Roma: fatti e misfatti di terrestri e marziani

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Salvatore Bonadonna
Url fonte: http://www.altraeuroparoma.it/blog/roma-fatti-e-misfatti-di-terrestri-e-marziani/

di Salvatore Bonadonna – 4 febbraio 2015

Le cronache hanno accompagnato i due anni del Sindaco Ignazio Marino con denunce di stile, segnali della politica politicante, critiche alla inefficienza sua e della sua giunta, al costante continuo degrado della qualità urbana e civile, sociale e culturale della Città. E c’erano mille motivi perché ciò accadesse, fondati, e direttamente sperimentate dai cittadini e anche dai visitatori.

Sono rimaste cronache. Raccontate con i toni che ciascun editore e ciascun giornale e giornalista hanno ritenuto i più adeguati, dalla comprensione al disprezzo, dalla irrisione fino alla cinica utilizzazione di esse a fini che sono stati ritenuti politici. Del resto le opposizioni avevano usato gli stessi temi e gli stessi toni per manifestare le proprie posizioni contrarie al sindaco.

Con le dimissioni di Marino tutti hanno tirato un sospiro di sollievo pensando ai nuovi equilibri di potere e alle opportunità di mettere le mani sul governo della città. Quando ha annunciato di volerle revocare tutti hanno pensato che potevano entrare in crisi i progetti che avevano cominciato ad immaginare e il panico ha spinto il suo stesso partito ad organizzare una delle peggiori forme di defenestrazione viste nella lunga e non certo innocente storia millenaria di questa città. Peraltro organizzata d’intesa con le opposizioni.
Non si è trattato della insorgenza delle plebi contro i nobili, dei congiurati di una idea vincente che abbattono l’ostacolo alla propria affermazione, non è la cacciata di un tiranno ma l’azione di un gruppo di deboli senza idee, sapientemente manovrato, contro un debole che di idee ne aveva ancora meno. Hanno negato a Marino il confronto nel Consiglio Comunale non perché pensassero di non riuscire a metterlo in minoranza, ma solo perché sarebbe venuta alla luce la miseria di un ceto politico, imbelle e presuntuoso, che si è voluto autodefinire classe dirigente e ha finito persino per crederci. Un ceto che aveva acclamato Marino, lo aveva immediatamente dopo osteggiato verificandone la sua contraddittoria inadeguatezza, lo aveva assunto come il paladino della legalità mentre molti suoi rappresentanti venivano trascinati nel fango e nelle carceri travolti dalla inchiesta sul “Mondo di Mezzo” di cui ipocritamente si mostra sorpreso e, infine, per evitare di restare sotto le macerie del disastro che esso stesso aveva prodotto, mette in scena il suicidio politico collettivo come atto catartico in vista di un possibile nuovo volo della Fenice che, in qualche modo, rinasca dalle ceneri del rogo.

Le cronache su Marino, appagate, si fermano qui, talvolta segnalano le estemporanee velleità della sua ricandidatura. Sostanzialmente, cominciano a tessere le lodi dei Prefetti e dei Commissari, le magnifiche sorti e progressive di una amministrazione da cui la politica e la rappresentanza democratica sono espunte, la celebrazione del “grande evento” del Giubileo trattato alla stregua della fiera mondiale di EXPO. Accompagnate dalle stravaganti cantonate sulla assenza degli anticorpi nella società e nella politica romana. In fondo non considerano particolarmente grave e rilevante la sostituzione della rappresentanza con l’azione di soggetti che non agiscono in funzione della legittimazione democratica ma in nome di mandati ricevuti “dalle autorità superiori”. E si cimentano sui retroscena, sulla rappresentazione delle combinazioni possibili in vista della campagna elettorale che dovrà eleggere un nuovo sindaco e un nuovo consiglio comunale, con lo stesso spirito e gli stessi toni usati per il Grande Fratello o L’isola dei Famosi. La città reale non c’è.

Forse non se ne rendono conto i cronisti; ma raramente hanno avuto modo di raccontare, senza averne consapevolezza nella gran parte dei casi, una vicenda tanto plebea con toni tanto banali. Altro “oh tempora oh mores!” di ciceroniana memoria.

