Da elettore comune, chiedo solo che non si facciano pasticci attorno all’esecutivo.
(Post lunghissimo, ma ci sta)
Notavo questo. Zaia è un rieletto. Toti pure. De Luca anche, e così Emiliano. Giani non è un rieletto, ma sta lì da sempre. Lasciamo stare le Marche, consegnate senza nemmeno una lacrima post voto a uno che ha celebrato persino la Marcia su Roma non più tardi di un anno fa. Le elezioni hanno rafforzato e rilanciato la posizione di 5 veri e propri Ras locali, alcuni dei quali sono gli stessi che si sono opposti in modo belligerante al governo durante l’emergenza Covid, guidati come un sol uomo da quel Bonaccini, che Sinisa Mihajlovic ha detto non sembrare nemmeno uno di sinistra. Molti di noi esecrarono quel conflitto e presero le parti dell’esecutivo, indicando nella strategia dei “governatori” un problema. Che non era dovuto, si badi, al carattere o alla fisionomia di costoro (se pensate che Toti era un giornalista come tanti dirottato sulla Liguria perché nessuno di FI voleva fare il perdente, e che poi vinse a sorpresa), ma al profilo che ha assunto la democrazia italiana, affetta da una vertiginosa verticalizzazione istituzionale con riduzione progressiva della forza e della rappresentanza delle assemblee. Pensate, per dire, ai Consigli Comunali ridotti a scarne funzioni di ambasceria locale. Questo voto conferma, se possibile, questo andazzo, lo rende quasi irreversibile. Definire “3 a 3” l’esito elettorale sta a testimoniare che esso è stato “personalizzato” e ridotto alla mera constatazione di chi, in quanto Ras, comanda (anzi continuerà a spadroneggiare) in Regione. Vi chiedo: qualcuno conosce le percentuali delle liste, ci ha ragionato sopra, se n’è interessato? Oppure il 3 a 3 ha riassunto tutto in un battibaleno? Stante la situazione, prepariamoci dunque ad altri bracci di ferro istituzionali.
Il taglio secco dei parlamentari (senza se e senza ma, e soprattutto senza compensazioni presenti) va letto anche in questa direzione, coerente al sempre più basso profilo delle Assemblee elettive rispetto alla esuberanza degli organi esecutivi o monocratici. C’è una linea rossa che traversa il sistema politico-istituzionale italiano e lo contrassegna ormai indelebilmente. Una specie di gigante coi piedi di argilla, con una testa sproporzionata rispetto all’esile corpicino intermedio. Lo abbiamo rimproverato ai nostri avversari (da Berlusconi a Renzi), ma forse sarebbe il caso di capire se anche noi, in qualche modo, non ne fossimo stati fieri protagonisti e sostenitori, all’insaputa o meno. La legge sui Sindaci, che ha distrutto l’apparato istituzionale dei Comuni, la cancellazione delle Province (che in realtà esistono ancora ma non sono più elettive), il mito del maggioritario e del premierato, la favola della velocità procedurale, la truffa delle liste bloccate, le leggi elettorali cambiate a ogni cambio di vento e, in ultimo, la cancellazione di un terzo dei parlamentari: sono tante tappe di un percorso coerente che ha visto la sinistra sempre (o quasi sempre) schierata a sostegno. L’ideologia della casta, che credo sia la componente più alta del voto referendario al Sì, è anche frutto di una nostra silenziosa o meno complicità. In questo almeno non c’è stata alcuna differenza tra gli schieramenti. Il 3 a 3, sotto altro punto di vista, potrebbe essere anche un tennistico 6 a 0.
Oggi il governo, si dice, è più forte. Lo spero, ma ne siamo certi? Il gruzzolo europeo sta lì, non è scomparso, le grandi manovre non sono finite, nessuno si scoraggia per un 3 a 3, in fondo è un bel pareggio per tutti (la destra, a guardar bene, ci soffia persino le Marche, mica una petecchia). Il rimpasto, il tagliando, un riequilibrio (chiamatelo come volete) sta lì, e bussa alla porta come il destino di Beethoven. Il Sì ha solo cambiato la modalità con cui verrà sferrato questo nuovo attacco al governo, non la crisi plateale (che secondo la vulgata sarebbe stata aritmeticamente prodotta dalla vittoria del No) ma il rimpasto soft, mellifluo, un riequilibrio in punta di piedi, quasi un atto dovuto, ecchediamine! Anzi, vedrete, si dirà che il rimpasto rafforzerà un governo già forte e che adesso però deve rilanciare, perché si è aperta una nuova fase. Insomma il solito atto di coraggio, a cui la sinistra, guarda un po’, non può esimersi e mai opporsi troppo recisamente.
Il panorama non è migliore di prima. Il nostro sistema politico e istituzionale si sta “disseccando” nella sua nervatura e riducendo ad alcune figure istituzionali che calamitano l’attenzione generale, ancorché sorretti dai particolari sistemi di voto maggioritari e con premio. Dei partiti nemmeno più l’ombra. Cresceranno in futuro ancor più i conflitti personali, gli scontri istituzionali, i governatori faranno muro e alzeranno la voce a vantaggio dei loro elettorati ben oltre le rispettive identità politiche, quella cosa collettiva che è la politica si ridurrà sempre più a espressione di nominativi individuali, e tutto questo ai media non parrà vero. La cosa drammatica è che non siamo pronti a questa immensa trasformazione, non siamo stati formati per questo. Sento in giro cose che non stanno né in cielo né in terra. Le urla da stadio sovrastano lo spremere delle meningi. Si scambia il nostro piccolo mondo per quello reale. E soprattutto si usa sempre più il linguaggio degli avversari, restandone prigionieri, plasmandosi al suo risuonare. In questo deserto a me interessa il governo, perché c’è poc’altro in giro. Da elettore comune chiedo che lo si salvi così com’è, possibilmente, senza stravolgerne forma e sostanza in nome di qualche estemporanea razionalizzazione e non richiesto rimpasto. So che prima o poi qualcuno mi dirà che sono conservatore anche in questo desiderio di salvare il soldato Conte e la sua squadra; costui aggiungerà che il partito vuole il cambiamento, e che se parla il partito si scatta come una molla. Questa cosa non è mai successa quando la politica era vita collettiva, discussione pubblica, organizzazione territoriale, comunità. Oggi, al tempo della politica personalizzata, dei Ras, di quelli che battono i pugni, dell’uomo solo al comando, dei vertici di partito scollegati dalla vita quotidiana, delle bolle mediatiche e social, ci si allinea ancor prima di avere davvero dibattuto alcunché, come un riflesso condizionato, come una cosa che uccide alla fin fine la politica. Fate pure, ma alla lunga non funziona.