardi, 1965-1966, p. 53 (copia conservata presso la Biblioteca del Senato della Repubblica: collocazione Ris. 12).


[1] La Costituzione statunitense è in vigore dal 1789, quella norvegese dal 1814.

[2] A tale Comitato, composto da Crisafulli, Stolfi, Piccardi, Rizzo e Zanobini, venne dato il compito di preparare una relazione introduttiva.

[3] «Il Parlamento d’Islanda (che data dal 930) si chiama Althing, ed è composto di 52 membri eletti dal popolo per 4 anni. È diviso in Camera alta ed in Camera bassa; la prima con un terzo e la seconda con due terzi dei membri dell’Althing. Parità fra le due Camere, che in caso di dissenso si riuniscono “in conclave”; e decidono a maggioranza di voti per le leggi finanziarie, di due terzi per le altre» (Ruini 1952, 171).

[4] Anche se le tre letture, frequenti nei sistemi nordici, quasi mai richiedono l’approvazione ripetuta dell’identico testo. Analogamente accadeva per le tre letture di epoca statutaria italiana.

[5] “Maggioranze saltellanti”, secondo la terminologia degli studiosi norvegesi, che costringono il Governo a negoziare il supporto in Parlamento su ogni questione o progetto di legge.

[6] In Svezia vi è analoga situazione, anche se non formalmente. Il Riksdag può essere sciolto anticipatamente, ma con il Parlamento neoeletto non inizia una nuova legislatura, bensì prosegue quella precedente, che si conclude al suo termine naturale con una ulteriore elezione. La Legge sulla forma di governo del 1974 (cap. 3, art. 4) si riferisce alle elezioni conseguenti ad uno scioglimento anticipato, come elezioni straordinarie, da tenersi nell’intervallo fra le elezioni ordinarie, e quindi non incidenti sul susseguirsi delle legislature. Conseguentemente gli scioglimenti anticipati sono estremamente rari (il più recente è stato nel 1958). Deve precisarsi che dal 1970 al 1994 la legislatura svedese fu di 3 anni, cosa che avrebbe potuto comportare termini oltremodo ristretti; ma tale rilievo perde di consistenza se si consideri che dal 1994 la legislatura è di 4 anni, e non si sono comunque osservati mutamenti di sorta.

[7] A maggioranza assoluta, il Parlamento (a Camere riunite) può ottenere le dimissioni dell’intero Governo o di un singolo ministro. La mozione può essere presentata da un singolo parlamentare; il Governo può porre la questione di fiducia, ma non è formalmente obbligato a dimettersi se essa viene respinta (nella prassi, quando è successo, il Governo si è dimesso). Ancorché solo con la riforma costituzionale del 20 febbraio 2007 tale prerogativa del Parlamento è stata introdotta in Costituzione all’art. 15, la pratica del governo parlamentare si è sviluppata e perfezionata dal 1884 al 2009, con complessivi 48 cambi di governo, quasi tutti in seguito a nuove elezioni. Dal 1905 solo due governi si sono dimessi in seguito all’approvazione di una mozione di sfiducia (nel 1928 e nel 1963). Dal 1980 sono state presentate 20 mozioni di sfiducia, ma nessuna di esse è stata approvata.

[8] Dal 1945 al 2005, su 28 ministeri, 19 sono stati di minoranza, tutti monocolore Labour (Ǿsterud 2007, 89-90). Bisogna comunque rilevare che sono stati di minoranza circa un terzo dei governi nell’Europa occidentale dal 1945 (Ǿsterud 2007, 92).

[9] L’esistenza di un Parlamento a durata prefissata, de jure in Norvegia e de facto in Svezia, costringe i governi e le forze politiche ad affrontare le crisi in corso di legislatura senza la valvola di sicurezza dello scioglimento anticipato. Se tale condizione potrebbe privare il partito o la coalizione di governo di uno strumento per assicurare la disciplina di partito, l’esperienza norvegese mostra, al contrario, come la mancanza di una alternativa alla composizione politico-parlamentare esistente spinge i partiti a muoversi in maniera più responsabile nella ricerca di un accordo, ed a comportamenti cooperativi in Parlamento (in primis, in commissione). Invece il potere di scioglimento anticipato potrebbe, paradossalmente, aumentare la conflittualità perché i partiti di opposizione non sentirebbero più la responsabilità di dover contribuire a formare un nuovo governo. La Norvegia ha raramente avuto lunge crisi di governo. Sia la Norvegia che la Svezia hanno avuto governi di maggioranza parlamentare per circa 8 anni, sui 40 dal 1970, avendo dimostrato che il sistema politico-costituzionale è in grado di superare le crisi di governo senza ricorrere allo scioglimento anticipato. Non ci sono evidenze che possano provare che le crisi governative in corso di legislatura sarebbero state risolte più efficientemente in presenza della possibilità dello scioglimento. Anzi, una prova a contrario la offre l’esempio della Danimarca, dove il Governo in carica è libero di decidere se sciogliere il Parlamento, e dove con il nuovo Parlamento inizia una nuova legislatura. In Danimarca si sono svolte frequenti elezioni: per esempio, nel settembre 1987, nel maggio 1988 e nel dicembre 1990; e nessuna di esse ha reso chiara la situazione parlamentare. Tale esperienza dimostra come frequenti scioglimenti anticipati possano essere addirittura controproducenti.

cfr.: House of Lords – Select Committee on the Constitution (ed.), 2010, Report with evidence n. 8, HL Paper 69, p. 10:

http://www.publications.parliament.uk/pa/ld201011/ldselect/ldconst/69/69.pdf.