La Città allo sbando

La città ha vissuto e vive queste vicende con il cinico distacco di chi ne ha viste di cotte e di crude, schierandosi come tifoserie per l’uno o l’altro dei personaggi sulla scena, maledicendo il degrado in cui è costretta a vivere, seguendo l’onda dei magistrati e dei giornalisti che, ormai, sono diventati gli arbitri della vita pubblica dopo l’eutanasia della politica. Il lungo processo di mitridatizzazione ha raggiunto l’effetto di non fare avvertire il veleno che è stato immesso nelle arterie vitali della società. Le forze economiche che possono prescindere dalle contingenze del vuoto politico continuano a delineare i propri progetti e realizzarli, impegnati a prefigurare i prossimi scenari nei quali fare cimentare attori possibilmente nuovi. Larghe e crescenti fasce della popolazione cercano di inventarsi le condizioni della sopravvivenza in un clima di disincanto e di fatalismo a cui si sottraggono in vario modo, per fortuna, importanti aree di giovani insieme a vecchi intellettuali e politici ancora portatori di valori e di idee. I giovani alla ricerca di assi e pensieri forti su cui costruire la prospettiva; i vecchi troppo spesso attardati dai ricordi del passato, di quando la politica era viva ed era una cosa seria, presi dalla nostalgia.

L’esito delle prossime consultazioni a Roma sarà il frutto delle dinamiche che si potranno produrre in questo contesto sociale malamente amalgamato, spesso privo di canali di comunicazione, disperso nei non luoghi delle periferie o dei centri commerciali, rinchiuso nei pochi spazi in cui a gruppi si riconoscono comuni identità. Certo buona parte della città continua a vivere dei miti e dei riti concessi dal proprio status economico, anche se senza lo spirito irriverente e blasfemo del Marchese del Grillo. La differenza visibile che distingue questa da altre epoche della città passivizzata è dato dalla presenza degli immigrati e dei senza fissa dimora di tutti i paesi del mondo che ormai popolano le strade con le proprie botteghe, le cucine dei ristoranti e delle pizzerie, i laboratori clandestini del lavoro nero, le strade della prostituzione e dello spaccio sotto una trama fitta di intrecci con la malavita autoctona, i marciapiedi vicino alle stazioni e alle chiese.

Mai come adesso appaiono attuali le parole con le quali Giulio Carlo Argan definì la Roma del tempo del suo impegno da Sindaco, “una città sospesa tra Amsterdam e Casablanca”. E in quella condizione espresse le sue altissime qualità intellettuali e morali cimentandosi nella costruzione di una idea della città.
Dopo di lui Petroselli continuò su quella strada compiendo passi fondamentali nella ricucitura urbana che era anche riconnessione sociale. La demolizione dei borghetti e delle baracche, la politica della casa restano atti fondamentali specie se riguardati assieme alla grande immaginazione progettuale con cui Renato Nicolini fece rivivere la Roma della cultura, della festa di popolo, della partecipazione attiva in tempi di paura e di conflitto degenerato nel terrorismo.

E quando lo squallore e la tristezza delle giunte e dei sindaci degli anni ’80, travolte anch’esse dalla corruzione assurta a sistema, sotto l’azione della magistratura cedettero il passo a quella che fu definita la stagione dei Sindaci, anche a Roma si pensò che la Città potesse risollevarsi e vivere una nuova stagione di relativa prosperità.

In qualche modo questo avvenne sotto la guida di Rutelli, malgrado le privatizzazioni della Centrale del Latte e di tante aree pubbliche gestite dalla Assessora Lanzillotta, e prima che anche lui pensasse di usare il Campidoglio come rampa di lancio per scalare la Presidenza del Consiglio.

I danni della “seconda repubblica”

A ben guardare, però, proprio in quel passaggio definito come transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, sono incubati i germi che renderanno sempre più fragile la democrazia, più deboli le istituzioni, più facili gli intrecci perversi tra interessi economici privati e funzioni pubbliche, più permeabili le amministrazioni e i loro dirigenti alle lusinghe del denaro e del potere.

