Raccontino della notte. Il disertore

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 18 febbraio 2019

E’ notte e c’è un tizio che s’infila con passo svelto sotto i portici. Ha l’aria bizzarra ma non trasandata. Nella mano ha una sacca dalla quale esce la voce gracchiante di una radio. Musica e commenti. Forse una stazione amica, di quelle che nella notte scambiano confidenze coi tassisti fermi al parcheggio e altre anime insonni. L’uomo cammina solo nella città deserta e non si capisce dove vada, Sembrerebbe senza destinazione, e vien da pensare anche senza origine. Egli vaga, in compagnia della sua radio. E felicemente se ne fotte.

Mi vengono in mente quelle notti gelide passate a far la guardia ai camion, tirati giù dalla branda imbevuta del caldo puzzo della guardiola. Ci si ingoffava dentro il bavero del pastrano e si cercava il tepore ciucciando grandi quantità di cordiale contenuto in certe bustine di plastica che in caserma circolavano come figurine. Si fumavano nazionali senza filtro in successione e si ascoltava per farsi compagnia una radiolina a transistor. Che però a quell’ora della notte emetteva solo rumori di fondo e qualche nota sibilante proveniente da remote frequenze d’oltre cortina. Se capitava di captare una canzone decente era l’occasione di una mesta allegria e poteva accadere di ballare e canticchiare. Soli, sferzati dal vento della Capitanata, fra i latrati dei cani, ebbri di cordiale e con un Garand a tracolla. Lo scampolo di libertà del coscritto.

Il reggimento di artiglieria da campagna era localizzato fra le stoppie della periferia di Foggia, la più squallida città che abbia mai conosciuto, La caserma era semidiroccata e nei dintorni scorazzavano torme di cani randagi. Il reggimento era adibito a ricettacolo di una varia umanità giovanile, Fra l’altro, oltre ai raccomandati residenti fra Bari e Termoli, individui considerati pericolosi per ragioni politiche o legali, i ‘puniti’ e una certa quantità di ‘disertori’. Gente che era andata a zonzo senza più rientrare in caserma e che per questo, una volta riacciuffata da qualche ronda, aveva trascorso un periodo (di norma sei mesi) nelle carceri militari di Gaeta o Peschiera, E siccome il periodo di detenzione non era scontato dal servizio ce n’erano alcuni che da anni e talvolta lustri pendolavano fra il carcere, la caserma e la libertà. Erano ragazzi irrequieti e animaleschi, irriducibili a qualsivoglia disciplina, guidati totalmente dall’impulso immediato. Se c’era una bella giornata e annusavano aria di libertà si allontanavano dalla caserma, mettevano abiti civili e si perdevano a bivaccare per settimane su qualche spiaggia in compagnia di altri randagi. Non facevano calcoli nè consideravano le conseguenze. Seguivano l’istinto che li portava a trascurare ogni regola e ad andarsene per i fatti propri.

Adesso, dopo una vita passata aggrovigliato a ogni forma di ritegno morale, familiare, sociale, professionale, politico, sotto l’imperio di tutti quei legami interiori e colpevolizzanti che ci rendono tremebondi, con cio’ tenendoci al riparo da atti scellerati e irrimediabili, consegnati nel limbo temperato quanto opprimente di una condizione dove non è chiaro il confine che separa la pavidità dalla responsabilità, mi vien da pensare alla diserzione come all’anello mancante della catena. La vita mancata. Breve, puntiforme, rapsodica, vissuta a cazzo. Veramente mortale. Nel senso di poter comminare la morte per la sacra causa del proprio piacere. Senza neppure la consapevolezza. La grande tragica leggerezza che fa svolazzare la vita balorda. La libertà dal male.

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