[10] Tosato e Mortati accennarono a ciò: Tosato nella relazione “Sul Capo dello Stato e sul Governo” (consegnata il 7 febbraio 1947 alla II Sottocommissione (Commissione per la Costituzione), che non venne mai pubblicata nella serie degli Atti dell’Assemblea Costituente, ma che è reperibile fra le carte dell’Archivio Storico della Camera dei deputati) e nella seduta pomeridiana del 19 settembre 1947 (infra); Mortati nella seduta della II Sottocommissione del 3 settembre 1946.

[11] Nelle sedute del 28-29 novembre 1946 della II Sottocommissione fu decisa la sua divisione in due sezioni, al fine esaminare separatamente e contemporaneamente il Potere esecutivo ed il Potere giudiziario. D’ora in avanti ci si riferisce semplicemente alla I Sezione.

[12] Anche se, come abbiamo visto, in Norvegia la formale fissità del solo Legislativo ha pure un effetto indiretto di stabilizzazione sugli esecutivi.

[13] A tale Comitato (composto da Bozzi, La Rocca, Tosato, Conti, Lami Starnuti, Mortati, Perassi e Paolo Rossi) era stato affidato il compito di preparare un testo base per la discussione della I Sezione.

[14] Questo inciso fu esplicitato, come parte integrante dell’articolo, dal relatore Tosato nella seduta antimeridiana dell’8 gennaio 1947 della I Sezione.

[15] Secondo Tosato si trattava di rispondere ad una esigenza funzionale al nesso fiduciario perché collimante con l’unicità dell’atto di investitura del Governo.

[16] Non si ritiene di dover suffragare di alcuna dovuta motivazione quelle che sono delle constatazioni, che un osservatore di media attenzione può trarre pianamente ed in generale dalla prassi politica parlamentare italiana, salvi sempre alcuni sparuti e brevi periodi dissonanti.

[17] Si considera più apparente che sostanziale il “bipolarismo” che ha accompagnato gli ultimi due decenni. Non è diminuita granché la proliferazione delle sigle politiche in occasione della formazione delle coalizioni elettorali, e soprattutto – nello svolgersi delle legislature – in conseguenza della frantumazione e ricomposizione delle stesse coalizioni. Anzi, può senz’altro affermarsi che è sensibilmente aumentata la volatilità dei partiti. Forse è ancora troppo presto per fare analisi sui dati politici della XVII legislatura, ma si può azzardare una semplice ipotesi: la presenza di una significativa forza politica nuova che si rivelasse essere non aggregabile con altre, potrebbe paradossalmente rendere un po’ più sostanziale il bipolarismo tra le due coalizioni tradizionali superstiti, che potrebbero convergere sulle questioni di sistema, se non altro per mero spirito di autoconservazione. Analogamente a quanto già detto nella nota immediatamente precedente, non si ritiene di dover suffragare di alcuna dovuta motivazione quelle che sono delle constatazioni, che un osservatore di media attenzione può trarre pianamente ed in generale dalla situazione politico-parlamentare presente.

[18] Prodromi di evoluzioni politiche della comunità sociale. E la flessibilità del governo parlamentare, anche in presenza di due Camere politicamente e numericamente identiche, deve risiedere proprio nel conservare una valvola di sicurezza al sistema, che gli consenta di superare indenne tali passaggi cruciali.

[19] Tosato e Mortati parlarono espressamente di «confusione» dei poteri: Tosato nella seduta pomeridiana del 19 settembre 1947 (supra); Morati, nel 1949 (Mortati, 1972, 75-76).

[20] Con conseguente ridisegno di circoscrizioni/collegi nelle leggi elettorali. Tale consistenza potrebbe essere vista con favore anche perché, ottenendosi comunque un considerevole risparmio, consentirebbe di bilanciare la significativa diminuzione dei deputati con una assai minore diminuzione del numero dei senatori. L’emiciclo dell’Aula di Palazzo Montecitorio potrebbe utilmente accogliere le sedute dell’Assemblea nazionale.

[21] Non mi voglio riferire alla giurisprudenza costituzionale, che è cosa funzionalmente ben diversa.

[22] Venendo meno ai suoi specifici compiti (cfr.: Bin, Il sistema delle fonti. Un’introduzione, in Forum di Quaderni costituzionali).

[23] Argondizzo, 2009.

[24] Quest’ultimo risultato può ottenersi uniformando il corpo elettorale, abbinando le liste/singole-candidature (delle forze politiche/coalizioni) per le due Camere, e prevedendo una unica scheda (con la possibilità, o meno, della/e preferenza/e per ciascuna di esse, nel caso di liste); rendendo, quindi, materialmente impossibile il panachage. Ovvero può ottenersi, più semplicemente, dividendo in due il plenum parlamentare, emulando l’esempio norvegese anche nella formazione delle Camere.

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