La elezione diretta dei sindaci, presentata come espressione massima della democrazia diretta, il trasferimento dei poteri effettivi dalle assemblee elettive agli esecutivi nominati dai sindaci stessi, la stessa esistenza del Consiglio legata alla volontà del sindaco, costituiscono il primo atto che, in qualche modo, istituzionalizza il metodo dello scambio tra potere economico e funzione politica proprio in vista del consenso maggioritario a cui ogni candidato tende. I programmi diventano fatti secondari ed elastici, pretesti, sostanzialmente simili tra tutti i candidati con reali possibilità di successo; si tratta di acquisire il sostegno e il consenso di chi ha il potere economico, controlla i settori produttivi a maggiore occupazione, detiene gli organi di informazione delle città. I principi e gli ideali diventano quel di più che si perde nel lungo viaggio accidentato verso la poltrona del potere.

Non è un caso che da allora ogni atto di cattiva amministrazione, di malversazione, di abuso o di condono di abusi, di corruzione o di concussione, vede coinvolti insieme rappresentanti delle maggioranze e delle opposizioni in un sistema di sostanziale continuità. Nasce lì, in maniera artigianale e spicciola, quella forma di “vincolo esterno”, il meccanismo del “pilota automatico”, la cui funzione Mario Draghi ha teorizzato ed attribuito alla BCE, come regolatore delle scelte della politica; e chi non sta al gioco viene estromesso dal tavolo con le buone o con le cattive.

Credo che non sia un caso se a Roma solo la prima giunta Rutelli e nella Regione Lazio la giunta presieduta da Piero Badaloni, talvolta in conflitto su temi decisivi come l’urbanistica o il ruolo delle aziende pubbliche, si siano proposte come soggetti attivi capaci di restare indenni dalle tentazioni corruttive e compromissorie. Era la prima edizione del nuovo corso e chi era investito di funzioni pubbliche era attento a non cadere nelle tentazioni di chi li aveva preceduti. In quel contesto anche il Giubileo del 2000 vide la realizzazione di opere, alcune discusse e discutibili certo, senza particolari ritardi, senza corruzione e nella piena sicurezza dei cantieri.

Poi prese il sopravvento la logica maggioritaria e compromissoria che ha reso le Amministrazioni estremamente sensibili alle attese e alle pressanti richieste dei poteri forti del cemento, del commercio e della comunicazione. Alla politica come scienza della trasformazione si sostituisce la governabilità come tecnica per adeguare i diritti dei deboli alle pretese dei potenti e della loro economia.

Solo in questa ottica si può comprendere la tranquilla convivenza tra la giunta Veltroni e quella regionale di Storace, il “Modello Roma” sbandierato dal primo per presentare la Capitale come competitiva a livello mondiale e, dall’altro lato, la trasformazione della Regione in una incontrollata macchina amministrativa che agiva spregiudicatamente sulla sanità come sull’urbanistica in funzione dell’affermazione di un ceto politico dichiaratamente di destra che, per la prima volta, giungeva al governo di una istituzione. Il Piano Regolatore di Veltroni, passato con il sostanziale accordo della destra, e lo Statuto della Regione Lazio, voluto da Storace e sostenuto dall’allora PDS, sono i paradigmi della mutazione genetica che interviene nella vita delle istituzioni democratiche. I due strumenti segnalano concretamente la sottomissione dell’interesse pubblico a quello privato: la caduta dell’obiettivo della politica come strumento della coesione sociale basata sulla solidarietà e la cooperazione, di governo democratico del conflitto, e l’affermarsi del principio della competizione, del potere economico e del mercato come linee guida del governo della società. All’obiettivo della giustizia e della tendenziale uguaglianza si sostituisce quello della selezione, dell’affermazione del più forte, dell’ineguaglianza assunta come fatto naturale su cui intervenire attraverso elargizioni onerose e clientelari, occasioni privilegiate di corruzione, e non con il riconoscimento di diritti di cittadinanza.

Se non si riflette su questi temi e non si va alle radici della malapianta che è cresciuta non si capisce come si è prodotto il mostro che viene chiamato Mafia Capitale e non si capisce neanche come si sono prodotti il crollo veltroniano, la resistibile ascesa di Alemanno e, al dunque, l’avvento dell’ignaro Marino, strumento cieco di un’occhiuta rapina rivelatasi un boomerang per chi l’aveva congegnata.

