Si, siamo stati bambini anche noi

per Gian Franco Ferraris

di Grazia Nardi

Confermo che invecchiando il pensiero va con più frequenza agli anni dell’infanzia, non necessariamente per motivi nostalgici o uno scontato rimpianto che, ad ogni età, ti fa apparire migliore il “com’eravamo”.

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Non sempre l’infanzia è il momento più felice anche se contiene in sé un pregio esclusivo: la possibilità di rinviare la realizzazione dei sogni. Si è veramente vecchi quando non ci si concede più il tempo.
Ma non è questo lo spirito con cui ritorno spesso agli anni 50.
E’ che ad un certo punto la mente chiude il cerchio da dove sei partita e scopri che là, in quei primi anni, affondano le radici della tua personalità. Lì hai acquisito i pregiudizi ma anche le doti ed anche gli antidoti al pari degli anticorpi trasmessi dal latte materno.
Quando la mamma ti diceva : se t’vein a chesa pianzend me at dag e’ rest (se vieni a casa piangendo… ti do il resto), tradotto voleva dire non poter contare sulla protezione, a prescindere…. non dico un’istigazione a farsi giustizia da sé ma certamente a farsi le proprie ragioni, quando si pensava di averle, senza pesare sulla famiglia che di pensieri ne aveva già troppi.
E’ una caratteristica che non ho mai perso.
Ho sempre provato un misto tra rabbia e commiserazione per i bambini miei coetanei che piangevano in via preventiva solo per accaparrarsi la benevolenza dei genitori… un po’ come i calciatori che si buttano a terra prima di subire il fallo.
Del resto mia mamma racconta che alla sua, mia nonna, si rivolgeva col “voi” e di essere stata rincorsa e picchiata, quella volta che le sfuggì per caso e per sbaglio un confidenziale “tu”.

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Sarà per questo che le mamme, allora, pur accettando ogni sacrificio per amore dei figli (ricordo il detto: è marid è vein dala porta, i fiol de cor (il marito viene dalla portaovvero è pur sempre un estraneo, i figli dal cuore), non erano particolarmente espansive o prodighe di sdolcinerie.
Ad ogni attacco di febbre traspariva la preoccupazione dal volto che s’incupiva, in casa non c’erano scorte di farmaci come capita oggi, e nemmeno i soldi per il pediatra cui si ricorreva in via del tutto eccezionale né si poteva contare sul servizio sanitario nazionale attivato successivamente. I rimedi erano prevalentemente naturali: la cerata con la chiara dell’uovo per le storte alle caviglie, gli impiastri sul petto con i semi di lino per la bronchite, il latte materno per l’otite, sciacqui con infuso di malva raccolta in qualche giardino contro il mal denti, la patata grattugiata sulle scottature in alternativa ad un filo d’olio troppo costoso, fumenti con acqua calda e bicarbonato per combattere il raffreddore … fino ad arrivare ai rimedi popolari: cacciare il singhiozzo spaventando con un “bu” urlato alle spalle, tracciare con la vera il segno della croce sopra un orzaiolo per farlo sparire, bagnare gli occhi ai più piccoli al suono delle campane di pasqua per farli camminare prima…
Ma al primo cenno di malessere, qualunque fosse la natura, non si scampava al clistere, mica la pirettina..ma una specie di cisterna collegata con un tubo che spaventava anche solo a vederlo.. c’era la convinzione che “essere sporchi dentro” fosse la causa di tutti i mali …

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Comunque non ricordo coccole o di aver ricevuto baci o abbracci.. c’era una sorta di pudore anche tra genitori e figli, fino a pensare che l’ostentazione dell’affetto fosse un esibizionismo un po’ ipocrita. E valeva anche per le effusioni tra moglie e marito.
Una prova che i film fossero finzione, a noi bambini, ci veniva anche dai dialoghi che intercorrevano tra i protagonisti.
Impensabile “cara/o, ti amo” sulla bocca del babbo od anche della mamma.
Ed anche questo è il limite che mi sono portata dietro…. Ma alzino la mano quanti, della mia generazione, abbiano usato questa espressione.
Quel mondo popolare o meglio, popolano, che uscito dalla guerra s’affacciava ad una normalità tutta da costruire, sapeva apprezzare la saggezza degli anziani, l’oratoria dei grandi della politica, il vissuto dei partigiani, guardava incuriosito i film americani che rimandavano l’immagine di un benessere più diffuso ma era più vicino all’essenzialità del neorealismo italiano e non era pronto ad accettare dai propri simili modi e forme che apparivano grottesche nel nostro ambiente. Così se uno s’azzardava a pronunciare correttamente il nome di un divo americano solo per averlo sentito dire, veniva guardato male, un sburon, si diceva. Ed allora sono rimasti per sempre Gerri Levis, Toni CUrtis, Ernesto Borgnine, Lana TUrner, Chirc Duglas, Vittor Mature, Van Ionson…
Il riscaldamento con la stufa a legna razionata, i muri segnati dall’umidità garantivano una tosse catarrosa che cercavamo di reprimere per timore di uno sciroppo, al creosoto, disgustoso mentre la mamma incitava: spuda, spuda!

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Non era un caso che i bambini o gli adulti mai cresciuti venissero sopranominati “murgantun”… perché c’era un fermo immagine che caratterizzava i bambini di allora: il moccio al naso, perenne, giallo o verdastro a seconda dello stadio, che italianizzavamo col termine “muccioli” e che le mamme, quando erano nelle vicinanze, ripulivano con il loro fazzoletto quasi strappandoti il naso: vein i que c’at pules i murghent, an pos sentì tirè d’inso’… sÓffia, sóffia…diversamente il sistema più rapido era usare la manica della maglia. Una strisciata a sinistra ed una a destra ed il gioco era fatto!
Ma c’era anche un altro marchio che segnava inesorabilmente i bambini..dirò…

5 luglio 2014

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