La Città è allo sbando e i cittadini animati da sordo rancore. E non basterà il furbo piglio decisionista del “bullo di Rignano”, il suo opportunistico agire in funzione di acquisire consensi di stampo corporativo, né quello dei suoi epigoni locali; come non basterà l’aura di superiore autorevolezza attribuita al Prefetto e al Commissario. C’è solo da augurarsi che si produca quel tanto di minima organizzazione e di massima attenzione affinché il grande evento giubilare voluto da Papa Francesco si svolga nel migliore dei modi. Non è facile pensare che su Roma possano riversarsi doni di Misericordia diversi da quelli operati direttamente dal volontariato, dalle organizzazioni sociali e dalle parrocchie.

Un’idea di città

E se anche il sordo rancore dovesse esprimersi in un risultato elettorale favorevole al Movimento 5 Stelle, come molti indicatori lasciano intendere, questo non risolverebbe i problemi della Città. L’onestà, infatti, dev’essere un prerequisito di chi fa politica ma non garantisce l’azione necessaria a far vivere una comunità cittadina e a far funzionare l’organizzazione complessa di una città; tantomeno garantisce circa la direzione di marcia verso cui è necessario guidare lo sviluppo della società complessa della Capitale specie dopo le devastazioni che ha subito in questi anni.

Serve elaborare una nuova idea della Città. E una condizione fondamentale è lo smantellamento di quel “patto di stabilità” che opera ciecamente sui bilanci e sulle risorse dei Comuni in nome di una politica di austerità dettata dagli interessi della finanza a livello nazionale, europeo e mondiale. Questa è funzionale a spingere verso la privatizzazione di asset importanti dei Comuni, alla svendita di parti importanti del patrimonio immobiliare delle città, allo smantellamento dei servizi strategici che possono garantire la coesione sociale; in sostanza, all’impoverimento del pubblico e all’arricchimento del privato. Altra cosa è la sana ed efficiente gestione delle risorse.

Serve, contrariamente a quanto sostengono tanti che si propongono alla candidatura da Sindaco, smantellare la logica del “Modello Roma” che ha già prodotto danni sociali visibili nello stato degradato delle periferie, nel caos della città storica, nella realtà di centinaia di migliaia di appartamenti vuoti, interi quartieri nuovi di invenduto, e di decine di migliaia di famiglie senza casa o con il rischio immanente di perderla. Quel modello ha prodotto, dietro i riflettori della città in vetrina, i campi di segregazione dei rom, in nome dello smantellamento degli insediamenti abusivi di zingari ed immigrati, dando vita a quel circuito perverso di corruzione e concussione di Mafia Capitale. A meno di non pensare che il potente Odevaine, severo ed inflessibile incaricato di organizzare la “ripulitura” della città da parte dell’olimpico Veltroni, sia stato folgorato dagli strali del malaffare sulla via di Alemanno. Dal punto di vita politico, altro da quello giudiziario, diventa facile comprendere come quei traffici, sulla pelle degli ultimi e degli operatori sociali incaricati di assisterli in qualche modo, abbiano vissuto di intrecci e compartecipazioni di persone pure di forze politiche diverse e, almeno in teoria, tra di loro alternative.

Per questo non bastano operazioni di facciata, volti nuovi da portare alla ribalta. Serve recuperare forti principi e idealità, è necessario elaborare grandi progetti di riorganizzazione urbana e sociale volti alla inclusione e all’accoglienza, mettere in campo intelligenze, competenze e personalità capaci di penetrare i problemi e di costruire le soluzioni più adeguate per far sì che l’accoglienza degli ultimi non sia percepita e vissuta come penalizzazione dei penultimi. Per questo le politiche sociali e quelle urbanistiche debbono fare parte di un unico disegno e questo non può derivare dalle sciagurate e bulimiche scelte del Piano Regolatore di Veltroni o dalle sue estemporanee politiche per le periferie, anzi ne presuppone la radicale revisione quantitativa e qualitativa.

Mafia Capitale non si può chiudere con le condanne in sede giudiziaria pensando che, tolte le mele marce, si possa continuare a vendere lo stesso prodotto.

Per questo appaiono galleggiare sul lago del politicismo e della propaganda le idee che finora si confrontano sul piano politico in vista delle elezioni del Sindaco e del Consiglio Comunale e, dietro i fantasiosi pensatoi di antichi e nuovi notabili, si intravedono le trame che i poteri forti tradizionali cercano di intessere in questo frangente.

Valorizzare le energie.

Eppure nella società romana, per quanto fiaccata e demotivata, resistono forme aggregative di resistenza sociale, centri ed organizzazioni storiche di solidarietà legati alla chiesa Cattolica e anche ad altre confessioni religiose, tentativi frustrati di far vivere in forme socializzate beni comuni culturali, le realtà dei Centri Sociali, spesso unici luoghi aggregativi e solidali in quartieri privi dei minimi servizi civili e sociali, sopravvissuti alla malintesa politica legalitaria che ha portato la giunta Marino ad interventi brutali di sgombero e persino di demolizione.  Nascono, malgrado tutto, nuove forme di lavoro autogestito, di mutualismo sociale e solidale.
Queste realtà, quando non si propongono come gruppi di potere con lo scopo di influenzare le politiche delle amministrazioni a propri fini ed interessi, possono costituire un tessuto di grande qualità per cambiare il volto di una città incattivita dalle politiche arroganti e discriminatorie che hanno trasferito risorse dal basso verso l’alto, tagliato sulle esigenze dei ceti deboli per garantire lo status di quelli forti, penalizzato la città per soddisfare le attese dei poteri forti. Un tessuto che può dimostrare come, tra una gestione pubblica e clientelare, spesso anche inefficiente, e una gestione privata e finalizzata alla appropriazione di risorse e al profitto, può vivere una dimensione sociale e solidale, cooperativa e mutualistica, di beni comuni.

Occorre chiudere la fase sciagurata imperniata sulla competizione, che ha fatto vincere i forti e i potenti e gli arroganti sul piano politico economico e sociale, e aprire una nuova fase fondata sulla cooperazione come strumento capace di potenziare le capacità collettive sociali di questa città, i suoi veri anticorpi.

Alcune forze politiche legate alle proprie radici storiche immerse nel movimento operaio e popolare di derivazione socialista e cattolico, e altre che sono espressione delle realtà dei movimenti sociali e civici radicatisi in questi anni duri, malgrado reciproche e spesso legittime diffidenze, tentano faticosamente di ragionare sul futuro della Città ed è auspicabile che possano far sentire la propria voce e svolgere un ruolo importante nella ricostruzione dello spirito e della vita di questa Roma a cui le imbelli classi dirigenti succedutesi in questi anni, non sapendo darle un ruolo ed una consistenza effettiva, hanno pensato di supplire affiancandole il titolo di Capitale.

Si tratta di recuperare dalle esperienze migliori di questa città, da Nathan dei primi del ‘900 ad Argan e Petroselli degli anni ’70. Si tratta di raccogliere dalla semina del convegno diocesano sui “Mali della Città” del Cardinale Poletti e di Don Luigi Di Liegro, e di quello comunista su “Roma da slegare”, dai contributi fondamentali di Antonio Cederna e di Aldo Natoli. Dopo anni di mediocrità pusillanime, si tratta di recuperare e mettere a valore il contributo che grandi intellettuali hanno dato e danno, spesso inascoltati e persino combattuti e derisi da politici presuntuosi ed arroganti, per delineare un progetto di Città.
E si tratta di intendere fino in fondo le parole forti di Papa Francesco che parla alle genti della città e del mondo sostenendo le vittime e nominando le responsabilità dei colpevoli.

Se si saprà riflettere e fare crescere una riflessione collettiva, plurale, sociale su questi temi forse si potrà dare un contributo affinché le tristezze degli ultimi quindici anni, fino all’ascesa del furbo Renzi e alla caduta dell’ignavo Marino, non passino come acqua sotto i ponti del Tevere e producano la scossa necessaria per cambiare verso e ridare il senso di se ad una città e ad una comunità che hanno pagato prezzi inaccettabili. La storica denuncia di Italo Insolera, “nazione corrotta, capitale infetta”, è di bruciante attualità.

Salvatore Bonadonna

Assessore regionale all’Urbanistica e alla Casa della Regione Lazio nella Giunta Badaloni, 1995-2000.

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